Lo scenario ignoto dell’età della conoscenza
di Giulio Tremonti


Se Walt Disney creasse ora, come archetipi “paperonici” della ricchezza, non userebbe più John P. Morgan (acciaio) e John D. Rockfeller (petrolio), ma Bill Gates (informatica) o George Soros (finanza). Simboli nuovi, questi, di una ricchezza che, con un’accelerazione crescente negli ultimi dieci anni, si è radicalmente e strutturalmente modificata. Mi rendo conto che questa prima riflessione svela uno scenario di letture criticabili, nella loro limitata ortodossia. In specie, da quando, leggendo un “fondo” del Corriere della Sera, ho appreso di rappresentare in Parlamento una forza politica “totalmente priva di legittimazione culturale”, sono colpito proprio dal problema della “legittimazione culturale”. Per questo, cerco di superare la prima impressione, e di legittimarmi “culturalmente”, con la citazione di due miei “fondi”, pubblicati sul Corriere della Sera, rispettivamente il 19 luglio 1989 ed il 27 luglio 1988.

Il primo “fondo”, scritto nell’anno bicentenario della Rivoluzione francese (luglio 1789, luglio 1989), conteneva una previsione “politica”: come il 1789 era stato anno di avvio di rivoluzioni “parlamentari” (nel senso della costruzione dello “Stato-nazione”, come macchina politica moderna), così il 1989 sarebbe stato anno di avvio di rivoluzioni “extraparlamentari” (nel senso del principio della crisi dello “Stato-nazione”). Era soltanto un articolo di giornale, certo, ma non mi pare che, all’epoca, la letteratura in materia al riguardo fosse particolarmente ampia! Subito dopo, nell’autunno del 1989, con il big bang prodotto dalla caduta del muro di Berlino, sarebbe realmente iniziata la crisi del vecchio ordine politico.

Il secondo “fondo”, scritto l’anno prima, conteneva l’elenco dei fattori “economici” che, allora in essere solo in nuce, avrebbero poi strutturalmente causato proprio quelle intense successive mutazioni dell’ordine economico e politico. Sia consentito, in ragione del tema di questo intervento, svilupparne qui di seguito una sintesi. “La ricchezza non si dirada ai margini del mondo reale: qui piuttosto si trasforma e riappare, in forme diverse lo sviluppo economico non è infatti più associato all’incremento del consumo di materie prime. Dal know how alle griffes, dai network alla dematerializzazione dei titoli di credito, dal software all’oggetto del franchising, si assiste all’apparire incessante di nuovi beni immateriali e alla rarefazione o alla caduta di valore di alcuni beni materiali, in un processo che dipende essenzialmente da tre fattori: a) dal passaggio da una società dei patrimoni a una società delle conoscenze. In un mondo dominato da complessità crescenti, non conta tanto quello che si ha, quanto quello che si sa, mezzo per avere molto di più.

Il valore delle conoscenze è del resto enormemente amplificato dalla possibilità di trasmetterle in termini economicamente utili: dai portafogli di clienti potenziali, alle serie statistiche, ai dati di mercato istantanei, molte informazioni non circolano perché hanno un valore, ma hanno un valore perché circolano (nota dell’autore: non sembra, questa di tredici anni fa, già la “visione” di Internet?); b) dalla finanziarizzazione dell’economia. Per secoli gli scambi sono avvenuti rasente il suolo ed il deficit di finanza è stato un limite dello sviluppo economico. Ora è l’opposto: per ogni transazione reale se ne contano almeno dieci finanziarie. La finanza ha pervaso l’economia, trasmettendo sollecitazioni continue; c) dall’internazionalizzazione crescente dei rapporti e delle ragioni di scambio. In Europa, la caduta delle barriere interne avrà effetti, più che sulla produzione, sulla distribuzione e farà perciò crescere il valore dei servizi capaci di mobilizzare i beni su mercati destinati ad integrarsi. Ma, soprattutto, si tratta di un fenomeno mondiale. Questi fattori agiscono fortemente sulla struttura e sulla composizione della ricchezza, […] i contratti non serviranno più solo per scambiare la ricchezza materiale, ma per creare ricchezza attraverso combinazioni nuove di beni e di servizi. Continua dunque ed anzi si sviluppa la magia dal Faust di Goethe, lo scambio dell’oro contro la carta, il passaggio di valore dalle cose materiali a quelle immateriali”. 

Tredici anni dopo, questa “visione” si è concretizzata (si sta concretizzando). La rivoluzione post-industriale è stata prima incubata, nel mezzo secolo della Guerra Fredda. Una forma di “guerra” non “guerra”, questa, che da un lato riservava al dominio militare, economicamente sterile, la parte più significativa della “proprietà scientifica”; dall’altro lato, segmentava i mercati, determinando vastissime no-commerce areas. Poi, tutto è improvvisamente cambiato. E non per caso, ma pour cause, come si è premesso, la rivoluzione post-industriale è iniziata, e poi è esplosa, subito a ridosso della caduta del muro di Berlino. Il passaggio “da una società dei patrimoni ad una società delle conoscenze” modifica le strutture dell’esistente. Non solo fa avanzare in progress la frontiera scientifica, ma supera antichi, e un tempo insuperabili, differenziali geografici, di classe e di status sociale. Erode basi storiche di privilegio, abbatte equilibri costituiti, supera confini, offre a persone e paesi chances di sviluppo fino a qualche anno fa impensabili e impossibili.

Da allora, tutto è dunque davvero cambiato. Nel passaggio dall’Arbeiter al computer, è lo spirito del tempo che è radicalmente mutato. Il collettivo (lo “Stato”, la “fabbrica”, eccetera) non è più progresso. Ed il progresso non è più “collettivo”. E questo mette fuori gioco la “sinistra statalista”, la cui cultura, il cui meccano mentale, sono storicamente basati sulla doppia sequenza: collettivo-progresso; progresso-collettivo. Ma, cosa è, per gli altri? In prima approssimazione, si potrebbe pensare che si schiude l’“età dell’oro” della “destra liberale”, capace di ambientarsi idealmente nel nuovo dominio di libertà creato dalla nuova economia. Ciò è fortemente probabile. Ma richiede, in più, un profondo ordine di riflessioni. Per cominciare, un discorso sul metodo. La vecchia gloriosa letteratura liberale, cui convenzionalmente si fa ancora riferimento nel trattare in materia di libertà economiche, sulla base dell’argumentum ab auctoritate, è destinata a perdere progressivamente senso, perché è stata sviluppata e scritta in un mondo e per un mondo che non c’è più. La intensità della mutatio rerum impone la radicalità di una visione diversa. Un autore del Novecento non serve quasi più, per spiegare il secolo che viene. La struttura della ricchezza, la sua produzione e distribuzione, il ruolo dello Stato, le fonti dei diritti di libertà, sono tutte radicalmente mutate.

La dimensione della libertà, inclusa la dimensione della libertà economica, si sta sviluppando, in positivo o in negativo, ma comunque in forme e domini nuovi, fuori dalla classica dialettica libertà-autorità. La sensazione di chi scrive è che la questione della libertà (economica) è, e sarà, sempre meno una questione pubblica e politica, e sempre più una questione interna e privata; una questione di coscienza e responsabilità proprie. E’ proprio per questa ragione che si apre davanti a noi uno scenario intellettuale radicalmente diverso da quello classico. Uno scenario in cui l’unica forma di conoscenza attualmente e più utilmente praticabile pare essere quella dell’“ignoranza scientifica”: sapere di non sapere.

20 luglio 2001

(da Ideazione 6-2000, novembre-dicembre)




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