Altro che dominio, qui manca il paese guida
di Giuseppe Pennisi


Proprio in queste settimane sono usciti nuovi studi che - sottolinea Sebastian Edwards nel libro Foreign policy for America in the 21st century - “indicano senza ombra di dubbio come i paesi in via di sviluppo aperti al commercio mondiale raggiungano tassi di crescita e livelli di distribuzione del reddito migliori di quelli dei paesi chiusi”. Un’analisi comparata del Center for Stratetigic and International Studies di Washington, Trade liberalization: fears and facts, contiene una rassegna meticolosa della letteratura a favore e contro la liberalizzazione delle transazioni apparsa negli ultimi dieci anni: conclude che i paesi aperti al commercio sono pure quelli che, meglio e prima degli altri, attuano regole interne lavoristiche ed ambientali più illuminate e maggiormente in linea con gli standard internazionali. Se la globalizzazione “fa bene” ai paesi meno sviluppati, pur se in certi casi aumenta le differenze di reddito al loro interno, quale è la molla che ha fatto scattare il “movimento di Seattle”?

Una spiegazione interessante viene offerta in un libro uscito circa un anno fa negli Usa, ma scritto molto prima della conferenza ministeriale Wto (Organizzazione internazionale del commercio) del novembre-dicembre 1999 e la nascita, in forma visibile ed organizzata del “movimento di Seattle”: The challenge of global capitalism: the world economy in the 21st century (“La sfida del capitalismo globale: l’economia mondiale nel ventunesimo secolo”) di Robert Gilpin uno storico ed economista di rango dell’Università di Princeton. Prima di mettersi in viaggio alla volta di Genova, i “grandi” del G8 farebbero bene almeno a scorrere lo spesso volume (circa 400 pagine). Gilpin sottolinea che, nei secoli, le determinanti della globalizzazione sono sempre state politiche prima ancora che tecnologiche, economiche e commerciali; in breve, sono la geopolitica e la visione del mondo del paese leader a promuovere o, di converso, a scoraggiare l’integrazione economica internazionale molto più di quanto non riescano a farlo la riduzione dei costi di trasporto, l’abbattimento delle barriere alle transazioni commerciali e finanziarie, la riduzioni degli ostacoli al movimento di persone e imprese, e la stessa telematica. Internet, in sentesi, non è una molla ma una conseguenza della globalizzazione.

Gilpin approfondisce la globalizzazione nella seconda metà del diciannovesimo secolo e dopo la seconda guerra mondiale. Avevano una determinante politica comune: c’era un “global player” (la Gran Bretagna nel diciannovesimo secolo, gli Usa dopo la seconda guerra mondiale) tale da forgiare, in posizione di leadership e di egemonia, il consenso politico necessario a favore di mercati internazionali aperti per ragioni politiche ancora prima che economiche: mercati più liberi venivano visti come strumenti per un mondo più libero sia dalla Gran Bretagna sia dagli Usa. Entrambi i paesi, da veri leader, diedero l’esempio. Gilpin ricorda che furono i primi ad aprire i loro già vasti mercati e a mettere il loro potenziale di conoscenze e soprattutto di tecnologie a disposizione del resto del mondo, anche creando, a tal fine, organizzazioni come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario ed il Wto. Adesso - conclude Gilpin - non c’è più il “global player” in grado di promuovere l’apertura dell’economia come veicolo di maggiori libertà per tutti (una visione, innanzitutto, etico-politica). Al contrario, gli Usa sono sulla difensiva e l’Unione Europea tenta di affermarsi come “global player” alternativo, senza però riuscirci. Sia gli americani sia gli europei scivolano in visioni regionali (piuttosto che mondiali) che vogliono dire innanzitutto più libertà (ed anche più benessere) per le “loro” regioni di quanto non ne offrano agli altri (come avvenne, al contrario, quando Gran Bretagna e Stati Uniti diedero al resto del mondo le chiavi delle porte dei loro imperi e si sobbarcarono di alcuni costi, anche pesanti, dell’avvio del processo). Per questo, una globalizzazione senza un’anima e senza una visione di fondo di maggiori libertà e maggior benessere per tutti innesca la contro-risposta del movimento di Seattle.

Quindi, perché la globalizzazione abbia un’anima necessita di un Principe “visionario”, ossia dotato di un’ampia e profonda “visione” di dove deve andare il mondo. Gilpin auspica che Washington ritrovi l’anima e la “visione” di un tempo. Barry Eichengreen, economista dell’Università di Berkeley noto tra l’altro per i suoi studi pionieristici in materia di ambiente e di relazioni monetarie internazionali, risponde, in un saggio fresco di stampa, che ormai il Rubicone è stato varcato: nel ventunesimo secolo il governo della globalizzazione dovrà diventare multipolare ed includere, oltre agli Usa, una Ue più responsabilizzata ed organizzazioni non-governative più mature.

20 luglio 2001

gi.pennisi@agora.it

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