Tobin tax, un residuo degli anni Settanta
di Luciano Priori Friggi


In una celebre sequenza di un film con Benigni e Troisi si viene a creare una situazione per certi versi utile a descrivere alcune posizioni degli attuali antiglobalizzatori, dichiarati e non. I due, tornati indietro nel tempo, ne approfittano per cercare di rendere impossibile che un evento odierno si avveri (una relazione tra la sorella di Benigni e un soldato americano di stanza in Italia). La soluzione stava nell'impedire la partenza di Colombo. Dunque, approdati al fatidico 1492, si mettono in cammino per raggiungere la Spagna. Ad un certo punto incontrano una postazione con una guardia che gli chiede "quanti siete, dove andate?" e prima che i due possano rispondere aggiunge perentorio "un fiorino!". Pagano di controvoglia e si incamminano. Gli cade qualcosa e la guardia, lo sguardo diritto, perso nel vuoto, automaticamente ripete "quanti siete, dove andate?" e subito dopo chiede di nuovo "un fiorino!".

La Tobin Tax (TT da qui in avanti) non riflette, nella sostanza, una situazione molto diversa da quella appena descritta. Anche se si ammanta di fini più nobili che possono essere condensati nell'obiettivo di lotta alla speculazione, in particolare quella frutto delle transazioni valutarie, causa, si sostiene, dell'incertezza economica e dell'instabilità sui mercati finanziari. La discriminante per giudicare la pericolosità di tali operazioni dovrebbe essere il fattore "tempo". Secondo tale impostazione solo gli investimenti a lungo termine dovrebbero rimanere fuori dalla tassazione, perché indirizzati a impieghi non speculativi, mentre a quelli a breve si dovrebbe applicare un'aliquota compresa tra 0,1 e 0,5 per cento. Alla riscossione della tassa dovrebbero provvedere le Banche Centrali e il ricavato dovrebbe andare per l'80 per cento allo stato (servizi sociali, occupazione, ecc.) e per il 20 per cento ad attività internazionali (cooperazione, aiuti a paesi poveri, ecc.).

La TT è diventata prima il cavallo di battaglia della variegata frangia dei gruppi antiglobalizzazione e dei partiti comunisti e ora anche del sindacato e della sinistra non comunista, come l'Ulivo in Italia. Proprio quest'ultimo evento merita una maggiore attenzione verso questa proposta. Partiamo da Tobin, uno dei più eminenti economisti di scuola keynesiana. L'economista americano, professore a Yale, premio Nobel nel 1981, elabora l'idea di una tassa sulle transazioni a breve a carattere valutario negli anni Settanta, anni di crisi petrolifere, di grande inflazione e di stagnazione economica. Durante quel decennio si consumò anche le definitiva crisi dei modelli macroeconomici keynesiani. La tassa proposta rientrava nei tentativi di mitigare la crisi economica, attribuita in una certa misura anche a manovre di carattere speculativo, in particolare sui cambi.

La reazione thatcheriana e reaganiana - controrivoluzione "politica ed ideologica" la chiamò Tobin (1981) - spazzò in particolare le vecchie politiche economiche ultrastataliste, di moda fino a quel momento, e pose le basi per la fantastica ripresa economica degli ultimi venti anni. Samuelson dovette aggiornare il suo celeberrimo manuale e lo stesso Tobin dovette riconoscere che "nel 1979-1980 ben pochi economisti avrebbero detto che nel 1988 sarebbe stato possibile ridurre la disoccupazione fin quasi al 5 per cento, senza avere praticamente alcuna conseguenza inflazionistica. Anche a me ciò sarebbe parso impossibile dieci anni prima, eppure è accaduto". Quanto alla tassa che va sotto il suo nome l'ha praticamente sconfessata. Nata "per mettere qualche granello di sabbia nei meccanismi troppo oliati dei mercati valutari" ci si è resi conto, a partire dal suo autore, che è "inapplicabile". Prima di tutto perché per poter funzionare la dovrebbero applicare tutti i paesi e ciò è impossibile da ottenere.

Ma c'è anche un altro aspetto da considerare. Diamo per un momento per valida l'efficacia pratica della proposta di Tobin. Il presupposto teorico che si potrebbe ricavare da un'attenta lettura della formulazione della TT è un'adesione alla teoria della concorrenza perfetta, teoria di derivazione marginalistica, certamente non cara ai keynesiani. Se infatti l'unico ostacolo al funzionamento ottimale dei mercati è la movimentazione di breve dei capitali, il solo fatto di eliminarla o limitarla notevolmente comporta la condivisione di una modello di sviluppo in cui si accetta che "l'economia si stabilizzi da sola" (che è esattamente ciò che Tobin rimproverava a Reagan e alla Thatcher). Ma, dati questi presupposti, da un punto di vista teorico l'unico problema da approfondire è l'analisi del "breve", oggetto della controversia. Ebbene se si riesce a dimostrare - in maniera discorsiva - che anche gli interventi di breve, in genere, non sono speculativi (applichiamo qui al termine una valenza negativa che in sede analitica non ha ma che gli viene attribuita dagli antiglobalizzatori) della validità della Tax di Tobin non rimane nulla. 

Consideriamo il caso dell'Italia al momento della crisi valutaria del 1992. C'erano due partiti che si confrontavano: quello della svalutazione (guidato dagli industriali) e quello stabilità (guidato, ci dispiace dirlo, dalla Banca d'Italia). In quel momento la situazione per l'Italia era drammatica: c'era una progressiva perdita di quote di mercato all'estero per colpa di una lira evidentemente sopravvalutata. Ma nessuno tra le autorità italiane aveva il coraggio di porre la questione a livello europeo. Ci pensarono i mercati. Quando fu chiaro che non si sarebbe fatto nulla di concreto per riequilibrare la situazione una corrente di vendite, certamente di carattere speculativo, travolse la nostra moneta. E fu la nostra fortuna e la nostra salvezza. La ripresa degli anni successivi fu dovuta proprio alla svalutazione della lira, ottenuta esclusivamente grazie ai mercati (ricorderete le minacce della Francia) che la riportarono a livelli di cambio più realistici.

Prendiamo ora il caso di un'azienda che lavora con l'estero. Potrebbe volere immunizzare le sue attività dal rischio di cambio. Come? Comprando e rivendendo, anche a breve, sul mercato dei cambi. Se applichiamo il criterio del "breve", come spartiacque per definire un impiego speculativo, saremmo in piena applicazione della TT. Il che francamente ci sembra un assurdo. Come si vede la faccenda è complicata. Tobin vent'anni fa sottolineava scandalizzato che "la nuova dottrina (Thatcher + Reagan, ndr) afferma che interventi attivi di natura fiscale o monetaria, caratterizzati o caricaturizzati come 'armonici' (fine tuning), sono il problema e non la soluzione". Ebbene in genere è proprio così, anche nel breve. E anche per la TT che finisce per essere pertanto quello che realmente è, semplicemente una nuova tassa.

Una notazione infine circa la destinazione del ricavato dalla TT che per l'Italia ammonterebbe a non meno di dieci-tredicimila miliardi. Ricordiamo che i sostenitori vorrebbero devolvere solo il 20 per cento alle vittime della globalizzazione, cioè i paesi poveri. Non possiamo non ricordare che certa propaganda antiglobalizzatrice attribuisce tra i delitti più gravi delle società industrializzate proprio la sproporzione nella distribuzione della ricchezza, conosciuta con la coppia di valori 20/80, cioè il 20 per cento della popolazione mondiale consuma l'80 per cento della ricchezza totale prodotta. Proporzione perfettamente mantenuta, come si può constatare, nella proposta umanitaria dei sostenitori della TT. Come mai? Come si suole dire "qualche volta a pensar male...". Vi ricordate come finisce la scenetta del film di Benigni e Troisi? Con l'ottuso doganiere che continuava a chiedere "un fiorino" e i due attori che si allontanano verso la libertà sghignazzando e sibilando un "ma va...".

20 luglio 2001

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