Il libero mercato non ha bisogno di trattati
di Pierre Lemieux


Tre quarti di secolo prima che si svolgesse il Summit delle Americhe a Quebec City tra il 20 e il 22 aprile 2001, John Maynard Keynes si stupiva di fronte al fenomeno della globalizzazione. “Un londinese può ordinare per telefono, mentre sorseggia il tè del mattino a letto, vari prodotti da tutto il pianeta (…) - scriveva Keynes - egli sarebbe anche in grado, nello stesso tempo e coi medesimi mezzi, rischiare le proprie ricchezze investendole nelle risorse naturali o nelle nuove avventure imprenditoriali in qualunque angolo del pianeta (…) Potrebbe assicurarsi immediatamente, volendolo, comodi ed economici mezzi di trasporto verso qualunque paese o clima senza passaporto o altre formalità”.

I decenni precedenti la Prima guerra mondiale furono un periodo di globalizzazione almeno tanto vasto quanto quello odierno. Considerata la velocità con cui la Free Trade Area of the Americas spinge questo continente verso un commercio più libero, sembra quasi che si vogliano recuperare le promesse non mantenute ai tempi della Grande guerra. Il summit del Quebec, però, ha inviato messaggi contradditori, nessuno dei quali rivoluzionario. I leader dei 34 stati partecipanti hanno mostrato di essere innamorati del controllo del commercio assai più che del libero mercato, e di nutrire interesse per la redistribuzione e la regolamentazione del reddito in misura maggiore che non per l’eliminazione delle restrizioni agli scambi. “La creazione di un’area di libero mercato non rappresenta in sé un fine”, ha affermato il primo ministro canadese Jean Chretien. Facendo sfoggio di una straziante correttezza politica, egli ha aggiunto: “Ci siamo concentrati su un piano di azione globale basato sulla cooperazione, con l’obiettivo di ridurre la povertà, proteggere l’ambiente, promuovere certi standard lavorativi e incoraggiare la responsabilizzazione delle aziende”. Il “piano di azione” dei partecipanti prevedeva misure che spaziano dalla regolamentazione sul tabacco al controllo delle armi, fino al monitoraggio delle transazioni finanziarie.

Che ne è del mondo “senza passaporti” auspicato da Keynes? A Quebec City, come agli altri meeting internazionali sul commercio, i delegati degli stati si sono comportati come agenti degli esportatori dei rispettivi paesi. Fateci questa “concessione”, hanno ritmato, e in cambio permetteremo ai vostri esportatori di entrare nei nostri mercati. Questo, tuttavia, travisa grossolanamente la vera natura del commercio e dell’economia libera. La ragione principale del libero scambio non è che gli esportatori debbano godere di mercati più vasti, ma che i consumatori dispongano di un più ampio ventaglio di scelte - anche se il primo fatto è una conseguenza del secondo. Presentandosi come membri di un club delle esportazioni, le persone deputate a negoziare sul commercio si espongono agli attacchi di quanti affermano che il libero scambio opera a esclusivo vantaggio delle aziende. Gli economisti sanno da secoli che un regime di libero scambio può essere realizzato senza la necessità di alcun trattato. Gli abitanti di un certo paese godrebbero di molti dei vantaggi del libero mercato se solo il loro governo abolisse le restrizioni sulle importazioni. Dietro il velo delle transazioni finanziarie, i prodotti vengono in ultima analisi scambiati contro altri prodotti, sicché più un paese importa beni dall’estero, più gli stranieri chiederanno un aumento delle sue esportazioni. In alternativa, gli esportatori di altre nazionalità dovranno investire in quel paese, creando così un deficit di commercio; non vi è nulla di male neppure in questo.

In altre parole, se volete il libero scambio, limitatevi a scambiare. Gran parte del libero mercato nel mondo prima della Grande guerra, anzi, era dovuto alle politiche unilaterali di libero mercato della Gran Bretagna. Gli accordi sul commercio sono utili solo nel senso che essi vengono in soccorso degli interessi degli scialbi produttori interni, sostengono il primato dei consumatori e chiudono in cassaforte i vantaggi dello scambio. Tali trattati non dovrebbero mirare a ridurre la concorrenza realizzando altri obiettivi, del genere di quelli abbracciati dai capi di stato in Quebec. Questo si tradurrebbe in nulla più che un commercio controllato, uno scopo che, paradossalmente, si può dire metta d’accordo i leader presenti e la teppaglia che manifestava contro di loro. William Watson, un economista canadese, ha sottolineato sul Financial Post come i dimostranti, che non ritengono i governi meritevoli della fiducia necessaria per negoziare sul libero commercio, provengano, contraddittoriamente, da compagini politiche solitamente note per la loro cieca fede nel governo. Per quanto riguarda il piccolo gruppo degli anarchici, pare che essi non si rendano conto che la chiusura delle frontiere e la proibizione degli atti capitalistici tra adulti consenzienti in realtà accrescono il potere dello stato.

A un certo momento, durante la marcia di sabato 21 aprile, i dimostranti avevano la bocca sigillata da grossi codici a barre, come se il libero scambio implicasse una loro trasformazione in numeri privi di parole. Che buffo! Questi manifestanti avevano certamente, e forse fieramente, nel portafogli il proprio numero di previdenza sociale imposto dal governo, la patente e i cartellini dell’assistenza sanitaria, che, senza dubbio, li hanno mutati in bestiame numerato dello stato. Un’altra curiosa ironia: gli aspiranti contestatori americani si lamentavano di essere stati bloccati al confine canadese, quando il loro intero messaggio si può riassumere nella restrizione delle frontiere. Una volta che ci siamo resi conto che il libero mercato non è altro che la libertà individuale di effettuare scambi attraverso i confini politici, è facile comprendere che per proibirlo sono necessarie sanzioni o minacce di sanzioni. Bisogna multare o imprigionare l’importatore che non rispetta le restrizioni al commercio. Nei dibattiti sulla Free Trade Area of the Americas (come su altre questioni), una fonte di molte confusioni è l’incapacità di accettare il fatto che il libero mercato è una conseguenza della sovranità individuale.

(traduzione dall’inglese di Carlo Stagnaro)

20 luglio 2001

(estratto da The Wall Street Journal del 24 aprile 2001,
pubblicato per gentile concessione del WSJ)





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