Guerra e democrazie: quei politici diventati leader
di Pierluigi Mennitti


La drammatica crisi cui sono sottoposte le leadership dei paesi democratici sta producendo i suoi effetti. Uomini politici approdati alla guida dei governi stanno mostrando, nella prova tremenda della guerra al terrorismo, di essere all’altezza della situazione. Piccoli leader crescono, si potrebbe dire, e con loro cresce il livello dei rispettivi paesi che uscivano da tensioni difficili e da scollamenti istituzionali. E’ accaduto a George W. Bush, emerso da una battaglia elettorale che aveva seminato uno strascico di polemiche devastanti per la più orgogliosa e sperimentata democrazia del pianeta, costretto a misurarsi sulla validità di un foro sulla scheda elettorale con un avversario - Al Gore - che aveva preso a battere tutte le corti di giustizia pur di non dover rinunciare al sogno dell’adolescenza, fare il presidente. Bush s’era trascinato come un fardello quella W del secondo nome, figlio di, predestinato, forse incapace a guidare un paese tanto grande. Poi è stato messo, assieme al suo paese, davanti alla prova più tremenda: l’attentato terroristico più grave di tutti i tempi moderni. E da quel momento Bush s’è scrollato la W di dosso e s’è messo a fare il presidente di tutti gli americani, prendendo per mano un paese scosso e smarrito, infondendogli coraggio e nuova fiducia e governandolo nella lunga e difficile prova della guerra.

Poi è successo anche a Tony Blair, la cui popolarità è sempre stata, negli ultimi tempi, più alta qui da noi che in patria. Il premier laburista è apparso ai suoi concittadini sempre il minore dei mali: certo più affidabile di una destra allo sbando dopo i trionfi tatcheriani, ma fumoso, inaffidabile, opportunista. Ma quando è arrivato il momento di restituire alla Gran Bretagna un ruolo di primo piano sulla scena internazionale, di rafforzare quell’asse con gli americani che fu fondamentale nella costruzione dell’Occidente libero dopo la seconda guerra mondiale, Blair non ha avuto tentennamenti e si è messo al fianco dell’alleato storico giocando un fondamentale ruolo militare e diplomatico. In qualche modo sta accadendo anche a Schroeder, incerto e supponente governante tedesco, giunto sulla scena politica con il più classico dei motti egocentrici, “da bin ich”, e poi sopravvissuto solo grazie allo scandalo dei fondi neri che ha travolto Kohl e il suo partito. La Germania vive il momento economico più difficile degli ultimi anni, stretta tra recessione e disoccupazione. Lo stesso Schroeder ha dovuto dichiarare alla stampa il proprio fallimento su questo versante. Ma allo stesso tempo, nel momento della scelta militare, non ha avuto tentennamenti nel confrontarsi con una maggioranza riluttante (nei verdi l’ostilità alla guerra è fortissima) e con un’opinione pubblica largamente pacifista. E ha deciso l’intervento di 3mila 900 uomini per la campagna in Afghanistan: una scelta storica se si pensa che è la prima volta dalla seconda guerra mondiale.

Da ieri anche Berlusconi è entrato di diritto nel novero dei politici diventati leader. Ha preso pure lui per mano un paese da sempre restio ad assumersi le proprie responsabilità in politica estera e ha fronteggiato il buonismo ambiguo del pacifismo nostrano. Ha messo l’opposizione di fronte ad una scelta bipartisan costringendola a tagliare i ponti con l’estremismo di sinistra (ancora ad Assisi i responsabili dell’Ulivo avevano marciato nello stesso calderone con Agnoletto e Casarini). Poi ha lavorato diplomaticamente assieme ai suoi ministri degli Esteri e della Difesa per superare l’isolamento al quale ci volevano relegare alcuni partner europei un po’ troppo disinvolti. Infine ha guidato il dibattito parlamentare sull’entrata dell’Italia in guerra in maniera sobria e decisa, evitando di drammatizzare le divisioni nell’opposizione e puntando alla massima unità possibile. E proprio nel momento in cui i sondaggi d’opinione evidenziavano, per la prima volta dall’11 settembre, un recupero deciso dei contrari all’intervento. Il premier ha fatto quello che distingue un leader da un politico: non assecondare l’umore generale ma interpretarlo e guidarlo. Oggi è questo il Berlusconi che siede accanto agli altri leader dei paesi democratici, tutti temprati da un’esperienza drammatica come è la guerra. Questa guerra, che si prospetta lunga e difficile.

9 novembre 2001

pmennitti@hotmail.com