La contestazione e la violenza
di Alessandro Bezzi


La guerra in Vietnam ci regalò uno degli scatti fotografici di maggiore effetto per le battaglie pacifiste. Il titolo, Why?, diceva tutto. Quella foto raccontava nel modo più efficace possibile l’orrore della violenza, al di là di tutte le ragioni plausibili della realpolitik. Era giusto combattere il comunismo ma l’atrocità di quella violenza non poteva lasciare indifferenti. Quella stessa domanda ci sentiamo di rivolgerla oggi ai contestatori della globalizzazione che da qualche tempo a questa parte usano assediare i vertici internazionali mettendo a ferro e fuoco le città che li ospitano. Perché? Perché la protesta deve degenerare in violenza? Perché per contestare qualcuno bisogna spaccare vetrine, danneggiare automobili, terrorizzare intere città? Perché le frange dei centri sociali si possono arrogare il diritto di aggredire le forze dell’ordine?

Sul piano dell’ordine pubblico la situazione italiana presenta qualche allarme in più rispetto ad altri paesi. Pur non sottovalutando le piste degli anarchici che disseminano di bombe carta gli obiettivi più diversi, quello che preoccupa è il ritorno delle Brigate Rosse (o chi per loro). Esse hanno da tempo avviato una campagna offensiva che, al momento, appare ancora incerta e sgangherata. Ma per chi abbia avuto la pazienza di leggersi i documenti che i terroristi hanno rilasciato negli ultimi mesi è chiaro che le nuove Br individuano nel cosiddetto popolo di Seattle un terreno fertile di proselitismo e di reclutamento. Non sappiamo se questo movimento, del quale non riusciamo proprio a condividere nulla sul piano teorico ma che potrebbe rimanere ben distante dal cono d’ombra del terrorismo, riuscirà a restare lontano dalle tentazioni dell’estremismo. Per il momento tutto questo variegato (ma minoritario) popolo di Seattle resta placidamente immerso nel bagnomaria dell’ambiguità. Un’ambiguità che non potrà durare a lungo.

Sempre per rimanere a casa nostra, le manifestazioni di Genova sono almeno servite a sanzionare il cambio della guardia al vertice del centrosinistra. Dopo il suicidio di D’Alema, che ha deciso di appoggiare i contestatori e poi s’è rimangiato la sfilata, le speranze di ripresa della coalizione sono ormai affidate a Francesco Rutelli. Che si è distinto per una dichiarazione assai responsabile: “Se avessi vinto le elezioni, adesso sarei a Genova assieme agli altri sette grandi”. Se per il capo del postcomunismo vale ormai il richiamo della foresta, per quello della Margherita si aprono le prospettive di una leadership consapevole. Se Bové in italiano si traduce D’Alema, Blair si potrebbe tradurre Rutelli.

20 luglio 2001

alexbezzi@usa.net



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