"In Italia resta un deficit di cultura
liberale"
intervista con Lorenzo Infantino di Stefano Magni
Il professor Lorenzo Infantino parteciperà alla Marcia per il
libero mercato come relatore della conferenza "Capitalismo e
Libertà", in coda alla marcia stessa. Titolare della cattedra di
Metodologia delle scienze sociali alla facoltà di Economia e
commercio della Luiss Guido Carli di Roma, il professor Infantino
è uno dei principali studiosi e divulgatori della cultura liberale
in Italia. Ha scritto saggi, curato antologie dei classici del
pensiero liberale. Lo abbiamo interpellato per spiegarci le
ragioni di una presenza in piazza, così singolare per un
intellettuale liberista.
Professor Infantino, perché ha deciso di
aderire alla manifestazione della Marcia per il libero mercato?
Le disgrazie non vengono mai da sole e vengono sovente da molto
lontano. E' dal diciannovesimo secolo che nel nostro paese la
cultura di mercato è sostenuta da una minoranza culturale. Già
Francesco Ferrara lamentava l'affermazione in Italia di quello che
egli chiamava "germanesimo economico". E' da quel periodo che
viene la distinzione tra liberalismo e liberismo, l'illusione cioè
che si possa essere liberali negando le ragioni della libertà
economica. E' un'incomprensione sociologica, da cui anche ai
nostri giorni non riusciamo ad affrancarci. Quel che bisogna
comprendere è che siamo partiti in ritardo e con il piede
sbagliato. E abbiamo poi attraversato alcuni crocevia, quali la
Prima guerra mondiale, il fascismo, la Seconda guerra mondiale,
l'interventismo catto-comunista, che sono in perfetta continuità
con l'iniziale deficit di cultura liberale.
Capitalismo, libero mercato. Perché, secondo
lei queste parole rimangono in Italia come parte di un "ideale
sconosciuto"?
Perché meravigliarsi di ciò? Non abbiamo un passato liberale. Il
capitalismo e il libero mercato non sono stati solo un "ideale
sconosciuto". Sono stati soprattutto gli idoli polemici contro cui
una cieca e retriva cultura provinciale ha sistematicamente
scagliato i suoi anatemi. Il provincialismo è assurto a visione
privilegiata dello sviluppo storico. Di tale provincialismo hanno
vissuto schiere di intellettuali e di burocrati, estesi ceti
sociali che il mercato avrebbe privato del loro ruolo. Sarebbe
stato contro i loro interessi promuovere un'apertura al mondo
della nostra cultura. Ecco perché un classico come "Socialismo" di
Ludwig von Mises è giunto in Italia con settant'anni di ritardo e
"La società aperta e i suoi nemici" di Popper con quasi trenta. I
mutamenti culturali non si possono realizzare senza mutamenti
sociali. La strada che dobbiamo percorrere è perciò molto lunga.
Saremo aiutati dalla globalizzazione, ma ci vorrà tanta tenacia e
l'innesto delle fresche energie delle più giovani generazioni, che
solo in un mondo aperto possono vedere soddisfatte le loro
esigenze, realizzati i loro progetti di vita.
Popper, Hayek, Rothbard, Ayn Rand: le guide
intellettuali del liberalismo si moltiplicano e si dividono
nell'ultimo mezzo secolo di storia del pensiero politico. Su quali
valori e su quali idee dovrebbe basarsi il liberalismo del futuro?
Il liberalismo del futuro conserverà sempre la sua struttura
originaria. E' dai tempi di Atene che i sostenitori della "società
aperta" sono tali perché rifiutano l'assolutismo gnoseologico, il
punto di vista privilegiato sul mondo. Senza fallibilismo e
tolleranza non ci può essere libertà. Ciò è quanto valeva ieri,
vale oggi, e varrà domani. La lunga tradizione che da Mandeville,
Hume e Smith giunge a Hayek e Bruno Leoni fornisce una lucida
giustificazione gnoseologica della "società aperta". Abbiamo
bisogno della libertà, della cooperazione su una base di reciproca
tolleranza, per poter scoprire chi di noi sa far meglio. La
società libera, mettendo a confronto soluzioni alternative, è una
formidabile macchina per la correzione degli errori e
l'esplorazione dell'ignoto.
Passando all'attualità: quale significato
attribuire all'11 settembre? Si tratta di un attacco alla società
aperta e ai suoi valori, motivato da ostilità
ideologico-religiose? O si tratta, come ritengono i libertari, di
una risposta illegittima a un'altrettanto illegittima politica
americana di "polizia mondiale"?
Non condivido alcune estremizzazzioni libertarie. Tutti possiamo
commettere errori. Ed è per questo che abbiamo bisogno della
libertà per correggerci. Ma non possiamo porre sullo stesso piano
gli errori (pur ammesso che siano tali) compiuti da un sistema
politico basato sulla democrazia e le follie di alcune frange
minoritarie che, più che animate dal risentimento, sembrano
tragicamente giocare una partita da "signorini viziati", immemori
del principio di responsabilità e indifferenti nei confronti del
destino delle masse che essi dicono di voler riscattare. Del
terrorismo dobbiamo liberarci, per noi e per gli altri. Questo,
ovviamente, non significa che dobbiamo giudicare benvenuta la
guerra o ritenere, come ha fatto qualche economista di molto poca
cultura, che la guerra sia uno strumento di sviluppo.
L'uguaglianza fra guerra e sviluppo è solo una scemenza. Non ne
ridiamo, perché reca in sé una rabbrividente tristezza.
Comunque, dopo l'11 settembre, le minacce
alla libertà sono diventate tante e visibili: terrorismo,
restrizioni alla libertà personale date dallo stato di emergenza e
il pericolo di una "nuova Yalta" diplomatica che legittimi Russia
e Cina. Quale, secondo lei, è il più concreto rischio che corrono
oggi i nostri diritti?
Nessun liberale può vedere di buon occhio alcune restrizioni alla
libertà che pure oggi, soprattutto in America, si subiscono. E
nessun liberale può restare indifferente di fronte a una
coalizione dentro cui si trova anche un paese come la Cina. Ma il
terrorismo viene prima di ogni cosa, perché la libertà sopravvive
se si seguono regole di reciproco rispetto. Non è da liberali
guardare al futuro con pessimismo. Un liberale sa, come ripeteva
Popper, che il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza. E sa
che, nel medio e lungo periodo, la libertà svelle tutte le
possibili "muraglie cinesi", perché dà agli uomini un mondo
completamente diverso, più remunerativo e più affascinante di
quello che altri sistemi possono dare.
Oggi si ritiene comunemente che il
"neoliberismo" sia ormai un sistema da superare. Il liberalismo
tornerà ad essere un "brontosauro" dopo una parentesi ventennale
di rinascita?
Il futuro della libertà dipende dalle idee che noi abbracciamo.
Soprattutto nel ventesimo secolo, la libertà ha conosciuto momenti
superlativamente tragici e bui. Negli anni Venti, come Hayek ha
ricordato, c'erano nel mondo solo tre centri di irradiazione del
pensiero liberale, che muovevano soprattutto attorno all'attività
di tre uomini: Ludwig von Mises a Vienna, Edwin Cannan a Londra,
Frank Knight a Chicago. Malgrado lo spessore di questi uomini, non
possiamo dire che l'opera da essi tentata coinvolgesse vasti
strati della popolazione. E tuttavia, proprio quando sembrava che
il totalitrarismo potesse estirpare le radici della libertà,
queste hanno dato una nuova e grandiosa fioritura. E altre
fioriture ci saranno, che noi non possiamo nemmeno sospettare,
perché quello liberale è un mondo aperto.
Cosa vuol dire essere liberali oggi?
Essere oggi liberali può significare molte cose. C'è tuttavia un
obbligo a cui un vero liberale non può mai sottrarsi: quello di
fare della libertà la base di ogni progetto e di ogni futuro.
Perché, come diceva Tocqueville, "chi nella libertà cerca qualcosa
che non sia le stessa libertà è nato per servire".
29 novembre 2001
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