Il libero scambio nell’era della globalizzazione
di Giuseppe Sacco


Quale bisogno c’è, ci si potrebbe chiedere, di riprendere alla fine del Ventesimo secolo, il discorso sulla libertà degli scambi internazionali, dopo più di cinquant’anni in cui l’abbattimento delle dogane e degli altri ostacoli al commercio è stato sistematico, ed ha portato benefìci sempre più evidenti, sia economici che politici? Non è forse universalmente riconosciuto che lo straordinario boom successivo alla seconda guerra mondiale, così come la riconciliazione tra gli ex nemici e la costruzione di un’Europa finalmente unita, sono stati in gran parte dovuti all’abbandono del nazionalismo economico, dopo la disfatta dei regimi che avevano dimostrato lo stretto collegamento tra autarchia e preparazione dell’aggressione militare? E non è forse un fatto che persino il comunismo asiatico, militarmente vittorioso in Cina ed in Vietnam, ha dovuto alla fine constatare il fallimento del proprio tentativo di isolamento dall’economia mondiale - la strategia maoista di “camminare con le proprie gambe” - ed ammettere la schiacciante superiorità di Hong Kong, di Singapore, di Taiwan, e del loro estroverso modello di sviluppo “trascinato dalle esportazioni”?

La risposta a questi interrogativi è sulle prime pagine dei quotidiani, che da Seattle, da Davos, da Praga, riportano di una cosmopolita, rumorosa, caotica, coalizione di malesseri diversi che ha fortemente, e talora violentemente, espresso un sentimento di rigetto dell’unificazione economica del mondo, e soprattutto delle sue conseguenze socioculturali. E della occasionale convergenza che questa variopinta coalizione ha trovato con i molti piccoli interessi costituiti che si sentono minacciati dall’emergere di nuovi centri di potere a livello mondiale. Insomma, pur potendo vantare risultati e benefìci indiscutibili, il libero commercio pare oggi aver di nuovo bisogno di essere difeso.

Non siamo ancora al riflusso. I paesi del Terzo Mondo, in primo luogo la Cina, non perdono di vista i vantaggi di un mondo in cui vengono rapidamente abbattute le barriere ai flussi di merci, capitali, tecnologie e, in minor misura, forza lavoro. Queste “nazioni proletarie” continuano infatti nella loro corsa ad accaparrarsi nel più breve tempo possibile il massimo dei benefìci offerti dall’attuale situazione dei mercati mondiali e dall’attività dell’Organizzazione mondiale del commercio, quasi avessero la sensazione che questo favorevole stato di cose possa venir meno da un momento all’altro. E’ invece nelle società avanzate dell’Occidente che qualche sociologo si è messo a teorizzare su un rapporto causa-effetto tra “Globalizzazione e diseguaglianza”, dando peraltro la sensazione di non aver ben chiaro in che cosa consista il fenomeno cui si riferisce il primo dei due termini. Ed è dai paesi ricchi che vengono gli slogan più duri contro la globalizzazione, slogan che vengono diffusi ad nauseam dai media e dai soliti ripetitori di luoghi comuni alla moda, con tanta più forza in quanto di essi si sono impadronite soggetti politici ai quali dello sviluppo del Terzo Mondo, e dell’accesso dei paesi poveri ad un minimo di benessere, non importa assolutamente nulla.

E’ dunque l’opinione pubblica dei paesi ricchi che pone in pericolo il libero scambio, ed è da questa che esso ha bisogno di essere difeso. Non perché si tratti di un dogma indiscutibile ed eterno, o di un principio capace di risolvere tutti i problemi, e da inculcare nelle masse così come venivano pochi anni fa inculcati il comunismo e il nazionalismo, ma per ragioni assai più semplici e concrete. Perché esso ha profondamente trasformato in positivo - anzi negli ultimi tempi addirittura rivoluzionato - le condizioni di vita dei popoli del mondo, e perché ha ancora il potenziale per continuare a farlo. Sono infatti le sue conseguenze “sociali” quelle più innovative e dirompenti, cioè l’enorme beneficio che esso ha apportato negli ultimi 35-20 anni ai popoli più poveri della Terra. E tali conseguenze vanno sottolineate, senza per questo né perdere di vista, né farsi distrarre da altri aspetti, come la fortissima concentrazione di potere che la globalizzazione produttiva sta determinando a livello planetario.

LA FASE SUPREMA DEL LIBEROSCAMBISMO

Va a questo proposito sottolineato che l’abbattimento delle frontiere detto comunemente “globalizzazione” ha per la prima volta creato, indipendentemente dalle migrazioni, qualcosa che assomiglia ad un mercato mondiale della manodopera, in cui i lavoratori di ogni paese sono in concorrenza - anche se a distanza - con quelli di tutti gli altri. Si è posto così termine al privilegio di cui hanno sempre goduto, nei confronti delle masse che vivono nei territori ex coloniali, le classi lavoratrici dei paesi sviluppati; un privilegio constatato, già nel secondo ventennio del secolo appena terminato, da Lenin nel suo libro L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Ancora uno o due decenni fa, nonostante i salari fossero enormemente più alti nei paesi avanzati che non in quelli del Terzo Mondo, le imprese multinazionali preferivano investire ed assumere nei primi. Ma, ora, nella nuova realtà globale, le ragioni di una tale particolarità economica sono venute meno. La globalizzazione - al tempo stesso conseguenza della liberalizzazione dei commerci, e fase suprema del liberoscambismo - ha avuto il suo detonatore nel progresso delle telecomunicazioni. Nella fase di progresso tecnologico sempre più accelerato, che va dal lancio del satellite Early Bird alla vera e propria rivoluzione costituita dal passaggio dall’analogico al digitale, le distanze tra paesi e continenti sono progressivamente state annullate e - con buona pace dei nuovi improvvisati teorici della geopolitica e della geoeconomia - i fattori economico-territoriali hanno perso ogni significato. Il costo delle comunicazioni è diventato estremamente basso e totalmente indipendente dalle distanze, e sono stati annullati i fattori di agglomerazione, che da sempre rendevano conveniente raggruppare operazioni produttive tecnicamente diverse una vicina all’altra.

L’organizzazione della produzione - sia dei beni che dei servizi - assume, in queste condizioni, caratteristiche nuove. Diventa economicamente interessante smembrare i processi produttivi in fasi tecnicamente differenti, che potranno essere sparpagliate in paesi diversi, mentre a spostarsi su grandi distanze saranno semilavorati, componenti e - soprattutto nel caso della produzione di servizi - informazioni. La fabbrica diventa un sistema a rete esteso attraverso gli oceani e i continenti, e nel quale le operazioni produttive che richiedono una costante attività di miglioramento tecnologico sono di preferenza localizzate in prossimità delle grandi università americane o britanniche, mentre quelle per le quali bastano impiegati anche poco specializzati ma che capiscano la lingua inglese vanno in India o nei Caraibi. Inoltre, come è ormai più che noto, le operazioni produttive che hanno bisogno di dosi massicce di lavoro di buona qualità vengono trasferite in Asia orientale, le più inquinanti sono localizzate in paesi dalla debole protezione ambientale come il Brasile o le Antille, quelle che possono funzionare con semplici braccia non particolarmente specializzate trovano la loro naturale sede in Messico e Centro America, e quelle che richiedono enormi quantitativi di energia nei paesi produttori di risorse difficili da esportare.

Tutto ciò ha implicato un’enorme riorganizzazione della divisione internazionale del lavoro e, dal punto di vista sociale, la nascita di una nuova realtà che riproduce - indiscutibilmente - stratificazioni di classe, squilibri di potere, condizioni di dipendenza tra paesi e rapporti di scambio ineguale già conosciuti in passato. Ma li riproduce in modi completamente nuovi, che vanno politicamente valutati e (se si vuol spingersi a tanto) eticamente giudicati in base alle loro caratteristiche, ai loro propri meriti e demeriti, e non semplicemente applicando a questa nuova realtà giudizi di valore e pregiudizi politici derivati da rapporti sociali e di potere tipici del Ventesimo o addirittura del Diciannovesimo secolo. 

LA LIBERALIZZAZIONE IN UN SOLO PIANETA

Come ha messo in luce il maggiore esperto italiano di questioni internazionali, Renato Ruggiero, nei paesi in cui sono state, nell’ultimo terzo di secolo, sparpagliate attività produttive che un tempo erano raccolte nello stesso capannone a Detroit o nella Rhur, vivono circa tre miliardi di uomini e di donne, di cui almeno un miliardo e mezzo nel fiore dell’età lavorativa, e che hanno sinora vegetato al limite della sopravvivenza, sottoccupati in un’agricoltura povera e arretrata. Sono questi i maggiori beneficiari della globalizzazione, lavoratori cui questa ha portato occasioni di lavoro, mai prima neanche sperate, praticamente sulla soglia di casa. Dall’altro lato, nei paesi tradizionalmente industrializzati, ci sono meno di mezzo miliardo di lavoratori che vivono l’esperienza della riduzione dei posti di lavoro, e che incominciano a sentire la pressione concorrenziale delle masse del Terzo Mondo. E’ naturale, perciò, che vedano come una minaccia la globalizzazione e l’unificazione del mercato mondiale del lavoro che le nuove tecnologie hanno reso possibile.

La loro voce è la componente più seria della protesta che si è levata dalle strade di Seattle e di Praga. Che essi siano stati danneggiati è indiscutibile, perché la nuova situazione di concorrenza ha già portato ad una diminuzione dei salari negli Stati Uniti, ed è responsabile della disoccupazione dei giovani nei paesi in cui, come nella maggioranza di quelli europei, la difesa del salario tradizionale ha portato ad una relativa riduzione degli investimenti. E si tratta di masse che sono tanto più in grado di far sentire la loro voce in quanto vivono in paesi democratici, e in cui i media tendono a riflettere e ad amplificare le inquietudini dell’opinione pubblica.

Tutto ciò crea oggi la necessità di scendere nuovamente in campo a difesa del libero scambio. Perché, per quanto serio sia il danno economico e sociale che i lavoratori dei paesi ricchi subiscono nell’immediato, infinitamente più grande è, negli stessi termini economici e sociali, il beneficio che ne trae l’economia mondiale nel suo insieme. Il fatto che le masse che ne beneficiano superino quantitativamente di più di tre volte quelle che ne sono negativamente toccate mostra non solo che il saldo è globalmente positivo, ma dà anche la misura di quanto eccessivi siano gli allarmismi nei confronti della globalizzazione, e fornisce la prova della solidità raggiunta dal sistema economico dei paesi avanzati dopo la vittoria del sistema liberale sui sistemi ad economia controllata.

Se si guarda infatti alla sproporzione tra la massa dei nuovi arrivati sul mercato del lavoro e il numero dei lavoratori nei tradizionali paesi industriali, i fenomeni negativi manifestatisi in America e in Europa appaiono assai ridotti. Ci sarebbe infatti stato da aspettarsi sconvolgimenti assai più gravi. Se ciò non si è verificato, è perché l’aumento generale di ricchezza verificatosi è tale da dare spazio a tutti, vecchi e nuovi attori del processo produttivo. Inoltre, se oltre che a guardare al numero dei lavoratori coinvolti dai due lati, si fa attenzione anche ai livelli ancora assai bassi di sviluppo dei paesi che la globalizzazione ha fatto uscire dall’isolamento ed introdotto nel sistema mondiale, appare evidente che il fenomeno della re-distribuzione mondiale delle attività produttive è appena ai suoi inizi. Esso è certamente destinato a crescere quando - e se - oltre ai tradizionali ostacoli al commercio internazionale, verranno progressivamente a cadere tutte quelle barriere che vengono oggi presentate sotto l’aspetto “tecnico”; cioè gli standard, le barriere “culturali”, della protezione ambientale, delle garanzie sanitarie, eccetera.

CHE FARE?

Per un’efficace difesa del libero commercio, basta dunque far parlare i fatti, citare questi dati greggi? Basta dunque sottolineare quanto grande e dinamico sia il beneficio che ne trae l’economia mondiale, e quanto il suo dinamismo prometta in definitiva di più che compensare il danno che transitoriamente ne deriva ai lavoratori industriali dei paesi di antica industrializzazione? Ci si può insomma limitare a mettere in guardia contro tendenze conservatrici delle organizzazioni sindacali e contro chi specula sulla semplice ed eterna paura delle novità? Lasciare che la globalizzazione segua il suo corso è quindi l’unico compito di una politica liberale nei confronti del sistema internazionale? A questi interrogativi si è spesso data, negli ultimi dieci anni, una risposta positiva, così come obiettivamente positivi sono stati i risultati della prevalente tendenza a favorire la travolgente apertura dei mercati. Tuttavia, per capire se anche in futuro i poteri politici potranno limitarsi ad un semplice comportamento di astensione nei confronti dello straordinario dinamismo globalizzatorio delle imprese, è necessario andare a vedere come la globalizzazione trasforma le imprese stesse. Non è infatti pensabile che di fronte ad un vero e proprio rivoluzionamento dell’ambito in cui essi operano, dovuto all’abbattimento delle frontiere, i soggetti economici non finiscano anch’essi per trasformarsi ed assumere comportamenti diversi.

Sino a pochi anni fa, nella cultura delle imprese multinazionali era scontata l’idea che esse, in ciascun paese, dovessero fare i conti - in negativo, ma anche in positivo - con obiettivi di politica industriale che favorivano e proteggevano i “campioni nazionali”. Ma la mentalità delle odierne imprese “globali”, che operano attraverso le frontiere ancora più intensamente delle vecchie “multinazionali”, è radicalmente diversa. Esse aspirano ad uno spazio globale politicamente e giuridicamente indifferenziato, e non sono disposte a piegarsi a condizionamenti determinati, su specifici mercati, dal potere degli Stati. E gli stessi “campioni nazionali” hanno dovuto prendere atto di una radicale trasformazione del quadro in cui essi debbono operare: ed infatti è difficilmente discutibile che l’abolizione delle bardature protettive delle economie obblighino imprese abituate ad operare in regime di monopolio o oligopolio all’interno di un mercato chiuso, ad adattarsi alle condizioni create dalla possibilità di imprese estere a venirle a sfidare sul proprio tradizionale mercato. Anzi, gran parte dei recuperi di efficienza che accompagnano la globalizzazione consistono proprio negli adattamenti resi necessari dalla caduta delle barriere protezionistiche. Si può dire che gli effetti più immediati ed evidenti dell’eliminazione delle frontiere sono proprio un’accentuazione della concorrenza su ciascuno di questi mercati in via di unificazione, ed il mutato comportamento dei principali soggetti economici.

Ma è altrettanto evidente che i più dinamici, tra i soggetti così esposti al vento vitalizzante della concorrenza saranno in grado di scorgere assai rapidamente la possibilità di insediarsi stabilmente su mercati sino ad allora controllati, grazie alla protezione, da concorrenti meno forti o meno dinamici. Basta vedere l’ondata di fusioni e acquisizioni in atto in tutto il mondo, per capire che - man mano che si unificano i mercati - il numero delle aziende operanti in ciascun settore tenderà a diminuire. Ad un massimo numerico di aziende che conquistano nel momento della unificazione dei mercati la possibilità di agire globalmente fa seguito sul nuovo mercato effettivamente unificato una diminuzione del numero dei soggetti che riescono effettivamente ad organizzarsi per operare su scala globale.

Questa riduzione di numero può essere anche assai drastica. Già oggi non è difficile fare esempi di aziende che detengono, o si avvicinano ad un monopolio mondiale nel loro settore. Ed è facile prevedere che questi esempi si moltiplicheranno in futuro, perché il rapidissimo progresso tecnologico tende a creare, non già situazioni stabili di concorrenza sul mercato di prodotti ben individuati, bensì un susseguirsi di posizioni di monopolio rapidamente acquisite e altrettanto rapidamente perdute sul mercato di prodotti sempre nuovi e a rapida obsolescenza tecnica. Non a caso i nomi di queste imprese occasionalmente monopolistiche vengono agitate come icone negative dal popolo di Seattle. Pur portatori di malumori assai grezzi, essi non mancano di avvertire i punti del sistema globale in cui è più facile inserire la loro azione ostile.

GLOBALIZZAZIONE E POTERE MONDIALE

La battaglia per la libertà del commercio internazionale ritorna così ad essere di grande attualità, anche se prende, a questo punto, un nuovo aspetto: quello della azione collettiva per evitare la nascita di situazioni oligopolistiche o monopolistiche a livello mondiale. E diventa altresì evidente che - a meno di una vera e propria regressione verso un sistema politico-economico frammentato in unità submondiali - quest’azione di controllo non possa essere condotta più soltanto nel quadro dei singoli Stati nazionali, il cui potere si applicava in passato a territori che corrispondevano a mercati più o meno autonomi. Si pone in altri termini il problema di come governare, per proteggerla, la libertà economica e commerciale a livello globale. Ed è problema di non piccolo momento, in un mondo in cui convivono in modo contraddittorio fenomeni di cosmopolitismo dell’opinione pubblica, convergenze tra gruppi di nazioni in entità continentali a carattere - talora - sovranazionale, aspirazioni al governo globale da parte di organizzazioni a carattere interstatuale-intergovernativo, ed evidenti tendenze egemonico-imperiali delle maggiori potenze. Appare perciò necessario che le società si mobilitino politicamente a vari livelli, con iniziative che non possono esaurirsi nella semplice riproduzione nella società internazionale di istituzioni ispirate a modelli particolari, in genere anglosassoni, come la costruzione di una sorta di Autorità antitrust presso l’Onu, o con una diarchia creata dalla cooperazione tra i watchdogs degli Usa e della Ue. Né basta - per avere un più ampio mercato concorrenziale - mettere in ginocchio, o smembrare i vecchi oligopoli o monopoli nazionali.

Se il risultato del processo di globalizzazione non deve essere la riduzione dei protagonisti ad un piccolissimo numero di imprese originarie dei paesi leader, cioè una situazione che potrebbe rapidamente portare ad una reazione politica e ad una nuova frammentazione dell’economia mondiale, è probabilmente necessario che le singole nazioni si impegnino, finché sono in tempo, a rendere più ricco e variegato il quadro concorrenziale mondiale, favorendo la trasformazione dei loro ex “campioni nazionali” in imprese globali. Perché, se il “liberoscambismo reale” produce - logicamente - i suoi massimi benefìci solo se si estende a tutto il pianeta e se nessuno dei grandi popoli si chiama fuori, non è detto che questi benefìci siano sufficienti per far accettare a tutti il duro semimonopolio del potere mondiale che oggi si profila.

La battaglia per la libertà nella sfera economica si trova insomma innanzi a compiti nuovi, più complessi e ambiziosi. Proprio perché sembra ormai vinta la lotta contro il nazionalismo economico e contro le tendenze a subordinare l’economia alla politica nel quadro dei singoli Stati, diventa chiaro che - in difesa del libero scambio - non basta denunciare come miopi e retrogradi i malesseri e le diffuse reazioni che si manifestano contro la globalizzazione. Per la costruzione delle istituzioni della libertà globale e per il suo governo, sembra diventare necessaria la ricerca e l’invenzione di nuove strategie e di nuovi strumenti politici.

20 luglio 2001

g.sacco@usa.net

(da Ideazione 6-2000, novembre-dicembre)



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