Una teoria della globalizzazione
di Carlo Maria Santoro 


“Anarchia più Polizia”. Con questa abbagliante sintesi Thomas Carlyle aveva descritto, quasi due secoli fa, il senso profondo della obbligazione politica all’interno della quale si colloca la scala ad intervalli della libertà. Ma se lo spazio politico della “libertà” corre lungo un continuum che va dall’Anarchia (individuale) alla Polizia (lo Stato), cioè - per dirla con Carl Schmitt - fra i due mostri biblici di Behemot e del Leviatano, allora l’ordine statuale non è altro che il “repressore del caos che nel suo nucleo, cioè negli individui, è irreprimibile” (Schmitt, 1982, p. 77). La libertà politica è, quindi, una questione che attiene anzitutto all’individuo nella sua relazione con lo Stato. Ma nella politica internazionale il problema della libertà diventa molto più complesso. Qui l’Anarchia è ancora di casa mentre la “Polizia” si manifesta sotto le specie dello scontro fra eserciti. Non c’è molto spazio per le libertà individuali perché gli attori che operano nell’arena internazionale sono ancora, grosso modo, gli Stati nazionali che si organizzano in Alleanze (spesso contrapposte) oppure in Istituzioni. Al di là di questo non c’è altro.

Ne abbiamo avuto un esempio durante il tempo della Guerra Fredda, quando la contrapposizione ideologica fra due Weltanschauung si esprimeva in termini di contrapposizione fra formule guerresche (“mondo libero” e “comunismo internazionale”) che nascondevano l’assenza del “sentimento della libertà”. La concezione stessa della libertà, nella sua accezione più alta, fu obbligata a piegarsi alle esigenze del sistema della Guerra Fredda, che le assegnava una funzione strumentale, cosicché anche in Occidente la libertà, invece di essere uno scopo per se stessa, finì per essere una semplice specificazione dell’anticomunismo. Si è trattato di un errore di prospettiva che ha deformato per decenni la consapevolezza della libertà anche in coloro che pure ne erano per definizione i tutori a livello internazionale, gli Stati Uniti in primo luogo, e poi l’Europa occidentale. Questo impianto concettuale era peraltro analogo a quello basato sulla confusione semantica espressa dalla presunta equazione fra “libertà” e “antifascismo”, che ha caratterizzato il tempo della seconda guerra mondiale, e che in molti casi - come in Italia - è spesso ancora utilizzata. 

Ci siamo così abituati a vedere la questione della libertà (degli Stati) come una pura verifica di legittimità internazionale, e non come un valore etico-politico di per sé, aprendo così la strada alla penetrazione di concetti legati più alla gestione della politica bipolare, per evitare la guerra nucleare, che non a incrementare gli spazi di libertà degli individui all’interno degli Stati e degli Stati fra loro. Il dilemma fra “meglio rossi che morti”, ovvero il suo contrario “meglio morti che rossi”, aveva radicalizzato il clima ideale della Guerra Fredda creando una deriva intellettuale pericolosa che assegnava alla libertà il valore astratto di modello politico su cui l’Occidente si misurava nei confronti del modello totalitario comunista, indipendentemente dalla corrispondenza dei contenuti etico-politici della libertà rispetto alle sue forme esteriori.

Di qui le ambivalenze, e soprattutto le contraddizioni, che questa interpretazione della libertà nella politica internazionale ha generato nel corso del mezzo secolo postbellico. Dall’accettazione, all’interno del mondo libero, di Stati e governi autoritari (Spagna, Portogallo, Grecia, Corea del Sud, Taiwan, Brasile, Cile, eccetera), al sostegno di cause perse dell’anticomunismo militante (Vietnam, Cambogia, Laos, eccetera), fino alla disponibilità compromissoria, di segno opposto, nella trattativa sui princìpi con l’Unione Sovietica, nemico ideologico e politico (si vedano i concetti ambigui di “distensione” e “coesistenza pacifica”), l’Occidente ha troppe volte trascurato di adeguarsi alle regole della libertà, in nome dei canoni tradizionali della diplomazia di potenza.

Da ultimo questa istituzionalizzazione formale della libertà, caratterizzata dalla prevalenza dell’ideologia della contrapposizione, ha avuto anche il torto di stabilire una connessione permanente fra i due concetti principali su cui si reggono le società avanzate, definiti dalla relazione dialettica fra libertà e democrazia, espressa ormai, con una contaminatio linguistica discutibile, come “liberaldemocrazia”, quasi che si trattasse di un intreccio inscindibile, o peggio ancora, che nelle società dove si trovano i segni formali della democrazia, intesi come set di regole, vi alberghi automaticamente anche la vera libertà. Al punto che in taluni casi molti intellettuali occidentali hanno spesso parlato della contrapposizione fra democrazia “formale” e democrazia “sostanziale”, dando per scontato l’uso definitorio di questi termini nel linguaggio del comunismo internazionale che - come si sa - amava autoproclamarsi “democratico” e “popolare”.

La libertà e l’ordine internazionale

L’equivoco non si è purtroppo dissolto neppure con la fine della Guerra Fredda, la sconfitta storica del comunismo e l’espansione della democrazia formale. Al contrario la diffusione della democrazia delle regole del gioco (essenzialmente: libere elezioni, libertà di espressione, di associazione e di stampa) ha ulteriormente ridotto la domanda di libertà, e ha soprattutto svuotato la procedura delle “verifiche”, rilasciando ad improvvisati regimi postcomunisti o postautoritari, una patente di democrazia, che con un sistema davvero liberale, hanno ben poco a che vedere. All’esame della corrispondenza dei princìpi basilari della libertà con l’andamento reale dei sistemi politici e delle relazioni internazionali, si è così gradualmente sostituito un meccanismo di omogeneizzazione superficiale che tende a legittimare tutte le vere e false democrazie in una sorta di ordine internazionale sancito, anche giuridicamente, dal corpo delle nuove regole del diritto internazionale.

E' stata una grande operazione, messa in opera a partire dalla caduta del muro di Berlino, che ha investito le basi stesse del diritto internazionale pattizio, istituzionalizzando princìpi politici appena delineati, spesso non chiari o contraddittori rispetto ad altre norme già codificate, i quali hanno intaccato la credibilità complessiva del meccanismo normativo. Tale mutazione genetica si è fondata essenzialmente sull’acquisizione di tre “modelli” di cambiamento delle regole del sistema politico internazionale che, presi singolarmente, hanno un loro significato, ma che adottati contemporaneamente, diventano un fattore di pericolosa instabilità:
a) Anzitutto è stato rilanciato, fra il 1989 e il 1991, il modello novecentesco dell’“autodeterminazione dei popoli”, che fin dal 1918 (auspici i padri fondatori della politica internazionale del Novecento, W. Wilson e V. I. Lenin), ha aperto la serie delle crisi, dei conflitti etnici e delle reveries nazionaliste di ogni tipo che hanno alimentato, con conflitti “laterali”, il secolo delle tre guerre mondiali;
b) In secondo luogo si è tradotta acriticamente in norme operative del diritto internazionale quella parte dell’evoluzione parallela del diritto interno che prendeva le mosse dalle conquiste della società civile nei paesi occidentali avanzati, iniziate a partire dal 1968;
c) In terzo luogo è stato “iniettato” all’interno di un sistema in fase di rapido mutamento genetico di tipo liberaldemocratico e formalmente egualitario (cioè pseudoliberale), l’anabolizzante concettuale definito con il termine di “globalizzazione”.
Ogni discorso sulla libertà nel sistema politico internazionale non può non partire da qui, cioè dal tipo di ordine che si è stabilito fra gli attori del sistema. 

La locuzione “ordine” internazionale è infatti un eufemismo per dire due cose molto diverse tra loro, anche se concettualmente intrecciate: a) anarchia organizzata e b) difesa dello status quo, mentre il concetto di libertà internazionale è a sua volta un eufemismo per dire “disordine”, quindi guerra contro lo status quo, ovvero “rivoluzione”, ovvero “frammentazione” anarchica (Waltz, 1954 e 1979). Il dilemma è evidente ma la sua spiegazione è, tutto sommato, piuttosto semplice. Ordine internazionale vuole infatti dire che il codice di comportamento del sistema politico internazionale, di cui il diritto internazionale è per definizione il corpus juris, è sempre lo stesso, cioè quello stabilito dai vincitori delle guerre precedenti. Ne deriva che per avere una situazione stabile di libertà internazionale, diventa necessario che i suoi sostenitori vincano la “guerra costituente” imponendola agli altri (sconfitti e neutrali), modificando cioè lo status quo precedente, ovvero restaurandolo se minacciato (Bobbio, 1979). Ed è quello che è accaduto in questo decennio dopo la fine del bipolarismo poiché la libertà dell’Occidente, le sue regole e le sue forme, sono diventate il modello vincente che vale per tutti, non perché sia migliore degli altri, ma perché rappresenta il codice culturale dei vincitori.

Il Novecento non è stato altro che il campo di battaglia di questa lotta epica fra vecchi padroni del sistema e dello status quo, l’Europa dell’equilibrio di potenza (A. J .P. Taylor, 1954), e i nuovi potenziali padroni, cioè le potenze revisioniste (Germania e Urss-Russia), fino al vincitore ultimo, gli Stati Uniti.
All’inizio del duemila il sistema internazionale vede dunque gli Stati Uniti alla testa di un blocco di Stati vincitori, stratificato e gerarchico, strenui difensori dello status quo post-bipolare, fondato sulla vittoria finale della “marittimità” oceanica nei confronti del “continentalismo” eurasiatico (Schmitt, 1950).
E' stata una partita interminabile, durata un secolo (il “secolo breve” fra il 1914 e il 1989), giocata soprattutto con le armi delle ideologie (comunismo, nazifascismo e liberaldemocrazia) che hanno assunto il ruolo di vere e proprie “teologie politiche” (Schmitt, 1922 e 1970).

Lo scontro si è concentrato alla fin fine sull’inconciliabilità teorica e storica fra sostenitori della “libertà” individuale (l’Occidente) e sostenitori della “Democrazia” di massa (l’Oriente), due tesi manipolate che hanno costituito lo sfondo di legittimazione dei tre conflitti politico-militari decisivi, nel 1914, nel 1939 e nel 1947.
La ipersemplificazione della diade fra mondo libero e comunismo internazionale durante la Guerra Fredda aveva ulteriormente ridotto all’osso questo complesso scenario di confronto fra status quo e revisionismo internazionale, che è iniziato a partire dalla Rivoluzione francese, e che si è poi ripetutamente ripresentato sulla scena del mondo.
Il sistema politico internazionale è passato così attraverso tutto il Novecento mutando di forma, trasformandosi da “multipolare” (in una prima fase) in “bipolare” nella seconda e poi, nella fase attuale, in “unipolare”. La Full Spectrum Dominance (Fsd) degli americani è risultata fin troppo evidente. Questo è il basamento di fatto, al di là delle ideologie di supporto e di mascheramento, su cui sono germogliate le idee della politica internazionale contemporanea, fra le quali quella della globalizzazione.

Verso una teoria della globalizzazione

La teoria della globalizzazione definisce infatti un processo considerato inarrestabile che prefigura il Ventunesimo secolo e le sue guidelines di comportamento in modo lineare e incrementale. Essa sembra così aver assunto un connotato fondante basato sulla sua “inevitabilità”, quasi che si tratti della conseguenza fisiologica dei processi di omogeneizzazione economica e finanziaria. La sua forza concettuale e persuasiva è essenzialmente dovuta alla sua apparente neutralità, alla sua caratterizzazione come fine delle contrapposizioni e dei conflitti sui “fondamentali” che avevano destrutturato e reso tragico il secolo precedente. Per certi aspetti la globalizzazione è una prospettiva di “resurrezione”, in termini tecnologicamente aggiornati, dei princìpi di armonia vigenti al tempo della “Belle Epoque” europea conclusa dai “cannoni d’agosto” del 1914 sui campi di battaglia della Marna e di Tannenberg. Dovrebbe prefigurare una nuova età dell’oro che punta alla compiuta, seppur graduale, realizzazione dell’ineffabile binomio teorico di libertà e democrazia.

C’è in questa visione riduttiva una speranza di virtualità realizzata, tesa alla costruzione di un grande network planetario che tutti unifichi, con il suo potere di Gleichschaltung (Talmon, 1952), nell’ambito della comune cultura, scienza, economia e sistema politico, basato appunto sulla relazione fra il pacchetto crescente delle “libertà” (spesso confuse con i “diritti”) e la dilatazione della “democrazia” (spesso confusa con le “regole” del gioco elettorale).

Si tratta di un fenomeno politico che nasce da un mondo caratterizzato dall’indebolirsi delle istituzioni intermedie (fra cui anche lo Stato-nazione), dal consolidamento dei gruppi e delle organizzazioni non governative dei poteri locali, ai diversi livelli di amministrazione e che si manifesta talvolta come un confronto diretto fra gli individui e le forze globali. L’ipotesi che sta a monte di questo processo presuppone che gli Stati nazionali e le Istituzioni regionali, come l’Unione europea, siano ancora molto forti, o addirittura in espansione, ma che le loro strutture siano ormai permeabili, e che quote sempre crescenti di sovranità, nazionale o locale, vengano distribuite ad altri attori, inclusi gli individui, i quali, in questa chiave, diventerebbero i veri arbitri del funzionamento del sistema internazionale nel suo complesso.
La sua semplicità appare sulle prime convincente perché sembra risolvere molti dei problemi che hanno afflitto da sempre il sistema internazionale, a cominciare da quello della endemica conflittualità internazionale e della carenza di strutture in materia di sicurezza collettiva.

Resta tuttavia un dubbio: il progetto della globalizzazione descrive un nuovo stato di cose in via di formazione, che ci obbliga a rivedere le leggi di movimento della politica internazionale, oppure non si tratta d’altro che di un sintomo dell’accelerazione dei meccanismi di unificazione globale che sono il portato della tecnologia, della rapidità delle comunicazioni, della rete d’informazioni? E, se così fosse, che tipo di effetti potrebbe avere tale processo sui livelli di flessibilità funzionale del sistema internazionale e, in particolare, sui gradini della scala delle libertà, che è premessa necessaria della flessibilità? La risposta è complessa perché da un lato sono evidenti le novità globali che stanno modificando il volto del pianeta, ma dall’altra parte è altrettanto evidente che esistono delle continuità ininterrotte fra passato e presente. Di qui discende anche il rischio di confondere erroneamente la globalizzazione con la libertà. È questo il problema irrisolto della contrapposizione fra sistemi “gerarchici”, ovvero ordinati, e sistemi “a-centrati”, ovvero di anarchia organizzata (Petito, 1972).

Le radici illuministe dell’universalismo

Il sistema politico internazionale è per definizione un sistema anarchico (Waltz, 1979 e 2000). Quello che viene chiamato “ordine internazionale”, è in realtà solo una forma di anarchia organizzata, regolata dalla bilancia degli interessi degli attori in campo. Parlare di libertà nella politica internazionale è quindi vero e falso al tempo stesso. Ma più spesso si tratta di un concetto abusivo perché la libertà, che è un valore essenzialmente individuale, si trasforma a contatto con la libertà degli Stati, delle istituzioni, ovvero dei sub-attori, come le etnie, le società multinazionali, le organizzazioni non governative. La politica internazionale, infatti, non è altro che il sottoprodotto dell’interazione sistemica di questi interessi molteplici che, a vari livelli, intervengono sui suoi processi di formazione e sulle decisioni politiche dei diversi attori.

Il caso studio dei “movimenti” di liberazione e indipendentistici, che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli, e che hanno sempre vissuto questa contraddizione estrema fra anelito alla libertà (nazionale) e coartazione delle libertà (individuali), è un esempio illuminante di questa fisiologica ambivalenza. Le teorie sul nazionalismo, che pure hanno tenuto banco negli ultimi due secoli, non hanno mai saputo dare una vera risposta a questo genere di obiezioni, limitandosi ad evitare il nodo concettuale irrisolto che è alla base di questa contrapposizione, come dimostrano i casi recenti della Serbia, della Palestina, ma anche dell’Italia e della Germania fra l’Ottocento e il Novecento.

Ma anche le teorie universaliste non hanno fatto altro che richiamarsi ai filosofi del passato, da Platone a Kant, per immaginare un mondo libero ma eterodiretto. In effetti la “libertà degli Stati” (centralisti o federali che siano) e delle istituzioni si sovrappone automaticamente alla libertà degli individui e, quindi, ne vincola la crescita. Ma anche l’insorgenza di un’organizzazione virtuale, una regola non scritta che determina il comportamento degli attori statuali e anche degli individui singoli, come nel caso dei “regimi internazionali” (Krasner, 1982), e in particolare nel caso della globalizzazione, che tenta di superare alla radice il dilemma precedente, diventa ancora una volta un problema di libertà in quanto le astratte regole liberiste della globalizzazione non vietano la libertà, bensì la impongono, secondo le costumanze della scuola di pensiero illuminista e giacobina. Che è come dire che ne determinano le rotaie virtuali obbligando a seguirne le direttive in nome della libertà ma nei fatti contro di essa. Il secolo Ventesimo, ad esempio, è stato per intero il secolo della globalizzazione annunciata. Ma anche nell’Ottocento, e fino alla prima guerra mondiale, esisteva già un meccanismo di interdipendenza fra aree regionali, una relazione biunivoca fra Stati nazionali, sia pure suddivisi nelle due categorie delle Grandi Potenze europee da un lato e degli altri attori dall’altro, definito dalla formula del “mondo civile”. 

L’eccezionale incremento delle informazioni, della tecnologia delle comunicazioni, lo sviluppo del commercio, dei traffici e delle forme di scambio internazionale, oltre all’esistenza di un sistema monetario mondiale basato sui cambi fissi e sul Gold Standard, avevano già da tempo gettato le basi di quella globalizzazione de facto che oggi viene presentata come del tutto innovativa. Se volessimo risalire ancora più indietro nel tempo, potremmo arrivare facilmente al secolo Sedicesimo, quando attraverso la veloce cadenza delle grandi scoperte geografiche e della formazione dei primi imperi coloniali oltremare, si costituì per la prima volta un mercato mondiale e interdipendente (Braudel, 1949; Wallerstein, 1975).

Se guardiamo, poi, ai libri pubblicati all’inizio del secolo Ventesimo, da Norman Angell (1911) a Rudolf Hilferding (1910), da Hobson (1903), a Rosa Luxemburg (1911) e a Lenin (1916), non sorprenderà di identificare nei processi di espansione del capitalismo monopolistico e del capitale finanziario, i temi di quelle che verranno chiamate successivamente come le teorie dell’“imperialismo”, e che possono essere appunto considerate come un sinonimo dell’attuale concetto di globalizzazione (Kemp, 1972; Langer, 1938). Prima di loro Karl Marx aveva già previsto che i meccanismi di concentrazione del capitale, attraverso il libero mercato e il free-traderism avrebbero avviato quel processo di omologazione dell’economia basato sulla libertà di movimento dei fattori di produzione, la cui crescita accelera il processo di modernizzazione della società, anche nelle aree più arretrate del mondo. Non si può peraltro nascondere che già le crisi economiche e finanziarie dell’Ottocento, nonché quella più devastante del 1929-’32, avevano dimostrato clamorosamente i rischi connessi all’esistenza di un sistema globalizzato. La relazione stretta fra gli eventi dell’economia e delle borse valori di quegli anni, i contraccolpi del crollo di Wall Street e le ripercussioni politiche e militari che questo evento aveva suscitato in Giappone, in Germania e nel resto del mondo, è oggi un dato dimostrato e indiscusso (Kindleberger, 1973). Così come è altrettanto evidente che alla radice del crollo sovietico nel 1991 si colloca proprio la crescente divaricazione nei differenziali di crescita fra un mondo occidentale, sempre più interdipendente, e la rigidità cadaverica del mondo comunista basato su parametri di compartimentazione e su tassi di crescita stagnanti o negativi.

Il problema della globalizzazione, quindi, non consiste tanto nello stabilire se si tratti di un fenomeno nuovo oppure dell’accentuarsi e del diffondersi capillarmente di un percorso obbligato iniziato con la rivoluzione industriale e tecnologica, quanto nel comprendere se essa esercita un’influenza positiva sulle relazioni politiche internazionali, e per derivazione sullo spazio di libertà degli individui, oppure se è un processo che genera autoritarismo, instabilità e conflitti. Oggi, però, con il termine globalizzazione, s’intende descrivere un fenomeno più complesso basato sulla graduale scomparsa delle barriere non solo economiche o commerciali, ma anche politiche e culturali fra “interno” ed “esterno” nelle relazioni internazionali, dovute all’affermarsi di questioni dette appunto “globali” (ambiente, salute, emigrazione, diritti umani, eccetera), nonché all’emergenza di diritti soggettivi internazionali riconosciuti dagli individui rispetto ai poteri degli Stati nazionali o delle istituzioni. 

Gli americani - è questa la vera novità - tendono però ad appropriarsi di questo concetto adattandolo alla propria filosofia politica internazionale. In un recente documento della Casa Bianca (ottobre 1998) dedicato all’impostazione di una “National Strategy for a New Century” è scritto che “la globalizzazione sta avvicinando i cittadini di tutti i continenti, permettendo loro di condividere idee, beni e informazioni battendo i tasti di un computer. Molte nazioni - continua il testo - intorno al mondo hanno abbracciato i valori fondamentali dell’America basati sul governo rappresentativo, l’economia del libero mercato, il rispetto per i diritti umani fondamentali e la certezza del diritto, creando nuove opportunità di promozione della pace, della prosperità e una maggiore cooperazione fra le nazioni. Antichi avversari cooperano oggi con noi” (p. 1).

L’occupazione dello spazio politico della globalizzazione da parte degli Stati Uniti, che nasce come concetto economico senza titolarità di bandiera, è però, per molti versi, la conseguenza fisiologica della vittoria americana alla fine del secolo Ventesimo, perché i suoi princìpi fanno tutti parte della filosofia politica degli Stati Uniti, fin dal tempo della Rivoluzione americana del Diciottesimo secolo. In particolare il nuovo concetto non è che la traduzione moderna del più tradizionale concetto di “Interdependence” (Keohane e Nye, 1977; Santoro, 1984), che fa parte del lessico politico internazionale degli Stati Uniti fin dalla fine del Diciannovesimo secolo e che consiste nella capacità di far interagire sistemicamente le diverse parti del mondo legandole in una maglia di interessi e vincoli, secondo le regole del pensiero politico ed economico americano.

La scomparsa del nemico e la fine della “minaccia” hanno reso ancora più facile l’operazione che potremmo definire di gestione “prepolitica” del mondo da parte degli Stati Uniti, anche attraverso l’uso della globalizzazione che, per i suoi tratti di processo “necessario” dovuto all’evoluzione dell’economia e delle tecnologie, nasconde la diretta connessione fra interessi globali e interessi americani (Friedman, 1999; Guéhenno, 1998). In questa chiave di lettura, secondo molti osservatori, il “riluttante sceriffo” americano tenderebbe ad occupare solo lo spazio non occupato da altri imprimendo al suo modello una dinamicità espansiva, che diventa per forza di cose dominante (Haas, 1997; Nye, 1990). Quello che resta fuori da questa interpretazione è la questione centrale se la globalizzazione sia o meno un processo ordinativo del sistema politico internazionale, quindi un fenomeno gerarchico, autoritario, eterodiretto dalle grandi potenze occidentali sotto la guida egemonica degli Stati Uniti, ovvero se si tratti di un fenomeno nuovo basato sull’“anomia” e sul pragmatismo empirico dell’autorganizzazione delle tecniche che stanno trasformando il mondo contemporaneo, ampliando gli spazi della libertà, anche individuale (Gilpin, 2000).

La risposta è controintuitiva. Essa va infatti collegata all’attuale fase del sistema internazionale che si caratterizza per la contemporanea presenza di un doppio trend, l’uno orientato alla disgregazione o frammentazione della potenza fra attori minori, sia nazionali che subnazionali, ovvero sopranazionali, e l’altro diretto a concentrare la potenza attorno a un ristretto gruppo di attori occidentali, cioè ai “vincitori” della Guerra Fredda, capeggiati dagli Stati Uniti. Nel primo caso (frammentazione) avremmo una struttura a rete basata sull’interazione di “nodi” di potenza diffusa, ora conflittuali ora bilanciati, mentre nella seconda ipotesi (concentrazione) saremmo di fronte ad una struttura piramidale con gli Stati Uniti in cima alla cuspide, l’Occidente sviluppato, europeo e asiatico, al secondo gradino, le potenze arretrate, in declino o in ascesa, al terzo e il resto dei paesi minori e sottosviluppati collocati alla base del monumento. La nostra tesi è che la globalizzazione sia un misto di entrambe le cose e che sia una forma particolare del soft power egemonico americano, che però non impedisce lo scoppio e la dilatazione delle crisi economiche internazionali, l’insorgenza dei conflitti di area (in assenza di competitori globali, regionali o di nicchia degli Stati Uniti), proprio perché l’uso della globalizzazione non contempla alcuna rete di sicurezza politico-militare, collettiva e legittimata, tale da impedire l’emersione di fenomeni di reazione contro l’omologazione implicita nel modello, ovvero di compensazione contro gli shock dovuti alle perturbazioni dei mercati.

Globalizzazione ed egemonia americana

La dimostrazione dell’esistenza della globalizzazione come involucro della Fsd americana può esser peraltro verificata, a contrariis, anche dall’assoluta libertà di decisione di cui godono gli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni Ottanta. Il che consente loro di intervenire (oppure di non intervenire) seguendo linee di politica estera del tutto indipendenti, talvolta con l’appoggio formale degli alleati, o perfino delle istituzioni globali, come le Nazioni Unite, e talvolta senza alcun appoggio, e perfino con l’opposizione più o meno manifesta degli alleati e dei potenziali avversari.
Sono queste le linee dell’attuale politica estera “unilateralista” che gli Stati Uniti hanno adottato fin dal 1993, con l’avvento al potere di Bill Clinton, e alla quale in linea di massima tengono fede. L’arbitrio politico di questa linea direttrice è evidente. Esso è possibile esclusivamente in funzione della assoluta dominanza americana e in assenza di avversari potenziali di qualche rilievo. In effetti gli Stati Uniti praticano l’unilateralismo perché, nonostante la loro assoluta superiorità (la Fsd appunto), sono ben consapevoli di non avere la forza per esercitare un’egemonia globale valida per tutti, in quanto il prezzo da pagare sarebbe troppo alto. Non va dimenticato infatti che l’amministrazione democratica ha dovuto fare i conti con il montante “neoisolazionismo” dopo la fine della guerra del Golfo e il crollo dell’Urss, e che in America il governo è per ora “diviso”, con il Congresso nelle mani dei Repubblicani, mentre l’opinione pubblica è sempre più contraria ad interventi politico-militari a pioggia, e tantomeno ad attribuire all’America il compito di svolgere funzioni permanenti di polizia internazionale.

Nella globalizzazione, intesa come “sistema operativo” della Fsd americana esiste però un décalage crescente fra libertà economica, armonizzazione delle economie, delle Borse, dei sistemi di finanziamento internazionale del commercio e degli investimenti, e la stretta gerarchia di potenza, tipica dei sistemi internazionali del passato, che forza i governi degli attori nazionali e anche le istituzioni a subire, spesso riottosamente, l’egemonia americana. Avviene cioè che nessuno contesti a priori i benefìci della globalizzazione economica e finanziaria, in omaggio alla political correctness del linguaggio postbipolare che non ammette critiche al principio del libero mercato, ma che invece coi fatti si opponga per quanto possibile all’automatica traduzione dei valori politici liberaldemocratici, e nel fondo americani, all’interno della propria società.

Perfino i diritti degli individui, cioè i princìpi della libertà in senso stretto, che fanno oggetto della relazione fra economia e politica perché scavalcano la linea fino a ieri intangibile della relazione fra “interno” ed “esterno”, e che intaccano la sovranità degli Stati nazionali, vengono formalmente assicurati, ma spesso trascurati, in quanto facilmente aggirabili, perché intrisi di princìpi astratti e poco funzionali in termini di operationalization politica. Le prospettive sono quindi incerte perché l’armonizzazione politica è molto più difficile da raggiungere di quanto non lo sia quella economica e finanziaria. Nel primo caso infatti esiste una oggettiva funzione dettata dalle leggi dell’economia e dalla fortunata crescita degli indicatori dello sviluppo in diverse aree del mondo toccate dai benefici effetti della globalizzazione (Asia Orientale, in parte Sudamerica, Europa). Nel secondo caso, invece, le regole del gioco politico liberaldemocratico vengono vissute dai popoli e dai leader locali come imposizioni dall’alto oppure, nel migliore dei casi, come caricature del modello statunitense. 

Le prime forme di contestazione al modello della globalizzazione, apparentemente vissute come affermazioni della libertà, si sono già verificate da Seattle a Praga e in varie parti del mondo. Esse, però, sollevano immediatamente un quesito di fondo: sono le naturali reazioni di coloro, individui e gruppi, che sentono il peso del nuovo “autoritarismo” globalizzato e liberaldemocratico: sono quindi davvero una spinta alla libertà, oppure si tratta dei resti di fumose ideologie totalitarie antiamericane, sconfitte nelle guerre del Novecento, che si riaffacciano all’orizzonte nella speranza di combattere il tempo?

Resta il dubbio che, fra la nostaglia del comunismo fallito proprio sugli spalti della competizione per la libertà e la modernità, e le gelide prospettive della libertà formale imposta, come ordine gerarchico, la scelta sia difficile se non impossibile. Assai meglio sarebbe tornare alla libertà intesa come misura dell’identità propria e altrui che nasce dalla negazione di ogni forma di “teologia politica” accettando l’idea di Hobbes che «lo Stato è soltanto una guerra civile continuamente impedita da un grande potere». Se questo è vero, allora l’Ordine globalizzato, ovvero istituzionale, di cui gli americani si fanno, da più di un secolo, i più accesi assertori, e che oggi sembra essersi finalmente realizzato, è l’unico modo per impedire il conflitto. Ma sull’altare della Pace (democratica) è davvero legittimo sacrificare anche lo spirito della Libertà (individuale e nazionale)?

20 luglio 2001

(da Ideazione 6-2000, novembre-dicembre)



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