Libertà e globalizzazione
di Sergio Romano


L’Ottocento fu il secolo della libertà. Mai prima di allora la parola era stata altrettanto usata nella vita politica, nei dibattiti intellettuali, nelle disquisizioni filosofiche, nelle opere letterarie, nei proclami e negli appelli. Ma la parola assume rapidamente, durante il secolo, significati diversi. In alcuni casi è la libertà dell’individuo, ansioso di rompere i vincoli sociali, economici e confessionali di cui è stato prigioniero negli anni dell’Ancien Régime. In altri è la libertà di una classe sociale, decisa a spezzare le proprie catene. In altri ancora è la libertà di una comunità nazionale che rivendica il diritto alla propria indipendenza. Non sempre le tre libertà sono compatibili. Il cittadino di uno stato democratico conquista la libertà ed è pronto a battersi per conservarla; ma la sua concezione dell’interesse nazionale lo rende spesso indifferente alla libertà di un altro popolo. Una comunità nazionale conquista l’indipendenza ed è finalmente libera, ma ha spesso un regime autoritario che i suoi uomini di governo ritengono necessario per difendere la libertà della patria contro nemici esterni ed interni. Un’altra comunità nazionale dà a se stessa, nel momento in cui riesce a organizzarsi politicamente, una costituzione democratica; ma non riconosce gli stessi diritti alle minoranze che vivono nel suo territorio. Le classi ribelli conquistano la libertà, ma i loro dirigenti instaurano, una volta al potere, la “dittatura del proletariato”. Un greco nel 1821, un italiano nel 1848, un polacco nel 1863, un comunardo nel 1870 e un bolscevico nel 1917 combattono in nome di “libertà” che sono destinate a scontrarsi, l’una contro l’altra, nelle guerre civili e sui campi di battaglia del Ventesimo secolo. Ogni libertà conquistata è cagione, volontaria o involontaria, di una corrispondente servitù.

Se cerco di comprendere quale sarà, nell’era della globalizzazione, la sorte della libertà, ecco apparire nell’equazione una nuova incognita. So più o meno, sulla base dell’esperienza storica, quali e quanti siano i contenuti della parola libertà. Ma non so ancora che cosa si nasconda dietro la parola “globalizzazione”. La prospettiva di un grande mercato, esteso all’intero pianeta e retto dalle stesse regole? Un governo mondiale? Un nuovo modello di vita, comune alla maggior parte dei paesi industrializzati? Una nuova ideologia, destinata a sostituire le grandi religioni laiche del ventesimo secolo? Constato che numerosi fenomeni hanno modificato o stanno modificando i sistemi politici ed economici di alcune regioni del mondo: la fine della Guerra Fredda, il declino di molti stati unitari europei, la nascita di alcuni “mercati unici”, zone di libero scambio e associazioni internazionali (Unione europea, Nafta, Mercosur, Asean, Apec), la rivoluzione dei trasporti, le straordinarie ricadute della Ict (Information and communication technology) sul modo di lavorare e produrre. Ma constato al tempo stesso che questi fenomeni si scontrano con alcuni formidabili ostacoli: le “identità” locali (un’altra espressione di cui il significato mi appare impreciso e oscuro), il timore probabilmente irrazionale di un mondo “omologato”, le paure di alcuni ceti sociali per mutamenti a cui non sono culturalmente preparati, la resistenza di nomenklature politiche e corporazioni economiche o sociali che non intendono rinunciare al loro potere nazionale, il riflesso conservatore delle grandi confessioni religiose. Come posso definire la globalizzazione se non so ancora quale sarà il risultato di questa colossale somma algebrica tra i fattori della innovazione e quelli della conservazione? Quelle che seguono sono soltanto alcune note provvisorie, in corso d’opera.

Fra le libertà conquistate nell’Ottocento due ci sono particolarmente care e ci sono apparse sinora strettamente collegate: quella della nostra patria nella comunità internazionale e quella che ciascuno di noi possiede come cittadino di uno stato democratico. Ma le patrie dell’Europa centro-occidentale hanno perduto buona parte delle loro libertà e prerogative originali. La loro sicurezza esterna dipende in larga misura dalla Nato. La loro moneta è governata a Francoforte da una istituzione metanazionale secondo regole su cui i paesi membri dell’Unione possono esercitare una modesta influenza. I loro governi devono tener conto, nel momento in cui preparano il bilancio per l’anno successivo, di trattati internazionali che sono diventati legge dello Stato. I capitali dei loro cittadini non hanno un passaporto e acquistano temporaneamente la nazionalità del paese in cui il loro proprietario decide di investirli. Le frontiere nazionali sono ancora soggette al controllo dei singoli Stati, ma rappresentano il tratto regionale della frontiera europea e ogni governo deve rendere conto ad altri del modo in cui ne assicura il controllo.

A questo declino dello stato ottocentesco corrisponde la rinascita di vecchie regioni storiche che dormivano da molte generazioni sotto il manto di istituzioni comuni: la Scozia, il Galles, l’Ulster, la Bretagna, la Catalogna, la Galizia, il Paese Basco, la Corsica, la Baviera, la Lombardia, il Veneto, la Sicilia, la Sardegna. Le ragioni del fenomeno sono evidenti. Uno stato che ha perduto il diritto e il dovere di difendere le proprie frontiere contro i nemici esterni non è più in grado di pretendere l’unità e l’uniformità delle proprie componenti regionali. Uno stato che non può decidere, se non parzialmente, l’uso delle risorse nazionali e ha ceduto buona parte dei suoi poteri alle istituzioni europee, ha inevitabilmente perduto il diritto d’imporre la sua autorità alle patrie regionali di cui è composto. 

La risposta europea a questo problema è il criterio della sussidiarietà. Secondo i testi della Comunità l’Unione assicura l’esecuzione dei compiti che, per le loro dimensioni, l’importanza degli effetti o l’efficacia dell’attuazione, possono essere realizzati in modo più soddisfacente dalle istituzioni comunitarie. I singoli Stati fanno ciò che è meglio fare su scala nazionale. Le Regioni e i Comuni si spartiscono il resto. Ogni potere corrisponde, in altre parole, a una logica funzionale. La ricetta appare semplice, ma è in realtà una formula incantatoria, un principio astratto, una sorta di tautologia. Affermare che Lombardia e Corsica, ad esempio, debbano fare ciò che è preferibile fare localmente significa dare per risolto un problema politicamente insoluto. Non esistono teoremi o ricette con cui spartire il potere. Ogni spartizione, nella storia, è il risultato di un rapporto di forze. Non è tutto. Per esercitare un potere occorre denaro. Il potere dell’Europa, dei suoi Stati, delle sue regioni e delle sue città dipende in ultima analisi dalla quantità di denaro di cui ciascuno di essi disporrà. Occorre dividere, in altre parole, il denaro dei contribuenti.

Quale sarà in queste circostanze la sorte delle mie libertà? Alcuni dei miei diritti saranno garantiti dall’Europa, altri dallo stato italiano, altri ancora dalla regione Lombardia in cui vivo e dal comune di Milano in cui risiedo. Ma sino al giorno in cui l’Europa, l’Italia, la Lombardia e Milano non avranno raggiunto un accordo sul modo in cui spartirsi la vecchia sovranità dello stato ottocentesco, io sarò il cittadino di un condominio in costruzione. Correrò qualche rischio? Se la spartizione dei poteri sarà consensuale e il nuovo sistema finirà per assestarsi con nuovi equilibri, probabilmente no. Ma occorrono, perché io sia libero, altre condizioni. Occorre in particolare che un potere assicuri la mia libertà contro la minaccia di un nemico esterno. Sarò difeso dall’Italia che spende per le forze armate l’1,5 per cento del suo bilancio? Dall’Unione europea che non ha un bilancio militare? O continuerò a essere difeso, come negli anni della Guerra Fredda, dalla Nato? E sarò libero, infine, se la mia difesa dipenderà dalle decisioni e dagli interessi di una potenza straniera? 

Ancora una nota. Fra le molte libertà di cui tutti vogliamo continuare a godere vi è quella di tutelare le nostre antiche tradizioni, praticare le vecchie consuetudini, parlare la lingua nazionale o regionale, conservare i gusti, i sapori e l’ambiente che appartengono alla nostra infanzia e adolescenza. Questa libertà - il “diritto all’identità” - sembra a molti minacciata dal processo di globalizzazione. Parleremo tutti la stessa lingua, mangeremo lo stesso cibo, vestiremo gli stessi abiti, leggeremo gli stessi libri, vedremo gli stessi film e programmi televisivi? Il fenomeno è in buona parte positivo. In un grande mercato mondiale dove tutti consumeranno gli stessi prodotti, useranno gli stessi servizi e scambieranno merci in due o tre monete (il dollaro, l’euro, lo yen), il consumatore sarà assai più libero di quanto non fosse in una società nazionale in cui le banche, le società d’assicurazione, le industrie e lo stato-imprenditore si sottraevano ai rischi della libera concorrenza e avevano il diritto d’imporre i prezzi a loro più convenienti. Il rischio dell’omologazione, del resto, è meno grave di quanto non si creda. Se mi guardo attorno e confronto la mia vita d’oggi con quella di trent’anni fa constato di non avere mai avuto un così largo ventaglio di scelte possibili. Posso pranzare in un ristorante cinese, comprare un’automobile giapponese, leggere la stampa europea e americana, vedere film in versione originale o italiana. E’ questo il mondo “omologato” in cui i nostri figli saranno condannati a vivere? 

Vi sono alcuni rischi, naturalmente. Il maggiore è la divisione delle nostre società in due grandi caste. La prima si comporrebbe di coloro che viaggiano, leggono, usano le nuove tecnologie dell’informazione, sanno approfittare della modernità; la seconda di coloro che precipitano all’indietro in una sorta di analfabetismo culturale. Ma siamo davvero certi che questo rischio derivi dalla globalizzazione, vale a dire da un fenomeno di cui si vedono per ora soltanto tracce incerte e contraddittorie? La frontiera tra le due caste è in realtà quello che gli americani chiamano il digital divide. Appartengono alla prima coloro che frequentano gli spazi di Internet e scoprono, navigando, quali e quante prospettive il nuovo mezzo offra alla loro fantasia e intelligenza. Appartengono alla seconda coloro che non hanno la preparazione e la cultura dell’era digitale. I primi saranno liberi e cittadini, i secondi saranno i servi della gleba del Ventunesimo secolo. Ma i mezzi per evitare questa prospettiva esistono e sono, in larga parte, nelle mani dei governi nazionali e locali. Durante un convegno italo-inglese alla Certosa di Pontignano, verso la fine dell’estate, si è parlato, tra l’altro, del digital divide dei due paesi: in Gran Bretagna metà della popolazione usa Internet, in Italia una persona su cinque. Quanti saranno fra vent’anni, di questo passo, i servi della gleba nei due paesi? Uno dei partecipanti, tuttavia, ha osservato che vi sono più computer nelle scuole elementari italiane di quanti non ve ne siano nelle università. Forse c’è ancora speranza.

20 luglio 2001

(da Ideazione 6-2000, novembre-dicembre)




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