Lo spiazzamento della politica
di Pierluigi Mennitti

Chi si occupa delle vicende politiche dei nostri tempi non può rimanere indifferente al crescente senso di inadeguatezza della politica stessa verso le sfide della globalizzazione. Questo grande fenomeno del nostro tempo, ancora in fieri e al quale solo negli ultimi anni la scienza politica sta dedicando analisi e studi, è esploso nell’ultimo decennio del Ventesimo secolo in seguito a tre eventi di ordine economico, politico e tecnologico: deregulation della circolazione dei capitali, fine del comunismo, diffusione di massa dell’elettronica. La globalizzazione è divenuta una parola di gran moda, utile ormai a spiegare tutti gli aspetti del vivere contemporaneo. Parliamo globale, vestiamo globale, mangiamo globale. Internet presenta una lingua franca basata sull’inglese ma che di fatto è l’inglese piegato al consumo (e allo stravolgimento) di milioni di persone che inglesi (o americani) non sono. Scarpe italiane sono acquistabili in ogni dove passando dalle costosissime boutiques sulla Fifth Avenue di New York ai suk straccioni di Tirana e Skopije. Per una bella mangiata di sushi o di wantoon non è più necessario spingersi sino a Tokio o a Pechino: è sufficiente scendere al mercato sotto casa dove è possibile comperare tutti gli ingredienti necessari a trascorrere, nella propria sala da pranzo, una serata esotica.

Viviamo l’era globale, dunque, limitandoci a coglierne solo alcuni aspetti superficiali. E’ mancato, sino ad ora, lo studio e la comprensione di quanto tale globalizzazione incida profondamente nel tessuto vivo delle nostre organizzazioni sociali e politiche. E’ sfuggito, anche ai critici più sfrenati, quanto qualitativamente diversa sia la sfida che essa porta alle forme e alle istituzioni quali si sono venute configurando nell’epoca della modernità. I critici di ispirazione neo-marxista si limitano a considerare la globalizzazione solo come una drammatizzazione dell’eterna sfida portata dal capitalismo: una nuova fase dello sviluppo capitalistico tutta interna alla tensione verso la modernizzazione che ha caratterizzato, con sfumature differenti, i secoli precedenti. Altre letture, meno legate a schemi interpretativi ormai superati, descrivono con maggiore acutezza le forze che muovono la globalizzazione, interpretandole come “l’insieme dei processi in cui tutte le tensioni della modernità esplodono in configurazioni compiutamente postmoderne”. E’ una sfida che prende le mosse dalla modernità ma tende a superarla, a definire spazi e territori nuovi, anche per la politica. E in questo senso ci obbliga a riformulare spiegazioni e a riconcettualizzare le dinamiche attuali della politica che altrimenti ci parrebbero (come ci paiono) prive di qualsiasi senso logico, a meno di non voler partecipare anche noi da tifosi all’epidermica contesa tra organizzazioni internazionali e popolo di Seattle. Per dirla con il filosofo della politica Carlo Galli, è necessario ridefinire nuovi confini: “Lo spazio tutto aperto (o almeno che tende a presentarsi come tale) della globalità può essere tanto soffocante quanto quello angusto (che tendeva a presentarsi come chiuso) della statualità”.

Se leggiamo la recente politica italiana, i cinque anni di governo dell’Ulivo, adoperando la chiave di lettura della risposta alla sfida della globalizzazione, non possiamo che riportare una lunga sequenza di fallimenti. Tutte le politiche non contingenti che i quattro governi di centrosinistra hanno prodotto nel quinquennio appena trascorso sono state ad un tempo politiche di difesa, di resistenza ai cambiamenti che la globalizzazione tendeva a imporre e politiche di supina acquiescenza. Da un lato si è difesa l’impalcatura esistente di welfare state, rifiutando di incidere profondamente nel mercato del lavoro, in quello pensionistico, evitando riforme decise del sistema fiscale, con l’obiettivo di salvaguardare il più possibile il potere di interdizione e decisione che i sindacati (e la Cgil in particolare) avevano conquistato negli anni Settanta. Dall’altro si è partecipato in maniera acritica (Somalia, Bosnia, Kosovo) a quella forma schizofrenica di intervento umanitario (che va sotto il nome di polizia internazionale) che rappresenta la cifra più riconoscibile della politica estera americana ai tempi di Clinton. Una logica neo-wilsoniana che mascherava dietro un falso universalismo, e sotto la copertura dell’Onu, il primato americano, quello dell’unica superpotenza sopravvissuta al conflitto Est/Ovest della Guerra Fredda. Che questo tipo di interventismo sia lungi dal creare un nuovo ordine mondiale e s’imbatta continuamente in nuovi conflitti di origine etnica o religiosa (concettualizzati nel famoso “scontro delle civiltà”) è un dato che dovrebbe far riflettere.

Il senso di spiazzamento della politica appare evidente, ed è un fenomeno che va al di là dei demeriti della classe dirigente del centrosinistra. Se la globalizzazione appare come il trionfo della tecnologia e dell’economia sulla politica, del diritto privato sul diritto pubblico, come la conquista di nuovi spazi di un interventismo economico che riesce a fare a meno della mediazione politica, allora l’esperienza del centrosinistra degli anni Novanta va annoverata come la prova più evidente di questa crisi: la inadeguatezza di rispondere con soluzioni tradizionali a sfide completamente nuove. Se l’ambiente nel quale ci muoviamo presenta problemi determinati dalle migrazioni globali, dalle avventure dell’ingegneria genetica, dall’inafferrabilità della new economy, dal contatto diretto e diseguale fra Primo e Terzo mondo, dalla reazione delle identità locali - il tutto riassumibile nella sfida mortale allo stato-nazionale - non è rimanendo nella dimensione dello stato-nazione, come fa l’Ulivo italiano, che si troveranno le risposte necessarie per ridefinire gli spazi della politica. Così come appare privo di sbocchi anche il tentativo delle sinistre internazionali di governare l’intero processo della globalizzazione per mezzo di una politica che è in realtà il combinarsi di diritto e di morale: la mondializzazione dei diritti umani, la cui tutela non passa dagli stati-nazionali ma dai tribunali internazionali, prefigurando un primo stadio verso la democrazia globale, non è altro che un’ideologia delle buone intenzioni, un po’ ingenua, che presuppone una società civile globale proiezione essa stessa di una concettualità moderna che la globalizzazione - con la sua frammentazione, il suo senso di spaesamento e la sua mobilità - ha già spazzato via. Le novità che l’amministrazione americana di Bush si prepara a varare nella politica interna e ancor più in quella estera rappresentano un superamento della visione clintoniana e sono destinate ad aprire nuove strade (il cui successo è ovviamente tutto da dimostrare) nel confronto con la globalizzazione.

Esistono allora delle alternative praticabili per raccogliere la sfida del globalismo e provare a immaginare spazi nuovi per la politica? Esiste la possibilità di restituire un senso alle nostre vite e al nostro agire che non esaurisca tutto nella sfera dell’homo oeconomicus? Abbiamo la possibilità di vivere una stagione non dominata dalla virtualità informe che tutto disperde e che ci esporrebbe al duplice rischio di reazioni neo-luddiste (tipo popolo di Seattle) o di esplosioni violente (terrorismo, fanatismo religioso, microconflitti etnici)? E ancora: è immaginabile un nuovo percorso sul quale indirizzare le energie della politica per ridisegnare il senso delle istituzioni, delle associazioni e dei partiti, per evitare di soffocare in questa “partitocrazia senza partiti” nella quale sembra sprofondata anche la vita politica italiana? Forse sì, a patto di sviluppare quella immaginazione politologica di cui parlavamo nel precedente numero di Ideazione. L’Europa, ad esempio, può rappresentare uno spazio politico sufficientemente ampio da superare gli angusti confini dello stato-nazionale, sufficientemente diversificato al suo interno (l’Europa della differenza) da confrontarsi con la pialla livellatrice della globalizzazione, sufficientemente duttile - a meno di non ridurla a una grande fabbrica di produzione normativa - per valutare rischi e opportunità che i nuovi tempi ci propongono. Un’Europa che rielabori, anche sulla scorta della propria tradizione, il senso della politica: oltre le tentazioni del big government e oltre la credenza nei presunti automatismi virtuosi del mercato. E’ in uno spazio siffatto, che non si chiude orgogliosamente in se stesso e non si apre acriticamente all’esterno, che può immaginarsi un processo politico capace di raccogliere la sfida della globalizzazione.

20 luglio 2001

pmennitti@ideazione.com

(da Ideazione 3-2001, maggio-giugno)




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