L’ambiguità del popolo di Seattle
e di coloro che lo blandiscono

di Massimo Lo Cicero


C’è un grande e clamoroso equivoco nella vulgata che ha accompagnato il decollo e l’attuale centralità politica del popolo di Seattle. Un clamoroso errore interpretativo genera questo equivoco ed alimenta un’atmosfera ambigua, e per certi versi ipocrita, nei commenti e nei dialoghi che riguardano l’azione di quel “popolo”. L’errore riguarda la natura del “popolo” in quanto tale e, di conseguenza, l’interpretazione del confuso programma politico e delle rivendicazioni di cui esso si presenta come portatore. Il popolo di Seattle esiste in ragione dell’avvenuta globalizzazione del pianeta e, quindi, andrebbe trattato, lealmente, solo come una delle conseguenze dello stato delle cose: probabilmente una delle meno rilevanti ancorché molto pericolosa, nei suoi ulteriori e possibili esiti.

Se lo sviluppo degli scambi e della capacità di trasferire informazioni non avesse improvvisamente accelerato nessuno potrebbe neanche identificare quel “popolo” che esiste solo nei reportage, della grande stampa e delle televisioni, oltre che nello specchio della falsa coscienza dei governi che, periodicamente, si raccolgono per interrogarsi sulla propria sopravvenuta incapacità di governare il corso delle cose. La globalizzazione, infatti, non è una politica od una intenzione dei governi mondiali e degli amministratori delle imprese multinazionali cui quei governi, secondo il popolo di Seattle e con un lessico ultraleninista, sarebbero stupidamente asserviti. La globalizzazione è l’effetto di una lunga deriva che attraversa tutta la parabola della nostra civiltà occidentale e che ne rappresenta il completamento: essa è la manifestazione della relazione virtuosa che lega il linguaggio, gli scambi e la moltiplicazione della ricchezza e del benessere. Essa rappresenta anche la sconfitta delle ambizioni egemoniche degli stati totalitari che hanno preteso di fondare in termini etici, autodefiniti, la propria volontà di potenza ed hanno schiacciato la libertà e la identità dei cittadini che avrebbero invece dovuto servire.

Il percorso della globalizzazione parte, dopo il costo immane di due sanguinose guerre mondiali, dal tentativo, riuscito con successo a Bretton Woods nel 1944, di ridare un ordine monetario agli scambi e di progettare istituzioni capaci di supportare e fare consolidare il futuro mercato mondiale, una volta che l’umanità si fosse sbarazzata dalle pretese egemoniche dei totalitarismi europei. Il “popolo” di Seattle non è affatto tale: non è un popolo. E’ un melange di vecchi arnesi ideologici, riciclati nel vestiario ma uguali a se stessi nel linguaggio, con cui si oppongono agli stati che sarebbero i comitati d’affari del grande capitale internazionale. E’ un possibile punto di coagulo delle paure verso la modernità e la sua complessità: una specie di erede universale di angosce che stavano dietro il luddismo, dietro il rimpianto delle varie armonie perdute e dietro l’idea che il progresso fosse da rifiutare perché distruggeva il piccolo felice mondo antico. Mentre, in quell’armonia naturale che precedeva il progresso la gente moriva di fame e di freddo, oltre che di altre e più pericolose malattie, che oggi siamo in grado di debellare grazie al progresso. In quell’arcadia lontana, città dalla popolazione di un milione di abitanti apparivano come metropoli impossibili e l’intera popolazione del pianeta non era nemmeno un quinto di quella che esiste oggi. E questa popolazione contemporanea oggi esiste perché, appunto, è più facile vivere ed è più difficile morire proprio grazie al progresso.

Anche il nostro mondo globale non è un’arcadia ma la nostra consapevolezza ci mostra chiaramente i suoi limiti, ci spinge ad usare le risorse che esso genera per migliorarlo: imparando dai nostri errori e coagulando le nostre forze perché il meglio di quella relazione virtuosa, tra linguaggio, scambi e benessere, possa manifestarsi. La mancata denuncia dell’equivoca natura delle rivendicazioni e dei programmi del “popolo” di Seattle può essere un grave errore e può avere pericolose conseguenze. Ricorda, nelle prediche che si sentono in giro, i lamenti sugli amici ed i compagni che sbagliano che hanno accompagnato la crescita del terrorismo politico in Europa negli anni Settanta. Tutti possiamo sbagliare ma nessuno deve essere commiserato per sbagli che reitera arrogantemente di fronte a critiche motivate che gli vengano rivolte. Non è ammessa l’intolleranza delle opinioni altrui perché la libertà non si può, e non si deve, spingere fino al disprezzo di chi è diverso da te e te lo dice in faccia. Sono questi i motivi per i quali è legittimo il monopolio della forza di cui dispone lo stato moderno ed è questa la ragione della sua utilità sociale: utilizzare quel monopolio per difendere le condizioni che assicurano la pace ed il benessere.

Sulle bandiere del “popolo” di Seattle, invece, si vede chiara l’immagine di un’idea romantica della libertà e della giustizia che ha già fatto troppi danni all’Europa e al mondo per non essere criticata con franchezza e con durezza. Dobbiamo per questo dire che la tutela e la intelligente utilizzazione dei beni naturali siano cose da irridere o rifiutare? Dobbiamo pensare che non esista un clamoroso scarto tra l’efficienza che la globalizzazione genera nella produzione e l’equità con cui una massa immane di risorse potrebbe essere utilizzata per redistribuire benessere alla popolazione mondiale? Dobbiamo dire o pensare che sia finito, in questo nostro mondo globale, lo spazio possibile della politica, che si debba rinunciare all’idea di rendere migliore la vita di ognuno?

Non dobbiamo dire o pensare niente di tutto questo ma è chiaro che non dobbiamo nemmeno lasciare sul campo l’ambiguità che deriva, per i governi delle grandi nazioni mondiali, dalla loro evidente impotenza nel governo del processo mondiale di globalizzazione. Essi, per prima cosa, dovrebbero riunirsi di meno e con minore clamore. O almeno con un clamore adeguato ai risultati che pensano di poter conseguire nel corso di quella riunione. Il primo errore dei governi è proprio quello di avere fornito un facile bersaglio a coloro che volevano utilizzare le bandiere del “popolo” di Seattle per impossessarsi delle esigenze legittime di benessere di larga parte dell’umanità contemporanea. Lo spazio della politica contemporanea si deve ricercare in direzioni diverse. Servono regole, meccanismi capaci di difenderle ed organizzazioni che supportino il funzionamento dei mercati, senza pretendere di saper fare meglio dei mercati stessi. Servono istituzioni che siano pubbliche e private, costruite ed amministrate dai governi ma anche dalla popolazione e dagli interessi liberamente collegati tra loro. Non è ambigua solo la natura e la composizione del popolo di Seattle, quando la scena venga osservata in questa prospettiva. 

E’ altrettanto ambigua la cultura dei governi che si incontrano nelle riunioni del G8 ed è improbabile che da queste ambiguità contrapposte possa nascere una politica. Non sono omogenei ed uguali gli individui del presunto “popolo” e non sono tali neanche i governi del G8. Dietro le bandiere del “popolo” di Seattle potrebbe prendere forma l’ennesima edizione di una qualche alleanza contro il progresso ma questa operazione, evidentemente reazionaria, troverebbe un inedito alleato nella incapacità degli stati nazionali, dei più grandi paesi del mondo, a riconoscere il terreno nuovo della politica. Un terreno che si conquista con la valorizzazione dell’autodeterminazione, ai livelli delle comunità locali, e grazie ad una reinterpretazione della cooperazione e della integrazione tra diversi, al livello delle grandi organizzazioni sovranazionali.

Questa, infatti, è l’unica risposta organizzativa logicamente coerente con le dimensioni assunte dal mercato globale. Ogni consorzio di organizzazioni locali, che presuma di potere mettere il cappuccio sulla dimensione e sulla forza del mercato globale, si candiderebbe alla sconfitta nel lungo periodo e realizzerebbe danni e miserie, nel breve periodo, per le popolazioni che avevano richiesto a quei governi crescita e benessere. I mercati sono come le onde: bisogna saperci navigare sopra e non pretendere di portarle dove suggeriscono le nostre modeste e deboli ambizioni. Anche perché, in questo secondo caso, ti travolgono assai facilmente. Ma il rimpianto che nasce dalla pretesa di conoscere in anticipo il corso della storia, è una bestia ancora molto pericolosa nello zoo della politica europea

20 luglio 2001

maloci@tin.it



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