Da Jesse Jackson ai no-global, come t’incastro la Nike
di Paolo Zanetto


“Just do it”, fallo e basta. Non deve averci pensato su troppo il reverendo Jesse Jackson, controverso leader politico Usa, sempre pronto ad arringare la comunità afro-americana. Era l’autunno del 1990, la guerra nel Golfo monopolizzava l’attenzione pubblica, George Bush (padre) aveva un indice di gradimento altissimo. Per un aspirante candidato democratico alle elezioni presidenziali del ’92 era il momento di cercare visibilità. E’ in questa situazione che Jackson, tramite la sua organizzazione Operation Push, lancia una grande campagna di boicottaggio, portando il tema del “consumo responsabile” nell’agenda politica americana. La vittima sacrificale è Nike.

Diciotto anni dopo che Phil Knight ha deciso di seguire la sua intuizione geniale, dopo che il fregio noto ai “markettari” semplicemente come “swoosh” ha invaso il mercato, dopo che Michael Jordan ha accostato il suo nome a quello di un paio di scarpe, un’organizzazione di consumatori ha deciso di contrapporsi all’azienda. L’accusa di Jackson era chiara: nonostante Nike vendesse più del 40 percento dei suoi prodotti ai neri, non c’erano afro-americani nel top management dell’azienda, che oltretutto non concedeva abbastanza benefici alla comunità nera. Per far terminare il boicottaggio, Operation Push chiedeva che l’azienda iniziasse a utilizzare studi legali, agenzie pubblicitarie e banche “all black”, e che promuovesse presto degli afro-americani nella direzione generale. Per un’azienda come Nike il logo, o per meglio dire il brand, è il patrimonio più grande, e c’era grande paura di subire conseguenze nelle vendite.

Passati un paio di mesi, tuttavia, i risultati del boicottaggio non si sentivano. Secondo un’inchiesta del Chicago Tribune le vendite di scarpe non erano diminuite neanche un po’. Eppure di lì a poco l’azienda iniziò ad essere più disponibile verso la comunità nera, e a venire a patti con le richieste dell’organizzazione del reverendo Jackson. Nike è stata tra le prime aziende a dialogare con i suoi contestatori, con risultati tutti da valutare. Quando a metà degli anni Novanta è scoppiato lo scandalo mondiale per lo sfruttamento di lavoro minorile in Pakistan, il boicottaggio dei prodotti della società americana si è diffuso a livello mondiale. Eppure erano tante le compagnie coinvolte in questo genere di attività. I contestatori hanno scommesso che, aggredendo Nike, potevano ottenere benefici molto concreti, forse non solo in termini di etica del commercio.

La collaborazione tra Nike e quello che oggi definiremmo “popolo di Seattle” ha raggiunto livelli ancora più alti negli anni successivi, coinvolgendo le organizzazioni contro il libero commercio nella stesura del suo “codice di condotta etica”. Nove mesi fa in Messico è nata una contesa sindacale in una fabbrica a Puebla: gli operai protestavano per le condizioni di lavoro. La fabbrica, di proprietà di una società coreana, produceva scarpe da tennis per diversi marchi, tra cui Reebok e Nike. In questa lunga catena di passaggi, i no global hanno pensato bene di puntare il dito soltanto contro Nike, sfruttatrice dei lavoratori. Un gruppo americano, Verité, ha fatto un’escursione nella fabbrica messicana a febbraio, ricavandone un dossier d’accusa contro Nike. Nello stesso mese un’altra organizzazione, Global Alliance for Workers, stilava un simile rapporto inquisitorio sulle condizioni degli operai Nike in Indonesia.

In tutto questo c’è solo un fatto strano: i due rapporti sono stati finanziati e pubblicati da Nike. Ancora oggi è possibile scaricare il materiale (www.nikebiz.com/labor/kudong_gla.shtml) dal sito web ufficiale dell’azienda: “Le voci dei lavoratori: un dossier interno”. A piè di pagina, più piccolo, c’è scritto: “In partnership with Nike Inc.”. Va bene che, come ha dichiarato recentemente il portavoce europeo dell’azienda, l’italiano Massimo Giunco, “il fenomeno dei consumi no logo non ha avuto alcun impatto negativo sulle nostre vendite”. Però non ha avuto impatti su nessun marchio, nemmeno su quelli delle altre cento aziende che secondo gli antigiottini dovrebbero essere boicottate. Nike, pensando di essere furba, ha voluto trattare con i suoi contestatori, con risultati davvero deludenti. Speriamo che sia una lezione non solo per Phil Knight e compagni, ma anche per tutti quegli imprenditori che hanno paura a battersi apertamente per la globalizzazione e il libero mercato. Con gente come gli anti-global non è il caso di fare gara a chi è più furbo.

1 novembre 2001

zanetto@tin.it

 

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NIKE

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