La vocazione sociale del liberalismo
di Francis Fukuyama


Nell’ultimo secolo gli Stati Uniti e altri paesi economicamente avanzati sono entrati in quella che stata definita la società informatica, l’era informatica o l’era postindustriale. Il futurologo Alvin Toffler ha chiamato questa transizione la “terza ondata”, suggerendo che sarà carica di conseguenze come le due ondate precedenti della storia dell’uomo: dalle società del cacciatore-raccoglitore a quelle agricole e da quelle agricole a quelle industriali. Una società costruita intorno all’informazione tende a produrre una quantità maggiore di ciò che viene considerata la cosa più importante in una democrazia moderna: libertà e uguaglianza. La libertà di scelta è esplosa in tutto, dai canali via cavo, ai punti di vendita a basso costo, agli amici conosciuti su Internet. Le gerarchie di ogni sorta, politiche o sociali, messe sotto pressione hanno iniziato a disgregarsi. Solitamente si associa l’era informatica all’avvento di Internet negli anni Novanta, ma il distacco dall’era industriale iniziò più di una generazione prima con la de-industrializzazione della Zona della Ruggine negli Stati Uniti e con simili movimenti in altri paesi industrializzati. Questo periodo, approssimativamente dalla metà degli anni Sessanta all’inizio degli anni Novanta, è stato contraddistinto anche dal serio deteriorarsi delle condizioni sociali in gran parte del mondo industrializzato. Il crimine e i disordini sociali hanno iniziato ad aumentare, rendendo quasi inabitabili i centri delle città delle società più ricche della terra. La perdita di valore della parentela come istituzione sociale, iniziato più di duecento anni fa, ha subìto una forte accelerazione nella seconda metà del ventesimo secolo. I matrimoni e le nascite sono diminuiti e i divorzi aumentati; un bambino su tre negli Stati Uniti e oltre la metà in Scandinavia sono nati fuori dal matrimonio. La fiducia nelle istituzioni, infine, è entrata in una fase discendente durata quarant’anni. Mentre alla fine degli anni Cinquanta la maggioranza dei cittadini europei e statunitensi dichiarava di avere fiducia nel proprio governo e nei propri concittadini, all’inizio degli anni Novanta solo una piccola minoranza era di quest’opinione. Anche la natura dei rapporti fra le persone è cambiata; sebbene non si possa dire che la gente avesse meno rapporti, i legami tendevano ad essere meno permanenti, più lenti e con gruppi di persone più esigui. Si trattò di cambiamenti drammatici; si verificarono in molti paesi con caratteristiche simili e tutti all’incirca nello stesso periodo storico. Per questo costituirono una Grande Rottura nei valori sociali che avevano dominato la società dell’era industriale a metà del Ventesimo secolo.

E’ molto insolito che degli indicatori sociali cambino insieme così rapidamente; anche se non ne conosciamo le cause, abbiamo motivo di credere che le ragioni possano essere collegate fra loro. Il declino si può misurare facilmente con le statistiche sul crimine, sui bambini senza padre, la mancanza di fiducia, la diminuzione di opportunità per chi finisce di studiare e simili. E’ stato semplicemente un caso che questi trend sociali negativi, che insieme riflettono un indebolimento dei legami sociali e dei valori comuni alle società occidentali, si siano presentati proprio quando le economie di quelle società compivano la transizione dall’era industriale a quella informatica? L’ipotesi di questo articolo è che le due cose siano in realtà strettamente correlate e che, sebbene un’economia più complessa basata sull’informatica abbia prodotto numerosi vantaggi, ci siano stati anche degli effetti negativi sulla nostra vita sociale e morale. I legami erano di natura tecnologica, economica e culturale. La mutata natura del lavoro ha sostituito la fatica fisica con quella mentale, e questo ha spinto milioni di donne al posto di lavoro, scardinando così le condizioni tradizionali sulle quali si basava la famiglia. Le innovazioni nella tecnologia medica, che hanno introdotto la pillola anticoncezionale ed una maggiore longevità, hanno determinato una perdita d’importanza della riproduzione e della famiglia nella vita delle persone. E la cultura dell’individualismo, che in laboratorio e nel mercato produce innovazioni e crescita, si è riversata nel regno delle norme sociali, dove ha praticamente eroso ogni forma di autorità e ha indebolito i vincoli che tenevano insieme le famiglie, i vicinati e le nazioni. Tutta la storia è, ovviamente, molto più complessa e varia da paese a paese. Ma in generale, il cambiamento tecnologico che sul lavoro determina quella che l’economista Joseph Schumpeter ha definito "distruzione creativa", ha causato una simile distruzione nel mondo delle relazioni sociali. In realtà ci sarebbe da meravigliarsi se non fosse stato così.

Ma esiste anche l’altra faccia della medaglia: una volta distrutto, l’ordine sociale tende a ricostituirsi e vi sono molte indicazioni che oggi questo si stia verificando. Oggi una delle principali sfide che le democrazie dell’era informatica devono affrontare è il mantenimento dell’ordine sociale di fronte ai cambiamenti economici e tecnologici. Fra l’inizio degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta vi è stata un’ondata improvvisa di nuove democrazie in America Latina, in Europa, in Asia e nel mondo ex comunista. Come ho sostenuto ne “La Fine della Storia” e l”Ultimo Uomo” (1992), esiste una forte logica dietro l’evoluzione delle istituzioni politiche verso moderne democrazie liberali, basata sulla correlazione fra sviluppo economico e democrazie stabili. Nel tempo le istituzioni politiche ed economiche dei paesi economicamente più avanzati sono andati convergendo, e non esiste un’alternativa ovvia per gli altri. Questa tendenza progressiva non è, però, necessariamente ovvia nello sviluppo morale e sociale. 

La tendenza delle democrazie liberali contemporanee a cadere preda di un eccessivo individualismo rappresenta forse nel lungo periodo il loro aspetto più vulnerabile ed è particolarmente evidente nella più individualistica delle democrazie, gli Stati Uniti. Il fondamento dello stato liberale moderno era che, nell’interesse della pace politica, il governo non prendesse posizione rispetto alle diverse istanze morali della religione e della cultura tradizionale. Bisognava tenere separati stato e Chiesa; doveva esistere un pluralismo di opinioni sulle questioni morali ed etiche che concernevano i fini più alti e la natura del bene. La tolleranza sarebbe diventata la virtù cardinale; il consenso morale sarebbe stato sostituito da una struttura trasparente di leggi e istituzioni che avrebbe creato l’ordine politico. Con un simile sistema politico i cittadini non dovevano essere particolarmente virtuosi; bastava solo che fossero razionali e seguissero la legge nel loro stesso interesse. Allo stesso modo, con il sistema economico capitalistico basato sul mercato che andava a braccetto con il liberalismo politico, bastava solo che i cittadini tenessero conto del proprio interesse a lungo termine per raggiungere una produzione ed una distribuzione dei beni socialmente ottimale. Le società create su queste basi individualistiche hanno funzionato straordinariamente bene e, alla fine del ventesimo secolo, vi sono poche alternative reali alla democrazia liberale e al capitalismo di mercato, intesi come princìpi fondamentali per organizzare le società moderne. L’interesse individuale è un terreno meno nobile ma più stabile della virtù per fondarci una società. La creazione del governo della legge è uno dei successi delle civiltà occidentali di cui essere più orgogliosi; e i suoi vantaggi appaiono fin troppo ovvi quando si ha a che fare con paesi che non ce l’hanno, come la Russia e la Cina. 

Ma per quanto fondamentali, la legge formale e le istituzioni economiche non sono sufficienti a garantire il successo di una società moderna. Per funzionare a dovere, una democrazia liberale ha sempre avuto bisogno di alcuni valori culturali ampiamente condivisi. Questo si vede chiaramente nel contrasto fra gli Stati Uniti e i paesi dell’America Latina. Quando l’Argentina, il Brasile, il Cile, il Messico ed altri paesi sudamericani acquisirono l’indipendenza nel diciannovesimo secolo, molti di essi istituirono costituzioni democratiche e sistemi legali modellati sul sistema presidenziale degli Stati Uniti. Da allora neanche uno dei paesi sudamericani ha avuto la stabilità politica, la crescita economica e l’efficienza istituzionale di cui godono gli Stati Uniti, anche se fortunatamente la maggior parte di essi è ritornata ai governi democratici entro la fine degli anni Ottanta. Vi sono molte complesse ragioni storiche che spiegano questo fenomeno, ma la più importante è di natura culturale.

Il problema della maggior parte delle democrazie liberali è l’impossibilità di dare per scontate le loro fondamenta culturali. Le migliori, compresi gli Stati Uniti, hanno avuto la fortuna di sposare solide istituzioni formali a una cultura di sostegno flessibile e informale. Ma niente in queste istituzioni garantisce che la società alla base di esse continuerà a condividere il giusto tipo di valori e di norme culturali sotto la pressione dei cambiamenti tecnologici, economici e sociali. E’ vero, anzi, il contrario: l’individualismo, il pluralismo e la tolleranza inseriti nelle istituzioni formali tendono ad incoraggiare la diversità culturale e potenzialmente possono scardinare i valori morali ereditati dal passato. Ed un’economia dinamica e tecnologicamente innovativa per la sua natura distruggerà le relazioni sociali esistenti. Potrebbe essere, allora, che sebbene le grandi istituzioni politiche ed economiche si siano evolute all’interno di un lungo e continuo percorso, la vita sociale sia più ciclica. Le norme sociali che vigono in un periodo storico, vengono distrutte dai progressi tecnologici ed economici e la società deve sforzarsi di stare al passo per istituire nuove regole.

Dagli anni Sessanta in poi l’Occidente ha conosciuto una serie di movimenti che hanno cercato di liberare gli individui dai vincoli delle norme sociali e delle regole morali tradizionali. La rivoluzione sessuale, il movimento femminista e i movimenti per i diritti omosessuali degli anni Ottanta e Novanta sono esplosi in tutto il mondo occidentale. Come è apparso chiaro molto presto, una cultura di individualismo scatenato nella quale infrangere le regole diventa in un certo senso l’unica regola che rimane, comporta seri problemi. Il primo dipende dal fatto che i valori morali e le regole sociali non sono semplicemente arbitrarie limitazioni della scelta individuale, ma rappresentano la condizione essenziale di qualsiasi tipo di iniziativa in comune. In realtà gli studiosi dei fenomeni sociali hanno iniziato recentemente a definire i valori in comune di una società “capitale sociale”. Come il capitale fisico (terra, edifici, macchine) e quello umano (le capacità e le nozioni che abbiamo in testa), il capitale sociale produce ricchezza ed ha quindi un valore economico per l’economia di una nazione. Ma è anche il presupposto indispensabile per qualsiasi forma di sforzo di gruppo che abbia luogo in una società moderna, dalla gestione di un negozio di verdura al lobbismo sul Congresso, al crescere i propri figli.

Gli individui ampliano il loro potere e le loro abilità-capacità seguendo regole comuni che pongono limiti alla loro libertà di scelta, perché queste permettono loro di comunicare con gli altri e di coordinare le loro azioni. Le virtù sociali come l’onestà, la reciprocità e l’osservanza degli impegni presi non sono solo valori etici; hanno anche un tangibile valore monetario ed aiutano i gruppi che le praticano a raggiungere fini comuni. 
Il secondo problema di una cultura individualistica è che finisce per essere priva di comunità; che non si forma ogni volta che un gruppo di persone interagisce insieme. Le vere comunità sono legate da valori, norme ed esperienze condivise dai loro membri. Più questi valori comuni sono profondi e fortemente rispettati, più è forte il senso della comunità. Lo scambio fra libertà personale e comunità, però, non sembra ovvio e necessario a tutti. Una volta liberatisi dei legami tradizionali verso coniugi, famiglie, vicinati, colleghi e chiese, molti si aspettavano di mantenere i rapporti sociali. Ma hanno iniziato ad accorgersi che le loro affinità elettive, che possono prendere e lasciare a piacimento, li fanno sentire soli e disorientati, desiderosi di rapporti più profondi e permanenti. 

A partire dal 1965 un gran numero di indicatori che possono fungere da misuratori in negativo del capitale sociale hanno cominciato a crescere contemporaneamente in maniera molto rapida. Questi si possono riassumere in tre ampie categorie: crimine, fiducia e famiglia. Gli americani sanno che il tasso di criminalità ha iniziato a crescere molto rapidamente intorno agli anni Sessanta, invertendo drasticamente la tendenza del periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, quando il tasso dei furti e degli omicidi diminuì. Dopo una leggera diminuzione a metà degli anni Ottanta, il tasso di criminalità ha ricominciato ad aumentare alla fine dello stesso decennio, toccando il massimo fra il 1991 e il 1992. Da allora i crimini violenti e contro la proprietà sono notevolmente diminuiti. In realtà sono diminuiti più marcatamente nelle aree dove erano aumentati più rapidamente, vale a dire nelle grandi città come New York, Chicago, Detroit e Los Angeles. Per quanto il tasso di criminalità negli Stati Uniti sia eccezionalmente alto rispetto agli altri paesi sviluppati, nello stesso periodo la criminalità è aumentata in maniera significativa praticamente in tutti gli altri paesi sviluppati non asiatici. Dei cambiamenti delle norme sociali che costituiscono la Grande Rottura, alcuni dei più drammatici sono quelli che riguardano la riproduzione, la famiglia e i rapporti fra i sessi. Il tasso dei divorzi è cresciuto drasticamente in tutti i paesi sviluppati (ad eccezione dell’Italia, dove il divorzio è stato illegale fino al 1970, ed altri paesi cattolici); negli anni Ottanta si poteva prevedere che la metà dei matrimoni americani finisse in divorzio e il rapporto fra i divorziati e gli sposati si era quadruplicato in soli trent’anni. Dal 1940 al 1995 le nascite fuori dal matrimonio sono passate da meno del 5 per cento al 32 per cento negli Stati Uniti. In molti paesi scandinavi si arrivava fino al 60 per cento; il Regno Unito, il Canada e la Francia hanno raggiunto livelli paragonabili a quelli degli Stati Uniti. 

Chiunque abbia vissuto negli Stati Uniti o in un altro paese occidentale fra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta non può non riconoscere il diffuso cambiamento di valori verificatosi in questo periodo in direzione di un crescente individualismo. I dati dei sondaggi e la semplice osservazione indicano che i cittadini sono molto meno inclini a fare riferimento all’autorità di una gamma sempre più ampia di istituzioni sociali. La fiducia nelle istituzioni, quindi, è diminuita vistosamente. Nel 1958 il 73 per cento degli americani intervistati pensava che il governo federale faceva quello che era giusto “la maggior parte delle volte” o “quasi sempre”; nel 1995 questa percentuale era scesa al 15 per cento. Gli europei, sebbene nutrano sentimenti meno ostili verso lo Stato rispetto agli americani, hanno subìto un simile crollo della fiducia nelle istituzioni tradizionali come la Chiesa, le forze dell’ordine e il governo. 

Presumendo che l’aumento dei tassi di criminalità non sia semplicemente dovuto al miglioramento dei rapporti della polizia, è necessario porsi diverse domande. Perché il crimine è aumentato così drasticamente e in così poco tempo in un numero così grande di paesi? Perché sta iniziando a stabilizzarsi o a diminuire negli Stati Uniti e in molti altri paesi occidentali? La prima e forse la più facile spiegazione per l’aumento del tasso di criminalità fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta e la sua successiva diminuzione è quella demografica. In genere i crimini vengono commessi soprattutto da giovani maschi fra i quindici e i ventiquattro anni. Questo fenomeno ha indubbiamente una ragione genetica, dovuta alla propensione maschile per la violenza e l’aggressione e significa che quando aumentano le nascite, dopo quindici-venticinque anni salirà anche il tasso di criminalità.

Negli Stati Uniti fra il 1950 e il 1960 il numero dei giovani di età compresa fra i quindici e ventiquattro anni è aumentato di due milioni, mentre nel decennio successivo questo gruppo d’età è cresciuto di dodici milioni un assalto che è stato paragonato ad un’invasione barbarica. Non soltanto il numero maggiore di giovani ha aumentato i potenziali criminali, ma la loro concentrazione in una “cultura giovanile” può aver comportato un aumento ancora maggiore degli sforzi per sconfiggere l’autorità. Il baby boom, tuttavia, spiega solo in parte l’aumento del tasso di criminalità fra gli anni Sessanta e Settanta. Secondo un criminologo l’aumento degli omicidi negli Stati Uniti è stato dieci volte superiore a quanto ci si sarebbe aspettati per i mutamenti della struttura demografica. Altri studi dimostrano che i cambiamenti dell’età della società non sono davvero in relazione con l’aumento del crimine in tutto il paese. Una seconda spiegazione mette in relazione la criminalità alla modernizzazione e ai fattori che la accompagnano come l’urbanizzazione, la densità della popolazione, le occasioni per violare la legge e così via. Si sa che ci sono più furti d’auto e d’appartamento nelle grandi città che nelle zone rurali, semplicemente perché nelle prime è più facile trovare automobili e case vuote. Ma l’urbanizzazione e il cambiamento dell’ambiente fisico spiegano ben poco l’aumento del tasso di criminalità nei paesi sviluppati dopo il 1960. Nel 1960 i paesi che stiamo considerando erano già società industrializzate e urbanizzate; nel 1965 non si è verificato uno spostamento improvviso dalle campagne alle città. Negli Stati Uniti gli omicidi sono molto più numerosi al Sud, sebbene il Nord sia più urbano e più densamente popolato. In realtà la violenza al Sud è un fenomeno rurale e la maggior parte degli osservatori che ha studiato il problema crede che l’alto tasso di omicidi abbia una spiegazione culturale. Il Giappone, la Corea, Hong Kong e Singapore sono fra gli ambienti urbani più densamente popolati in tutto il mondo, eppure l’arrivo dell’urbanizzazione non ha portato una crescita della criminalità. Questo suggerisce che nel determinare i livelli di criminalità l’ambiente umano e sociale sia molto più importante di quello fisico. 

Una terza spiegazione viene a volte eufemisticamente chiamata “eterogeneità sociale”. In molte società il crimine tende a concentrarsi fra le minoranze razziali o etniche; quando le società divengono etnicamente più variegate, come praticamente è successo in tutti i paesi occidentali sviluppati nelle ultime due generazioni, ci si può aspettare una crescita della criminalità. Questo è dovuto molto probabilmente, come sostengono i criminologi Richard Cloward e Lloyd Ohlin, al fatto che alle minoranze sono precluse le giuste vie della mobilità sociale, cosa che non accade per i membri della maggioranza. In altri casi il problema è rappresentato dall’eterogeneità di per sé: i vicinati troppo diversi per cultura, lingua, religione e etnia non diventano mai comunità in grado di far rispettare regole ai loro membri. Tuttavia la crescita della criminalità negli Stati Uniti può essere solo in parte imputata all’immigrazione. 

Una quarta spiegazione riguarda i cambiamenti più o meno contemporanei della famiglia. La scuola di criminologia americana oggi più accreditata sostiene che la socializzazione della prima infanzia è uno dei fattori più importanti nel determinare il successivo livello di criminalità. Questo vuol dire che la maggior parte delle persone non scelgono quotidianamente se commettere o meno un crimine, soppesando i rischi e i vantaggi, come a volte suggerisce la scuola della scelta razionale. La maggior parte della gente obbedisce alla legge, soprattutto per quanto riguarda le offese serie, in base ad un’abitudine appresa relativamente presto nella vita. La maggior parte dei crimini vengono commessi da delinquenti recidivi che non sono riusciti ad imparare quest’autocontrollo. In molti casi non agiscono razionalmente ma seguono un impulso. Poiché non riescono a prevedere le conseguenze, la prospettiva della pena per loro non costituisce un deterrente. 

Parlando di fiducia, valori e società civile, bisogna spiegare due cose: perché c’è stato un calo così diffuso della fiducia tanto nelle istituzioni quanto negli altri e come si può riconciliare il passaggio ad un minor numero di regole comuni con l’apparente crescita di gruppi e di densità della società civile. Le ragioni del calo di fiducia nel contesto americano sono state ampiamente discusse. Robert Putnam sosteneva che poteva essere messo in relazione con la diffusione della televisione, poiché la prima generazione cresciuta guardando la televisione è stata quella che ha visto il più precipitoso crollo dei livelli della fiducia. Non soltanto il contenuto della televisione educa al cinismo per la sua attenzione verso il sesso e la violenza, ma il fatto che gli americani spendano in media più di quattro ore al giorno guardando la televisione, limita le opportunità per le attività sociali con gli altri. 

Si tende a pensare, comunque, che un fenomeno vasto come il calo della fiducia abbia diverse cause, delle quali la televisione è soltanto una. Tom Smith, del National Opinion Research Center, ha elaborato un’analisi statistica dei risultati dei sondaggi sul tema e ha scoperto che la mancanza di fiducia è in correlazione con status socioeconomici umili, appartenenza alle minoranze, esperienze personali traumatiche, religione e età. La gente povera e poco istruita tende ad essere più diffidente dei benestanti e di chi ha frequentato l’università. I neri sono notevolmente più diffidenti dei bianchi, ed esiste una certa correlazione fra la sfiducia e lo status di immigrato. Le esperienze traumatiche che influenzano la fiducia sono, come ci si può aspettare, subire un crimine e essere in cattiva salute. La diffidenza si associa sia a coloro che non frequentano la chiesa sia ai fondamentalisti. E i giovani sono più diffidenti degli anziani. 

Quale di questi fattori è cambiato dagli anni Sessanta per poter giustificare questo fenomeno? La disuguaglianza dei redditi è leggermente aumentata e Eric Uslaner, dell’Università del Maryland, suggerisce che questo potrebbe essere responsabile in parte della crescita della sfiducia. Ma il tasso di povertà in questo periodo ha fluttuato senza complessivamente aumentare e per la maggior parte degli americani la cosiddetta “crisi della middle-class” non ha rappresentato un calo del reddito reale, quanto una stasi dei guadagni. Dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta la criminalità è aumentata drammaticamente ed è normale che chi sia stato vittima di un crimine o guardi sulle Tv locali la quotidiana cavalcata di macabra cronaca nera, provi diffidenza non per gli amici e i familiari più vicini ma per il mondo esterno. La criminalità, quindi, sembrerebbe una spiegazione importante per la crescita di sfiducia verificatasi dopo il 1965, una conclusione confortata anche da analisi più dettagliate. 

L’altro grande cambiamento sociale che ha prodotto esperienze traumatiche è stato l’aumento dei divorzi e la disgregazione delle famiglie. Affidandosi al buon senso, si è portati a pensare che i bambini che hanno vissuto il divorzio dei loro genitori, o che hanno dovuto avere a che fare con una serie di fidanzati in una famiglia con un solo genitore, tendano a diventare cinici verso gli adulti in generale, e questo potrebbe arrivare a spiegare l’aumento dei livelli di diffidenza che presentano i sondaggi. Malgrado l’evidente crescita dei sfiducia, i gruppi e le associazioni sono in aumento. Il modo più logico di riconciliare la perdita di fiducia con l’aumento delle associazioni è di riscontrare una riduzione del raggio della fiducia, non soltanto negli Stati Uniti ma in tutto il mondo sviluppato. E’ difficile interpretare in altro modo i dati sui valori e sulla società civile. Si continua a condividere regole e valori così da costituire capitale sociale, riunendosi in sempre più gruppi e associazioni. Ma questi gruppi sono molto cambiati.

L’autorità di gran parte delle grandi organizzazioni è tramontata ed è cresciuta nelle vite dei cittadini l’importanza di una serie di associazioni più piccole. Piuttosto che essere orgogliosi di far parte di un potente sindacato o di lavorare per una grande compagnia o di aver prestato servizio nell’esercito, ci si identifica socialmente con il gruppo di aerobica, una comunità New Age, un gruppo di supporto, o in una stanza dove si chatta via internet. Invece di cercare valori vincolanti in una chiesa che un tempo regolava la cultura della società, la gente seleziona e sceglie i propri valori su una base individuale, legandosi a piccole comunità di gente che la pensa allo stesso modo. 

Questo spostamento verso gruppi più piccoli si riflette in politica nella crescita quasi universale di gruppi di interesse a discapito dei grandi partiti politici. Partiti come i democristiani tedeschi o i laburisti inglesi hanno una posizione coerente sull’intera gamma di questioni che una società deve affrontare, dalla difesa nazionale all’assistenza sociale. Anche se hanno la loro base tradizionale in una particolare classe sociale, questi partiti uniscono un’ampia coalizione di interessi e personalità. I gruppi d’interesse, invece, si concentrano su una sola questione come salvare le foreste pluviali o sostenere l’allevamento di polli nell’alto Midwest; possono avere una portata transnazionale, ma hanno molta meno autorità sia per la quantità di questioni di cui si occupano, sia per il numero di persone che richiamano. Gli americani contemporanei, e anche gli europei, vogliono cose contraddittorie. Sono sempre più diffidenti verso qualsiasi autorità, politica o morale, che possa limitare la loro libertà di scelta, ma vogliono anche un senso di comunità e i vantaggi che derivano dalla comunità come il riconoscimento reciproco, la partecipazione, l’appartenenza e l’identità. Bisogna perciò trovare la comunità in gruppi e organizzazioni più piccole, più flessibili, la cui appartenenza e lealtà si possa sovrapporre, e dove entrare e uscire comporti costi relativamente bassi. Così è possibile riconciliare i desideri contraddittori di autonomia e comunità. Ma in questo scambio la comunità che ricevono diventa più piccola e più debole della maggior parte di quelle che sono esistite in passato. Ogni comunità ha meno in comune con le altre e ha relativamente meno presa sui suoi membri. Il circolo di fiducia è necessariamente più piccolo. L’essenza del cambiamento di valori al centro della Grande Rottura è quindi l’ascesa dell’individualismo morale e la conseguente miniaturizzazione della comunità. Questo spiega in parte perché i valori culturali sono cambiati dopo gli anni Sessanta. Ma fondamentale per la Grande Rottura è stato il cambiamento dei valori sul sesso e la famiglia; un cambiamento che merita una particolare enfasi. 

Sebbene si possa sicuramente affermare che il ruolo della madre abbia il suo fondamento nella biologia, il ruolo del padre è in gran parte costruito socialmente. Come dice l’antropologa Margaret Mead, “a un certo punto agli albori della storia dell’uomo, comparve un’invenzione sociale in base alla quale i maschi iniziarono a prendersi cura delle femmine e dei loro piccoli”. Il ruolo del maschio divenne procurare risorse; “dovunque fra gli esseri umani il maschio aiuta a procurare il cibo per le donne e per i bambini”. Trattandosi di un comportamento acquisito, questo ruolo del maschio è soggetto a interruzioni. La Mead ha scritto: “Ma i fatti indicano che bisogna formulare la questione in maniera diversa per gli uomini e per le donne, che gli uomini devono imparare a volersi occupare degli altri e questo comportamento, essendo acquisito, è fragile e può facilmente essere abbandonato in condizioni sociali che non lo insegnino più efficacemente”. Il ruolo dei padri, in altre parole, varia per cultura e tradizione da un intenso coinvolgimento nell’allevare ed educare i figli, a una presenza più distante come colui che protegge e disciplina, alla quasi assenza di un portare di stipendio. E’ molto difficile separare una madre dal figlio appena nato; al contrario, spesso è molto difficile far interessare un padre al suo. Ponendo in questo contesto i legami di parentela e la famiglia, diventa più facile comprendere perché nelle due ultime generazioni le famiglie hanno iniziato a disgregarsi così rapidamente. Il legame familiare era relativamente fragile, basato sullo scambio fra la fertilità della donna e le risorse dell’uomo. Prima della Grande Rottura, in tutte le società occidentali esistevano complesse serie di leggi, regole, norme e obblighi, formali e non, che proteggevano le madri e i figli e precludevano ai padri la possibilità di abbandonare una famiglia e iniziarne un’altra. Oggi per molti il matrimonio è una specie di celebrazione pubblica di un’unione sessuale ed emotiva fra due adulti, ed è per questo che è possibile che negli Stati Uniti e in altri paesi sviluppati si istituiscano i matrimoni omosessuali. Ma storicamente il matrimonio esisteva per dare protezione legale all’unità madre-figlio e per garantire che il padre fornisse risorse economiche che permettessero ai figli di diventare adulti autosufficienti.

Cosa ha prodotto la rottura delle regole che vincolavano il comportamento maschile e dello scambio che si basava su di esse? Nel primo dopoguerra si sono verificati due cambiamenti molto importanti. Il primo riguardava i progressi della medicina - vale a dire la contraccezione e l’aborto - che hanno consentito alle donne di controllare meglio la loro riproduzione. Il secondo è stato l’ingresso delle donne nel lavoro pagato in quasi tutti i paesi industrializzati e il costante aumento dei loro redditi in relazione a quelli degli uomini negli ultimi trent’anni. Il controllo delle nascite non ha soltanto diminuito la fertilità. In realtà, se la contraccezione serve a ridurre il numero delle gravidanze indesiderate, è difficile spiegare perché esso sia stato accompagnato da un’esplosione di figli illegittimi e un aumento degli aborti, o perché l’uso del controllo delle nascite è decisamente correlato all’illegittimità per l’Ocse. Poiché la contraccezione e l’aborto permettevano per la prima volta alle donne di avere rapporti sessuali senza doversi preoccupare delle conseguenze, gli uomini si sono sentiti liberi dal dovere di occuparsi delle donne che mettevano in cinta. Il secondo fattore che ha mutato il comportamento maschile è stato l’ingresso delle donne nel lavoro retribuito. La regola della responsabilità maschile ne è stata ulteriormente indebolita. Divorziando da una moglie senza mezzi di sostentamento, l’uomo doveva affrontare la prospettiva di pagare gli alimenti o di vedere i suoi figli cadere in povertà. Con molte donne che guadagnano quanto i mariti, questo non è più un problema. Il venire meno della regola della responsabilità maschile, a sua volta, ha reso necessario che le donne si armassero di abilità lavorative in modo da non dipendere da mariti sempre più inaffidabili. Date le alte probabilità che un primo matrimonio finisca in divorzio, le donne di oggi sarebbero stupide a non prepararsi al lavoro.

Il declino della famiglia nucleare in Occidente ha avuto degli effetti molto negativi sul capitale sociale ed è stato accompagnato da un aumento di povertà per chi si trovava ai piedi della gerarchia sociale, da un aumento della criminalità e infine da una perdita di fiducia. Ma indicare le ripercussioni negative sul capitale sociale dei cambiamenti nella famiglia non è assolutamente un modo per imputare alle donne la responsabilità di questi problemi. L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, il costante rimpicciolirsi del divario con i guadagni degli uomini, e la maggiore possibilità di controllare la fertilità sono delle cose ottime. Il cambiamento più importante si è verificato nelle regole che imponevano agli uomini la responsabilità delle mogli e dei figli. Anche se esso è stato innescato dalla contraccezione e dalla crescita dei guadagni delle donne, gli uomini sono responsabili delle conseguenze. E non è che prima gli uomini si fossero sempre comportati bene: la stabilità delle famiglie tradizionali aveva spesso un caro prezzo in termini di dolore fisico ed emotivo e di perdita di opportunità, costi che ricadevano sproporzionatamente sulle spalle delle donne. D’altro canto questi grandi cambiamenti nel ruolo dei sessi non sono stati una cosa del tutto positiva, come sostengono alcune femministe. I guadagni sono stati accompagnati da perdite, che sono ricadute sproporzionatamente sulle spalle dei figli. Nessuno dovrebbe esserne sorpreso: visto che i ruoli femminili erano tradizionalmente concentrati sulla riproduzione e sui figli, non ci si poteva aspettare che il fatto che le donne lasciassero il focolare ed entrassero nel mondo del lavoro non avesse delle conseguenze per le famiglie. 

Come si può ricostruire il capitale sociale in futuro? Il fatto che la cultura e la politica pubblica riescano a fornire alla società un certo controllo sul ritmo e sul grado di disgregazione, a lungo termine non aiuta a stabilire come istituire l’ordine sociale all’inizio del ventunesimo secolo. Il Giappone e alcuni paesi cattolici sono riusciti a mantenere saldi i valori familiari più tradizionali più a lungo della Scandinavia e del mondo anglofono, cosa che li ha risparmiati da alcuni costi sociali pagati da quest’ultimi. Ma è difficile immaginare che riusciranno a mantenerli per le prossime generazioni ed è ancora più difficile che riescano a ri-istituire qualcosa che si avvicini alla famiglia nucleare dell’era industriale, con il padre che lavorava e la madre che restava a casa ad allevare i bambini. Se anche fosse possibile, non sarebbe desiderabile.

Sembra di essere rimasti in trappola: andare avanti sembra promettere livelli in continua crescita di disordine e di atomizzazione sociale, mentre la ritirata è sbarrata. Questo significa forse che le società liberali sono destinate a discendere in un declino morale e un’anarchia sociale sempre maggiori, fino ad implodere? Avevano ragione Edmund Burke e gli altri critici dell’Illuminismo, quando sostenevano che l’anarchia era l’inevitabile prodotto degli sforzi per sostituire la tradizione e la religione con la ragione? La risposta, secondo me, è no per la semplicissima ragione che noi esseri umani siamo destinati per natura a creare per noi stessi regole morali e ordine sociale. La mancanza di regole - quello che il sociologo Emile Durkheim definì “anomìa” - ci mette molto a disagio e cercheremo di creare nuove regole per sostituire quelle che sono state eliminate. Se la tecnologia rende insostenibili alcune vecchie forme di comunità, allora ne troveremo di nuove e useremo la ragione per negoziare disposizioni adatte ai nostri interessi, alle nostre necessità e alle nostre passioni. Per capire perché la situazione attuale non è senza speranze, è necessario considerare le origini dell’ordine sociale, ad un livello più astratto. Spesso nelle discussioni culturali si tratta l’ordine sociale come una serie statica di regole tramandateci dalle generazioni precedenti. Se ci si trova in un paese a basso capitale sociale e con un basso livello di fiducia, non ci si può fare niente. Ovviamente è vero che la politica pubblica ha una capacità relativamente limitata di manipolare la cultura e che le migliori politiche pubbliche sono quelle modellate dalla consapevolezza dei limiti culturali. Ma la cultura è una forza dinamica che viene costantemente ricostruita, se non dai governi, dall’interazione delle migliaia di individui decentralizzati che costituiscono una società. 

Sebbene la cultura tenda ad evolvere più lentamente delle istituzioni politiche e sociali formali, essa si adatta ai mutamenti delle circostanze. L’ordine e il capitale sociale hanno due ampie basi a loro sostegno. La prima è biologica ed ha origine nella natura umana stessa. Vi sono prove sempre maggiori, provenienti dalle scienze naturali, dell’ineguatezza del modello standard delle scienze sociali e del fatto che gli esseri umani nascono con strutture cognitive pre-esistenti e capacità di apprendimento specifiche dell’età che li portano naturalmente nella società. In altre parole, esiste la natura umana. Per i sociologi e gli antropologi questo significa che è necessario ripensare il relativismo culturale e che è possibile discernere universali culturali e morali che, se utilizzati con giudizio, possono aiutare a valutare particolari pratiche culturali. Il comportamento umano, inoltre, non è plastico e quindi manipolabile come le loro discipline hanno presunto per gran parte di questo secolo. Per gli economisti, l’esistenza della natura umana significa che la concezione sociologica dell’uomo come essere innatamente sociale è più accurata del loro modello individualistico. E per chi non è né sociologo né economista, un’umanità essenziale conferma una serie di opinioni comuni su come la gente pensa e agisce, risolutamente ricusate dalla precedente generazione di sociologi; per esempio che gli uomini e le donne sono diversi per natura, che siamo creature politiche e sociali con istinti morali e così. Questo è estremamente importante, perché vuol dire che il capitale sociale tende ad essere prodotto dagli esseri umani per istinto.

L’altra base su cui poggia l’ordine sociale è la ragione umana e la capacità della ragione di trovare spontaneamente soluzioni ai problemi della cooperazione sociale. La naturale facoltà degli uomini di creare capitale sociale non spiega, però, come questo nasca in circostanze specifiche. La creazione di particolari norme comportamentali è un prodotto della cultura piuttosto che della natura e nel regno della prima troviamo che l’ordine spesso è il risultato di un processo di trattative orizzontali, di discussioni e di dialogo fra gli individui. L’ordine non deve necessariamente partire dall’alto - da un legislatore (o, in termini contemporanei, uno stato) che emette le leggi o da un prete che promulga la parola di Dio. Né l’ordine naturale né quello spontaneo sono di per sé sufficienti a produrre la totalità di regole che costituisce l’ordine sociale. Entrambe hanno bisogno di essere completate dall’autorità gerarchica in momenti cruciali. Ma se guardiamo indietro nella storia, vediamo che gli individui che si organizzano da soli hanno sempre creato materiale sociale per se stessi e sono riusciti ad adattarsi a cambiamenti tecnologici ed economici maggiori di quelli affrontati dalle società occidentali nelle ultime due generazioni. Il periodo vittoriano in Gran Bretagna e in America potrebbe apparire come l’incarnazione dei valori tradizionali, ma era in realtà un movimento radicale nato in reazione ai diffusi disordini sociali dell’inizio del diciannovesimo secolo; un movimento che cercava deliberatamente di creare nuove regole sociali e di istillare la virtù in popolazioni che sembravano sguazzare nella degenerazione. Sarebbe sbagliato affermare che il maggiore ordine sociale che si instaurò in Gran Bretagna e in America durante il periodo vittoriano fu semplicemente il risultato di regole morali mutate. In questo periodo entrambe le società istituirono moderne forze dell’ordine, che sostituirono il guazzabuglio di organismi locali e di incaricati scarsamente addestrati che esisteva all’inizio del diciannovesimo secolo. Verso la fine del secolo molti stati iniziarono a istituire un sistema d’istruzione universale, che cercava di mettere tutti i bambini americani in scuole pubbliche e gratuite; un processo che in Gran Bretagna iniziò un po’ più tardi. Ma il cambiamento essenziale riguardò i valori piuttosto che le istituzioni.

Nelle due prossime generazioni potrebbe ripetersi quello che è accaduto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti nella seconda metà del diciannovesimo secolo? Vi sono molti fattori che indicano che la Grande Rottura ha fatto il suo corso e che il processo di ri-regolamentazione è già iniziato. La crescita dei tassi di criminalità, di divorzi, di illegittimità e di sfiducia è notevolmente rallentata e negli anni Novanta si è addirittura capovolta in molti dei paesi che avevano visto esplodere il disordine nelle ultime due generazioni. Questo è vero soprattutto per gli Stati Uniti, dove la criminalità è scesa di un buon 15 per cento dal punto massimo toccato all’inizio degli anni Novanta. I divorzi hanno raggiunto il massimo all’inizio degli anni Ottanta, e le nascite fuori dal matrimonio sembrano aver smesso di aumentare. I sussidi previdenziali sono diminuiti quasi drasticamente come la criminalità in seguito alle misure della riforma del 1996 e dalle opportunità fornite da un’economia di quasi piena occupazione negli anni Novanta. Anche la fiducia nelle istituzioni e negli individui è aumentata significativamente dall’inizio degli anni Novanta. 

Fin dove arriverà questa ri-regolamentazione della società? E’ molto più probabile che vedremo dei drastici cambiamenti nel livello della criminalità e della fiducia, piuttosto che nelle norme sul sesso, la riproduzione e le famiglie. In realtà, questo processo è già in corso nei primi due campi. Per quanto riguarda il sesso e la riproduzione, però, le condizioni economiche e tecnologiche del nostro tempo rendono estremamente improbabile che accada qualcosa come un ritorno ai valori vittoriani. Severe norme sessuali hanno senso in una società nella quale il sesso senza regole ha un’alta probabilità di portare a una gravidanza ed avere un figlio fuori dal matrimonio porta all’indigenza, se non alla morte prematura, per la madre e per il bambino. La prima di queste condizioni è scomparsa con la contraccezione; la seconda è stata molto mitigata, anche se non eliminata, dalla combinazione del reddito delle donne e dei sussidi previdenziali. Alcuni conservatori religiosi sperano, e i liberali temono, che il problema del declino morale sarà risolto da un massiccio ritorno all’ortodossia religiosa; una versione occidentale dell’Ayatollah Khomeini che torna in Iran in aereo. Questo sembra molto improbabile per svariate ragioni. Le società moderne sono così culturalmente variegate che non si sa bene quale ortodossia prevarrebbe. Qualsiasi ortodossia vera verrebbe vista come una minaccia per gruppi folti e importanti della società e quindi non farebbe molta strada, né servirebbe da base per allungare il raggio della fiducia. Invece di integrare la società, una restaurazione religiosa conservatrice potrebbe in realtà accelerarne la frammentazione e la miniaturizzazione morale: le diverse varietà di fondamentalisti protestanti discuterebbero fra loro sulla dottrina; gli ebrei ortodossi diventerebbero più ortodossi; i musulmani e gli induisti potrebbero iniziare ad organizzarsi in comunità politico-religiose e simili. 

E’ molto più probabile che un ritorno alla religiosità prenda una forma più benevola, come per alcuni aspetti sta già accadendo in molte parti degli Stati Uniti. Invece di avere una comunità frutto di una fede rigida, la gente cercherà la religione spinta dal desiderio di comunità. In altre parole, le persone riscopriranno la religione non necessariamente perché accettano la verità della rivelazione, ma proprio perché l’assenza di comunità e la transitorietà dei legami sociali nel mondo secolare fa sentire loro il bisogno di tradizioni rituali e culturali. Aiuteranno il povero e il prossimo non necessariamente perché la dottrina dice loro di farlo, ma perché vogliono servire la loro comunità e pensano che le organizzazioni basate sulla fede siano il modo più efficace per farlo. Ripeteranno vecchie preghiere e vecchi rituali non perché credono che siano stati tramandati da Dio, ma perché vogliono che i figli abbiano i valori giusti e perché vogliono godere della serenità e del senso di condivisione del rituale. In questi termini la religione perde il suo carattere gerarchico e diventa una manifestazione di ordine spontaneo. 

La religione è una delle due cose che contribuiscono ad allargare il raggio della fiducia. L’altra è la politica. In Occidente il cristianesimo ha introdotto per primo il principio dell’universalità della dignità umana, un principio proveniente dai cieli e trasformato dall’Illuminismo nella dottrina secolare dell’eguaglianza universale fra gli uomini. Oggi chiediamo che sia la politica a sostenere quasi interamente il peso di quest’impresa e ci sta riuscendo davvero bene. Le nazioni costruite su princìpi liberali universali sono state sorprendentemente elastiche negli ultimi duecento anni, malgrado frequenti ricadute e limiti. Un ordine politico basato sull’identità etnica serba non andrà mai oltre i confini di qualche angolo dei Balcani e sicuramente non diventerà mai il principio guida di società moderne grandi, variegate, dinamiche e complesse come, per esempio, quelle che costituiscono il G7. Sembra che siano in corso due processi paralleli. Nella sfera politica ed economica la storia sembra essere progressiva e andare avanti e, alla fine del ventesimo secolo, ha condotto alla democrazia liberale come unica alternativa praticabile per le società tecnologicamente avanzate. Nella sfera sociale e morale, invece, la storia sembra essere ciclica, con l’ordine sociale che cresce e decresce nel corso delle generazioni. Niente garantisce che il ciclo svolti verso l’alto; l’unica ragione per sperare è l’innata, fortissima capacità degli uomini di ricostituire l’ordine sociale. La risalita della freccia della storia dipende dal successo di questo processo di ricostruzione. 

20 luglio 2001

(da Ideazione 1-2000, gennaio-febbraio)



stampa l'articolo