Libertà e disunità del mondo
di Ludovico Incisa di Camerana


Dai ritmi concitati e clamorosi, che caratterizzavano gli incontri e gli scontri della Guerra Fredda, si è passati, in questo prolungato dopoguerra, ad una diversa, meno pressante ma anche più noncurante, dimensione del tempo. Le crisi diplomatiche, i conflitti si svolgono al rallentatore. La drammaticità di certe situazioni, dalle guerre tradizionali alle guerre civili, si diluisce, trascinandosi in un teleromanzo a puntate, scadendo dalla realtà nella finzione: il tempo reale diventa un tempo virtuale, quando non sollecita reazioni immediate. Perfino i grandi temi, i grandi progetti soffrono di questa collocazione in una dimensione che sembra ignorare ogni senso d’urgenza. Sono passati undici anni dal caduta del muro di Berlino e dalla liberazione dell’Europa dell’Est, nove dalla fine dell’Unione Sovietica, e l’Europa occidentale non ha ancora congegnato un progetto serio per la sorella dell’Est, né sa cosa fare con la Russia. Sono passati nove anni dalla guerra del Golfo e ancora non si capisce se tale conflitto sia finito o no. A sua volta il problema palestinese continua a passare a sequenze alterne dai laboratori della diplomazia alle battaglie di strada. Ed ancora: ci sono voluti anni di secessioni sanguinose e di interventi militari per capire, dopo la caduta di Milosevic, che senza Belgrado non c’è soluzione alla crisi balcanica e che, senza Belgrado, Bosnia e Kosovo resteranno due perenni protettorati atlantici. Quanto all’Africa, il Continente resta esposto a sporadiche incursioni di buonismo senza influenza su un percorso sempre più procrastinato: la trasformazione delle ex colonie in Stati nazionali.

A nove anni dal Trattato di Maastricht, l’Europa stessa rimane ancora un enigma: non sappiamo se avremo ad una scadenza ragionevole ancora l’Europa di oggi ovvero un’Europa gradualmente allargata ovvero mostruosamente gonfiata. Non sappiamo nemmeno se, applicando rigorosamente la strategia delle due velocità, avremo due Europe, una più rapida e una più lenta, o più realisticamente un’Europa più piccola, una restaurata Europa dei Sei, dentro un’Europa allargata. Alla lentezza, a questa frammentazione nel tempo dei processi internazionali, si aggiunge l’imprevedibilità dei fenomeni futuri: crisi e conflitti. Se la raffigurazione del passato è soggetta a continue interpretazioni e quella del presente è, grazie agli apparati audiovisuali, di un’abbagliante istantaneità, la raffigurazione dell’avvenire è confusa e ingannevole. “Ora, come prima, l’oscurità del nostro futuro - scrive David Ruelle in Hasard et Chaos - rimane insondabile, e non sappiamo se l’umanità va verso un futuro più nobile del presente o verso un’inevitabile distruzione”. E un pensatore italiano, Riccardo Campa, prosegue: “L’imponderabilità del futuro rimane un interrogativo inevaso, non soltanto perché gli strumenti della predizione non sono molto efficaci, ma anche perché il mondo ha smarrito quel sentimento della divinazione che considera un modo arcaico di collegarsi con il tempo a venire”. L’assenza di un “sentimento di divinazione” e di ciò che, più rozzamente, si potrebbe chiamare un certo “fiuto”, spiega come l’inaugurazione del terzo millennio sia stata accompagnata da una scia di previsioni non azzeccate. 

Basta pensare al mito del futuro primato asiatico, basato sulla decadenza dell’Europa e sul trionfo delle tigri e tigrotti dell’Estremo Oriente, crollato invece alla fine degli anni Novanta con un Giappone ridimensionato e le piccole tigri costrette a rifarsi denti caduti e artigli spuntati. Basta pensare ai nuovi “nemici globali” inventati per gli Stati Uniti da certi profeti americani tempo fa, un Giappone arrogante e una Germania padrona dell’Europa e tornata aggressiva, e imbattersi oggi con un Giappone e una Germania, che fuggono ogni responsabilità egemonica anche sul piano regionale. Basta pensare alle promesse dei profeti dell’euro - bassi saggi d’interesse, vigoroso confronto con il dollaro - e alla realtà d’oggi: un euro, che, fortunatamente per le nostre esportazioni e in base alla più banale logica finanziaria, oscilla come la nostra lira di un tempo e che va avanti con il classico, grossolano e arruffato ricostituente dell’aumento degli interessi. Per restare in campo economico, al principio del Duemila, sulla più prestigiosa rivista di politica estera americana, due esperti si strappavano i capelli preannunciando decenni di sovrapproduzione di petrolio e una conseguente costante discesa dei prezzi del greggio, azzardando perciò profezie disastrose sulla sorte dei poveri paesi petroliferi data l’inarrestabilità del fenomeno, venendo clamorosamente smentiti pochi mesi dopo.

Imprevedibile è stato per alcuni paesi, quelli dell’Europa meridionale, il fenomeno dell’immigrazione e probabilmente altrettanto imprevedibile sarà la sua fine. Il rischio è che l’imprevedibilità diventi paura, paura di nemici falsi o invisibili. La riproposta da parte di Clinton dello scudo antimissilistico nasce da questo timore dell’imprevedibile. L’America infatti non ha più nemici seri. I cosiddetti rogue states, gli stati cattivi, fanno più pena che male: la presunta, e non sempre accertata, aspirazione a dotarsi di armi nucleari compensa un complesso d’inferiorità sul piano dello sviluppo economico, una fragilità istituzionale di fondo: i loro dirigenti possono forse vantarsi del possesso di missili o armi chimiche, ma sanno bene che al loro impiego risponderebbe una rappresaglia tale da far sparire i loro paesi dalla faccia della terra. L’accoglienza fatta dalla Corea del Nord alla mano tesa dell’Italia, dimostra che i rischi sono per l’Occidente più interni che esterni: azioni terroristiche come l’attentato di Oklahoma. Ben più pericolosa in sé è l’accumulazione di ordigni atomici nelle zone confinarie asiatiche, dove si fronteggiano quattro potenze nucleari: Russia, Cina, India, Pakistan.

L’esistenza, da un lato, di una tendenza oggettiva a temporeggiare sia di fronte alle crisi sia nella realizzazione dei grandi progetti, dall’altro l’imprevedibilità dei nuovi fenomeni internazionali rendono difficile determinare quali sono le nuove regole del sistema. Si può solo indicare quali regole si è tentato di proporre e quali siano i risultati di tale tentativo. La prima regola è quella della globalizzazione, che corrisponde alla concezione del politologo americano Francis Fukuyama e ispira, tra l’altro, la politica estera americana. Il modello liberalcapitalista ha vinto la Guerra Fredda con un’arma invincibile, la tecnologia. L’adattamento delle attuali anomalie, i regimi collettivisti residui, è questione di tempo, anche perché obbligato da una rivoluzione delle comunicazioni che rende impossibili la costruzione di nuove muraglie cinesi: chi si isola paga duramente l’isolamento. La globalizzazione dovrebbe essere gestita dalle Nazioni Unite, che pur rimanendo un ordine gerarchico e non democratico data la funzione predominante del Consiglio di sicurezza, hanno compiuto innegabilmente con Boutros Ghali uno sforzo eccezionale per “governare il mondo”. 

Kofi Annan, da parte sua, ha cercato con il Vertice del millennio di codificare una sorta di giustizia sociale tra le nazioni. Ma il progetto di una globalizzazione universale è fallito, perché privo di una capacità di coazione: il sistema delle sanzioni contro i renitenti ha funzionato in un modo non decisivo contro l’Irak, la Libia, la stessa Jugoslavia e gli interventi militari si sono incagliati nelle piccole guerre africane. Alla globalizzazione universale, rinviata a tempi migliori o ad un’applicazione settoriale, si è sostituita una globalizzazione selettiva, a rate o a pezzi, il sistema della globalizzazione regionale e interregionale, seguìto sia dagli Stati Uniti sia dall’Unione europea. Il disegno dei primi è il più organico, si passa dall’aggregazione regionale realizzata con il Nafta nell’America settentrionale al tentativo di creare un’entità emisferica: l’Alca. Il passo successivo dovrebbe essere la zona di libero scambio transatlantica, l’aggancio con l’Unione europea. La linea americana, peraltro, non è puramente occidentalista e non trascura con il Foro Asia-Pacifico, un’area meno assestata regionalmente, ma sempre significativa. Inoltre, sia nelle regioni aggregate sia nelle regioni non privilegiate come tali, la diplomazia americana mira a costruire un circuito di potenze regionali, i pivotal states. Contemporaneamente, gli Stati Uniti sviluppano un disegno militare analogo servendosi vuoi della Nato vuoi di coalizioni ad hoc per determinati interventi militari come nel Golfo Persico, in Somalia, in Bosnia, nel Kosovo.

Pur seguendo una strategia regionalistica, l’America mantiene un obbiettivo finale universalista, ideologicamente liberista ed incarnato istituzionalmente dall’Organizzazione mondiale del Commercio, per ora in situazione di stallo dopo il fallimento del Vertice di Seattle. L’Unione europea ricalca la strategia della globalizzazione americana in una forma più lenta e prudente, donde il carattere esangue, ancora non sostanzioso, di certe iniziative, come il Partenariato euro-mediterraneo, gli accordi con le comunità regionali latinoamericane, i seguiti del Vertice di Rio con i paesi dell’America Latina e Caraibica, i negoziati per l’allargamento ad Est, senza parlare dell’associazione con le ex colonie europee in Africa e altrove. Un ruolo ambiguo rispetto alla globalizzazione di stampo occidentale svolgono personaggi in cerca di un autore o di un regista, come la Russia e la Cina, paesi in cui persiste un forte substrato nazionalista, ma che attendono un segnale dall’Occidente. La tentazione del fare da sé è invece accentuata in paesi come l’India e il Pakistan ed in varie potenze minori del Terzo Mondo. E’ in tale area geopolitica che possono affiorare quei fattori di reazione e di conflitto nei confronti del modello occidentale di globalizzazione, individuati dal celebre saggio di Huntington sullo scontro di civiltà.

In se stessa la globalizzazione, nelle sue manifestazioni effettive, prevalentemente mercantiliste, sottintende ideologicamente una sorta di liberalismo materialista con lo stesso risvolto utopistico, benché capovolto, del suo antagonista, il comunismo marxista: all’utopia della società senza classi si sostituisce l’utopia della società senza nazioni. Utopia la prima, utopia la seconda: come le classi, le nazioni si vanno moltiplicando, perfino nell’Europa occidentale. Emerge quindi la necessità di correttivi ideologici. Vi sono formule parziali, come il decantato ma sfuggente patriottismo europeista propagandato dal federalismo europeo, ma per ora la formula più generale è data dalla dottrina dei diritti umani: secondo quest’ultima alla globalizzazione dovrebbe corrispondere come obbiettivo una democrazia transnazionale, la cosmopolitan democracy. Si dovrebbe istituire una cittadinanza globale, concedendo una rappresentanza politica nella sfera internazionale non solo ai governi ma anche agli individui. Si porrebbe così la premessa di un ordine internazionale democratico anche tra gli Stati. Siamo ancora nella fase delle eleganti speculazioni teoriche. In realtà la dottrina dei diritti umani si scontra nella sua affermazione pratica con due difficoltà: a livello occidentale la differenza tra la sua versione americana e la sua versione europea, a livello universale la diversa interpretazione di tali diritti secondo le diverse aree culturali.

La differenza dell’interpretazione nell’ambito occidentale deriva dal risvolto pragmatico della versione americana e dal risvolto dogmatico di quella europea o meglio latina. La tradizione americana esalta la felicità dei cittadini secondo i loro meriti, ma condanna i reprobi come causa di infelicità per i giusti, privilegia in origine certe categorie, senza preoccuparsi dell’esistenza di fasce di disuguaglianza o di esclusione. La tradizione giacobina europea si basa su princìpi giuridici validi per tutti, che non ammettono deroghe negative. La conseguenza è che per gli americani l’applicazione del criterio del double standard - l’insistenza sul rispetto dei diritti umani nel Kosovo e l’indifferenza per il non rispetto dei diritti umani a Timor o in Africa - non si presenta come un’ipocrisia ma come una questione di opportunità. Viceversa, quella che è per gli americani una questione di opportunità diventa per gli europei, anziché una questione di coscienza, una questione giuridica, come l’obbligatorietà dell’azione penale, per cui, data l’impossibilità di interventi in tutte le parti del mondo, in favore di tutte le nobili cause, si ricorre, inevitabilmente ed analogamente, all’applicazione del double standard, ma con un giustificazionismo maldestro, non meno ipocrita di quello addebitato agli americani.

Ancora più complesso il secondo aspetto della questione, il rapporto tra la dottrina dei diritti umani e aree culturali o religiose che hanno premesse esistenziali diverse dai valori cristiani e laici della tradizione occidentale. L’antagonismo tra il mondo occidentale e alcune di queste aree è ancora più vistoso, per quanto riguarda certe condizioni umane, come quella della donna, di quello esistente durante la Guerra Fredda, tra il blocco occidentale ed un blocco sovietico, che, per quanto in modo distorto e maligno, si ispirava ad un filone del pensiero occidentale. La difficoltà di identificare un collante ideologico comune con i paesi di civiltà non occidentale riporta a collegamenti globali puramente utilitaristici, di mutua convenienza che, venendo meno, lasciano il campo libero, come è accaduto nelle guerre jugoslave, ad una feroce conflittualità.

Lo scenario della Guerra Fredda escludeva la guerra tra i due schieramenti: la capacità reciproca di dissuasione era tale da rendere poco probabile lo scontro armato e da rendere troppo costosa anche una possibilità di vittoria. Si era verificato, così, un decentramento delle ostilità, respinte dall’Europa, già campo di battaglia delle grandi rivalità egemoniche, verso la periferia, verso il Terzo Mondo. Lo scenario di questo lungo dopoguerra ha ammesso di nuovo anche in Europa la possibilità della guerra perché la conflittualità odierna non prevede l’impiego delle armi di distruzioni di massa nemmeno come minaccia o mezzo di dissuasione. Questo spiega come i conflitti d’oggi coinvolgano anche paesi che si erano astenuti fin dal 1945 da azioni di guerra e come 57 anni dopo l’armistizio del 1943, truppe italiane, accompagnate da funzionari civili, occupino nei Balcani una parte dei territori in Bosnia, Kosovo, Albania, che avevano occupato durante la seconda guerra mondiale. Questo ricorso storico ha certamente un risvolto geopolitico su cui varrebbe la pena di soffermarsi, ma indica, in una valutazione generale del sistema internazionale, come il fattore militare sia tornato ad essere un ingrediente indispensabile di una politica estera nazionale sia sul piano regionale europeo sia sul piano globale extraeuropeo. Secondario all’epoca della Guerra Fredda, quando l’apparato militare nucleare e convenzionale degli Stati Uniti sovrastava quello degli alleati, il fattore militare oggi distingue e qualifica il ruolo internazionale di un paese. D’altronde l’accantonamento della dissuasione nucleare non significa la rinuncia all’impiego nei conflitti attuali di tecnologie sofisticate e all’aggiornamento delle impostazioni strategiche.

Al contrario: negli Stati Uniti è già in corso una Revolution in military affairs (Rma), che ha avuto una qualche eco da noi grazie a Carlo Jean e Giulio Tremonti, ma non ha dato luogo, fuori dagli ambienti tecnici interessati, ad un dibattito. Un’eco ancora minore ha avuto un saggio di due colonnelli cinesi, Qiao Ling e Wang Xinagsui, tradotto in inglese sotto il titolo Unrestricted Warfare, che aggiorna la teoria della guerra totale al tempo della globalizzazione, evocando tutti gli strumenti da adoperare in una categoria di conflitti che, ormai, si sposterebbero operativamente dallo spazio umano (man made space ) allo spazio tecnologico (technogical space). Con le Rma e con la guerra illimitata dei colonnelli cinesi ci troviamo peraltro nell’ambito di tesi valevoli quasi esclusivamente per confronti immaginari tra le massime potenze. La realtà di oggi ci pone, invece, di fronte ad una tipologia conflittuale che sfugge, dalle guerre tribali africane alle guerre etniche europee, al contesto tecnologico più moderno e rende inutile e talvolta grottesco l’impiego di strategie e mezzi sofisticati. Sono proprio questi conflitti a bassa tecnologia i più impervi alle mediazioni diplomatiche e perfino a soluzioni di forza incruente (è il caso della Somalia). In questo senso la conflittualità moderna, ma sarebbe meglio dire la conflittualità postmoderna, propone ipotesi di intervento che vanno dalle tradizionali guerre coloniali ai raid aerei, (come le spedizioni atlantiche nei Balcani), dalle guerre al machete, alle guerre al flipper alle guerre stellari.

Le nuove teorie militari partono da una premessa innovativa: la guerra non si fa per imporre all’avversario la propria volontà ma per imporgli il proprio interesse. La nozione dell’interesse nazionale viene così riportata al centro dell’attività internazionale degli stati con l’esclusione dei fattori ideologici. Del resto non è difficile scorgere in filigrana anche negli interventi umanitari l’interesse nazionale di chi li realizza. Questo interesse può essere più interno che internazionale: per esempio, l’intervento degli Stati Uniti in Haiti nel 1998 va ascritto principalmente all’esigenza di soddisfare i gruppi di pressione afro-americani e i loro rappresentanti parlamentari. Le stesse modalità del sistema, il prolungamento indefinito delle crisi, l’imprevedibilità della fenomenologia internazionale, l’insufficienza delle risposte fornite dalla globalizzazione, l’inesistenza di interpretazioni comuni di problemi fondamentali, la lievitazione di fermenti conflittuali non più localizzati ma estesi anche all’Europa, se hanno fornito al sistema internazionale regole approssimative, rivalutano l’interesse nazionale come strumento d’orientamento, come bussola. Ovviamente l’interesse nazionale non va inteso in modo provinciale ed egoista: nel caso dell’Italia l’interesse nazionale coincide con quello europeo ed occidentale.

Proprio per questo non è facile individuarlo nella sua precisa portata. Ed ecco la necessità di una cultura politica in campo internazionale. L’obiezione populista sorge in un vuoto culturale. Questo vuoto culturale è particolarmente forte in un paese come l’Italia nel quale non esiste letteralmente un’opinione pubblica sulla politica estera e nel quale la stessa espressione “interesse nazionale”, di uso corrente negli Stati Uniti e nelle altre potenze occidentali, suona come blasfema. Ma ormai troppi sono gli interrogativi che si presentano in questa lunga transizione verso nuovi equilibri internazionali per non ricorrere a questo riferimento. E troppe sono state le occasioni perdute dall’Europa: l’89, infatti, aveva posto le condizioni per un’aggregazione al mondo occidentale dei diversi frammenti del mondo sovietico e del Terzo Mondo. Viceversa è mancata e manca una strategia del ricupero. Oggi questa frammentazione si è accentuata e la supplenza dei singoli paesi europei è sempre più necessaria ed urgente. Il rischio di andare alla deriva per l’inerzia delle grandi organizzazioni è grave. L’interesse nazionale può invece fare da guida. Il porto d’arrivo è lontano per tutti se non si ricostruisce meticolosamente la mappa dei propri interessi e di quelli altrui.

20 luglio 2001

(da Ideazione 6-2000, novembre-dicembre)



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