Libertà e mercati finanziari
di Stefano da Empoli


In “Alba bugiarda” (1998), lo storico inglese John Gray paragona il capitalismo globale all’utopia comunista che l’ha preceduto. Entrambi sarebbero l’espressione di un progetto illuminista, teso a trasformare le istituzioni mediante operazioni di ingegneria sociale. Mentre l’utopia comunista si esprimeva attraverso le pallottole dei rivoluzionari, quella della globalizzazione verrebbe diffusa dalle ventiquattrore di burocrati in doppiopetto. Gray non distingue, però, tra il processo di globalizzazione e la sua gestione da parte delle istituzioni sovranazionali e dei governi mondiali, tra un processo di libertà e un meccanismo di controllo di questa stessa libertà. Tra globalizzazione e teorie e prassi del governo mondiale. Distinzione che è però cruciale. La globalizzazione, in particolare quella finanziaria, è infatti un processo largamente indipendente dalle decisioni di singoli politici o burocrati. Nel passato, i flussi di capitale verso l’estero non erano di molto inferiori rispetto alle grandezze attuali. Nei decenni che hanno preceduto lo scoppio della prima guerra mondiale, i capitali impiegati all’estero rappresentavano il 9 per cento del Pil in Gran Bretagna, e punte simili si sono registrate, sia pure per periodi più brevi, in Francia, Germania e Olanda. Quella che è cambiata rispetto al passato è la destinazione dei flussi finanziari. Se un tempo gli investimenti erano prevalentemente di portafoglio, nella forma di prestiti a lungo termine a governi e società ferroviarie, oggi è molto aumentata la quota degli investimenti diretti e a breve termine. Non perché qualcuno lo abbia deciso a tavolino ma in larga parte grazie all’innovazione tecnologica, cioè ad un fenomeno sostanzialmente libero e spontaneo. 

Prima dell’invenzione del telegrafo, una informazione proveniente da Londra poteva impiegare tre settimane per raggiungere New York. E anche quando venne risolto il problema della velocità di comunicazione, le informazioni veicolate erano difficili da mettere assieme e valutare. Il computer, in questo senso, ha rappresentato il primo decisivo salto in avanti, consentendo di elaborare in fretta flussi di informazione complessa, Internet è stato il passo successivo. A questo si aggiunga la facilità di trasporto fisico, raggiunta solo negli ultimi decenni, che ha permesso un coinvolgimento diretto nella gestione di capitali investiti a migliaia di chilometri di distanza. Molti critici dell’integrazione dei mercati finanziari ritengono comunque che ci siano delle buone ragioni per limitare la libertà di transazione finanziaria tra diversi paesi. Gli investimenti a breve, indotti secondo costoro da una logica prevalentemente speculativa, sarebbero alla base della volatilità di titoli azionari e valute e delle recenti crisi, in particolare quella asiatica. Disincentivarli o in talune situazioni renderli impossibili porterebbe ad una maggiore stabilità del quadro finanziario internazionale. Facile a dirsi, molto difficile a farsi. La Tobin tax, che tasserebbe tutte le transazioni internazionali di capitale, ha fatto guadagnare al suo proponente, James Tobin, premio Nobel per l’economia, una notorietà mondiale istantanea. Da condividere però con una pioggia di critiche quasi unanimi tra gli economisti. Infatti, al fine di renderla una soluzione praticabile ed evitare espatri di capitale verso le banche dei paesi che non la recepissero, tutti gli stati dovrebbero adottarla, con un’unanimità di consensi che sfida le leggi di gravità della politica internazionale. L’aliquota poi non potrebbe essere né troppo alta - in quanto si rischierebbe di scoraggiare anche gli investimenti finanziari di lungo termine - né troppo bassa - perché altrimenti, in situazioni di crisi, rappresenterebbe uno scoglio troppo basso per ostacolare la fuoriuscita di capitali. 

Penalizzare o addirittura impedire l’afflusso o il deflusso di capitali non sembra una soluzione praticabile. Anche in questo caso, si dovrebbe agire in maniera concertata e i risultati non sarebbero garantiti. Il ricordo dei controlli di capitale made in Italy dovrebbe convincerci che la cura è altamente dispendiosa in termini sia di libertà che di efficienza economica e non assicura una pronta guarigione perché è sempre possibile, soprattutto per le grandi società e le classi più abbienti, sottrarvisi di nascosto. Quanto agli esempi del recente passato, come la crisi asiatica del 1997, le economie dei paesi sui quali più si è abbattuta la tempesta valutaria, cioè Malesia, Indonesia, Thailandia e Corea del Sud, avevano tutte gravi problemi strutturali, come hanno dimostrato molti studi autorevoli. Gli unici ad uscirne quasi indenni sono stati Singapore, Hong Kong e Taiwan, che avevano non a caso i migliori fondamentali economici. Ci sono poi, sempre secondo i globalscettici, altri due peccati capitali della libera circolazione dei flussi finanziari. La maggiore mobilità del capitale rispetto al fattore lavoro, rafforzata da una sua quasi assoluta libertà di movimento, rischierebbe di spostare gran parte del peso fiscale dalle imprese e dalle attività finanziarie ai lavoratori e, dal momento che questi ultimi prima o poi si ribellerebbero, potrebbe portare alla chiusura dello stato per mancanza di fondi. In una famosa copertina di qualche anno fa, il solitamente equilibrato Economist si chiedeva preoccupato se la figura del contribuente stesse scomparendo. Ahimè il destino di chi paga le tasse, almeno in Europa, raramente è stato più nero. In paesi come Francia, Danimarca e Norvegia la pressione fiscale è superiore al 50 per cento del prodotto interno lordo con Germania, Italia e altre nazioni a breve distanza. Tra l’altro, in Italia l’eccezionale boom delle entrate fiscali dell’ultimo periodo è in buona parte da ascrivere all’imposizione fiscale sui capital gain. Quindi, con il rilascio del bonus fiscale, che avverrà in larga parte tramite una diminuzione dell’Irpef sui ceti medio-bassi, nel nostro paese si è verificata una redistribuzione dai redditi da capitale ai redditi da lavoro, in direzione esattamente contraria alla diagnosi dei globalscettici. Peraltro non sarebbe poi tanto ardito augurarsi che l’aumentata mobilità dei capitali metta un paletto alla dinamica della spesa pubblica, alla luce della sua costante crescita in questo secolo. Solo il Belgio e l’Olanda, tra i quattordici paesi più industrializzati, ne hanno visto diminuire il rapporto con il prodotto interno lordo nel periodo compreso tra il 1980 e il 1994. La signora Thatcher si dovette accontentare di stabilizzarla in termini percentuali sul Pil. Se nella seconda metà degli anni Novanta, per la prima volta in ottanta anni, il rapporto è rimasto stabile a livello internazionale, forse è proprio merito della globalizzazione. 

L’altra colpa imputata alla libertà di trasferimento dei capitali è la progressiva sostituzione del popolo con il mercato quale fonte primaria delle decisioni politiche. In altre parole saremmo sempre meno padroni del destino delle nostre istituzioni. Si potrebbe facilmente rigirare la questione e chiederci quanto siamo padroni del nostro destino date le istituzioni economiche attuali. La politica monetaria è decisa da eccellenti burocrati non eletti da nessuno e non soggetti ad alcun consiglio se non quello della propria coscienza mentre gli spazi di manovra della politica fiscale sono ampiamente ristretti dal patto di stabilità europeo, in versione rivista e aggiornata dalla Commissione, organo notoriamente di profilo democratico non altissimo. A questo si aggiungano la fitta regolamentazione Ue, le raccomandazioni del Fondo monetario, i rapporti Ocse, la schiera di autorità indipendenti, eccetera, e abbiamo un quadro dove c’è ben poco in termini di decisioni prese in autonomia democratica (e questo vale naturalmente ancor di più per stati più piccoli e poveri del nostro). Peraltro, occorre anche aggiungere che dietro al “mostro” mercato non c’è l’orco cattivo ma centinaia di milioni di persone come noi che non avranno tutte lo stesso voto ma, in un sistema di corporate governance, hanno in media più capacità di intervento di quanto il comune cittadino ne abbia nella vita politica. Infine - ed è quello che più importa - una limitazione del ruolo del mercato non passerebbe attraverso un’espansione dei diritti democratici dei cittadini ma semmai attraverso un ulteriore rafforzamento di burocrazie che non rispondono a nessuno se non a se stesse. Infatti, le elucubrazioni dei globalscettici vanno in generale a perorare la causa di nuove autorità, come la World Financial Authority proposta da Lord Eatwell e Lance Taylor, o del rafforzamento delle istituzioni di Bretton Woods, cioè Fondo monetario e Banca mondiale. Oppure, in alternativa, si ricade nei controlli di capitale, il che significa dare più poteri alle burocrazie nazionali. 

E qui si ritorna al punto di partenza, cioè alle critiche di Gray al capitalismo globale. Quel che dice lo studioso inglese è allora forse sbagliato, come abbiamo cercato di dimostrare, se intende colpire l’integrazione finanziaria internazionale, che è in realtà il risultato dell’azione non coordinata di centinaia di milioni di individui. E’ invece sensato se si riferisce all’azione delle istituzioni internazionali e dei governi che spesso e volentieri pretendono di pigiare contemporaneamente i pedali del freno e dell’acceleratore della vettura globale, con effetti imprevedibili sulla sua tenuta. Da una parte, i paesi più industrializzati, specie in Europa, mantengono ampie fasce di dirigismo economico, frenando l’impatto del mercato sulle loro economie al di là di ogni logica giustificazione se non quella della conservazione di rendite per pochi. Dall’altra, per bocca del Fondo monetario e della Banca mondiale, talvolta pretendono che in pochi anni paesi che non hanno mai conosciuto il mercato percorrano la strada delle liberalizzazioni più in fondo di quanto non abbiano fatto loro stessi. Il burocrate che a Washington, negli uffici del Fondo monetario e della Banca mondiale, decide quali leggi dovrà avere un paese all’altro capo del mondo non fa un lavoro molto diverso da quello del pianificatore che a Mosca decideva del destino di un villaggio dei Urali. La differenza, si dirà, è che il primo persegue un sistema democratico e liberale, a differenza del secondo e questo non è poco. 

Rimane però immutata la questione, di metodo ma anche di merito, di come debbano nascere ed evolvere le istituzioni politiche, giuridiche ed economiche dei singoli paesi. Lo stesso sistema di regole ha un impatto diverso se calato nella realtà di due paesi differenti. Le conseguenze di queste differenze sono solo parzialmente note al pur bravo macroeconomista del Fondo monetario o della Banca mondiale, al quale per ragioni di curriculum accademico sfugge il retroterra culturale e storico del paese sul quale lavora. Con questo non si vuol affatto sostenere che la comunità internazionale debba abbandonare al proprio destino il Terzo Mondo e, più in generale, che il mercato vada lasciato operare senza alcun correttivo. Così come avere larghe fasce di povertà all’interno di un paese, lascia ampi margini ai malumori sociali, a livello internazionale il permanere senza risposte di uno squilibrio economico rischia di farci scivolare forse non verso uno scontro tra civiltà, come paventa Huntington, ma certamente verso uno stato di continua frizione tra paesi ricchi e poveri. Occorre essere meno presuntuosi e accontentarsi di interventi graduali, che siano autonomamente recepiti e quindi in grado di autosorreggersi all’interno delle società nei quali vengono apportati. C’è più bisogno di geometri che di architetti del sistema finanziario internazionale. 

Il Fondo monetario e la Banca mondiale debbono continuare a svolgere parte delle loro funzioni attuali ma soprattutto assumere il ruolo di una McKinsey del Terzo Mondo, che svolga attività di consulenza laddove i privati non abbiano le risorse o l’interesse a farlo. Nelle loro unità di consulenza, dove il reclutamento dovrà comprendere una pluralità di competenze più vasta dell’attuale, sarà necessario adottare metodi simili a quelli seguiti dalle società private. Poche persone dovranno rimanere negli uffici di Washington mentre la maggior parte dovrà soggiornare temporaneamente nei paesi dal quale proviene la richiesta di assistenza tecnica, per la durata sufficiente a conoscere la situazione ed offrire consigli che facciano al caso della realtà locale. Oggi le missioni durano pochi giorni, non consentendo di giungere ad un contatto profondo con la realtà del paese sotto esame. Come succede per McKinsey e tutte le altre società private di consulenza con i loro clienti, le istituzioni dei singoli paesi saranno libere di seguire i suggerimenti oppure di respingerli, senza essere soggette all’attuale ricatto finanziario. I prestiti che Fondo monetario e Banca mondiale continueranno a concedere dovranno essere basati infatti sul minor numero possibile di condizioni politico-istituzionali ma, allo stesso tempo, essere offerti a condizioni finanziarie il più vicino possibile a quelle di mercato (compatibilmente con la capacità del prestatore di ripagarli). Allo stesso tempo, a livello globale, l’obiettivo da porsi non dovrà essere quello di una armonizzazione delle regole bensì di alcuni standard minimi. Non si dovrà puntare ad avere le stesse imposte con le stesse aliquote bensì, per esempio, regole contabili e statistiche il più possibile uniformi che permettano agli investitori di effettuare le loro scelte avendo a disposizione quanta più informazione attendibile. Insomma, una struttura libera, di governo minimo del capitalismo globale, la quale operi più attraverso incentivi dal basso che imposizioni dall’alto. 

20 luglio 2001

stefanodaempoli@yahoo.com

(da Ideazione 6-2000. novembre-dicembre)




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