Se una notte d’estate un genovese…
di Carlo Stagnaro

Il G8 ha almeno un merito: ha fatto discutere. Ne hanno dette e scritte di tutti i colori. Uno protesta per azzerare il debito ai paesi del Terzo Mondo. Un altro contro la Coca-Cola e i Mc Donald’s. Il terzo vuole dichiarare guerra ai “paradisi fiscali” (ohibò). Dicono che sono pacifici. Giurano che la loro è soltanto “disobbedienza civile” (ma l’avranno mai letto Thoreau?). Prendono le distanze dalla minoranza “violenta”. Intanto, però, programmano di invadere la cosiddetta “zona rossa” e di “sfondare” le linee. Dall’altra parte, la musica non cambia. Il governo cerca il dialogo a suon di miliardi (tre ne sono stati stanziati per “l’accoglienza”, mica bruscolini). I tutori dell’ordine stellettati “trattano”. Quelli di basso grado hanno paura. Quasi di nascosto, intanto, i cecchini prendono posto negli appartamenti più in alto, e gli spioni origliano perfino le liti tra mogli e mariti. Il clima, insomma, è arroventato. I due eserciti si stanno preparando allo scontro, che entrambi ritengono - salvo imprevisti - inevitabile. Il tutto avviene nel pacioso e dolciastro clima tipico del politically correct. Insomma, le sberle voleranno. Lo sanno tutti. Ma non lo ammettono. Dalle cronache, dagli editoriali, dai libri, dai loghi, però, manca un attore di questa entusiasmante commedia dell’estate 2001. E’ assente la maggioranza silenziosa: quella dei genovesi, e dei liguri, costretti a subire il summit. Essi hanno un solo commento: “Belìn, non potevano farlo da un’altra parte?”. E sono gli unici ad avere dannatamente ragione. 

Se c’è un buon motivo per contestare il G8, in effetti, è proprio questo: il fatto stesso che si svolga. Esso significa non solo una considerevole spesa di denaro pubblico, ma anche la paralisi (economica, sociale, culturale) di una città e di una regione. Non si venga a raccontare - perché tanto non ci crede nessuno - che la manifestazione ha rappresentato invece un volano per il capoluogo ligure. Non si pretenda che i genovesi si bevano le cialtronate sulla città “rimessa a nuovo”. Gli interventi, più che strutturali, sono stati “hollywoodiani”: hanno ripitturato le facciate delle case sul percorso degli otto “grandi”, ma col piffero che hanno anche solo guardato il marciume che si putrefà dietro ai grandiosi cantieri. Un vero e proprio monumento all’inutilità della politica, ecco cosa hanno fatto.

Dall’altra parte, cosa bolle in pentola? Sta marciando su Genova uno dei più squassati eserciti che la storia conosca. Il popolo di Seattle sta giungendo e già si assiste alla formazione di una specie di bubbone. Quei porelli che abitano nelle zone in cui questi alloggiano, se possono, telano via. Altrimenti, nella migliore tradizione, mugugnano: “Ma non c’era un modo di tenere lontane ’ste legere qui?”, ha prosaicamente sentenziato un tizio sull’autobus, l’altro giorno. “Legera” è un termine intraducibile, che si colloca a metà tra “pelandrone” e “puttanella”. In effetti, quello a cui si sta assistendo è un autentico esproprio di una intera città. Gli abitanti sono le vere vittime: non per nulla, chiunque abbia l’ardire di camminare per strada noterà che l’odio e il disprezzo sono ugualmente ripartiti tra contestatori e contestati.

Un proverbio ligure recita che “è meglio essere padroni di una barca che capitani di una nave”. Ai genovesi hanno fatto il più terribile affronto che la cultura popolare possa contemplare: prima gli hanno rubato la barca, poi li hanno licenziati da capitani. Cornuti e mazziati. Bastonati per il piacere di otto persone che, se proprio dovevano parlarsi, potevano pure telefonarsi. E sbeffeggiati per la gioia di uno “spaccato di varia umanità” che lascerà, come unico ricordo, sporcizia, schiamazzi e sangue per terra. Finché si fanno del male, dirà qualunque genovese come si deve, sono fatti loro; il guaio è che a noi resteranno le strade da pulire.

13 luglio 2001

cstagnaro@libero.it


stampa l'articolo