Che ci faccio qui?
di Pierluigi Mennitti


Niente da dire nei confronti del ministro Ruggiero che prova a dialogare con i cosiddetti spezzoni moderati del popolo di Seattle con l’obiettivo di garantire il corretto svolgimento del G8 a Genova. Fa il suo mestiere e, visto come si stanno mettendo le cose, lo sta facendo bene. Se Genova passerà un fine settimana di ordinaria baldoria ed eviterà violenze, feriti, vetrine sfondate e auto in fiamme, tanto di guadagnato per tutti. Ma che questo popolo di Seattle rappresenti un chiaro e alternativo movimento antagonista alla globalizzazione, andatelo a raccontare a qualcun altro. La guru del movimento si chiama Naomi Klein, ha un nome da fotomodella e una carriera da consumista incallita. Poi dice di essersi ravveduta e ha scritto un libro “originale” che spiega quanto fa male il consumismo e quanto siamo schiavi della pubblicità. Ma, tanto per non smentirsi, registra il marchio del libro ormai best seller, “No logo”, che viene distribuito in migliaia di cartoline con la fatidica erre cerchiata in alto a destra. Copyright oblige.

Il menestrello dei centri sociali, Manu Chao, produce un nuovo disco con canzoni che sembrano il materiale di scarto del disco precedente. Diventa l’idolo dei contestatori perché è un Jovanotti che parla francese e spagnolo e quindi fa più figo, invita tutti a oltrepassare le barricate della polizia, linee gialle e linee rosse, e a menar sampietrini. E poi scopri che il ragazzo non strimpella per un’anonima casa discografica indipendente e di battaglia ma per la Virgin. Una multinazionale, insomma. E di quelle toste. La Virgin non fa solo dischi, ha messo su una compagnia aerea che si è sviluppata grazie alla deregulation. I suoi prezzi sono scontatissimi perché si risparmia sul personale di bordo e sugli snaks, roba da far impallidire i sindacalisti. Fa pure concorrenza alla Coca-Cola smerciando in volo l’orribile Virgin-Cola. E fa viaggiare il suo menestrello dalle uova d’oro sull’onda di una campagna pubblicitaria globale e miliardaria. Hasta la victoria, Manu.

Passando poi dall’estero a casa nostra, le cose diventano quasi comiche. Ex ministri che riscoprono i calzoni corti (o le gonne, è lo stesso) e avvertono l’ebbrezza del tempo che fu solo all’idea di essere sfiorati da un lacrimogeno. Neocomunisti come Bertinotti che lanciano il guanto di sfida al grido: riportiamo le Clarks in piazza, Clarks contro Nike, logo contro logo. Preti improbabili che sciarpano come ultras allo stadio, scambiando un palco per un altare e “chi non salta globalista è”. Un caravanserraglio di ex vippetti ed ex vipponi che rischia di oscurare persino gli arrabbiatissimi antagonisti dei centri sociali raccolti attorno a un’altra trovata mediatica che sembra tanto un logo: le tute bianche. Come fare a salvarsi da tutto ciò, G8 compreso, con tanto di poliziotti in tenuta anti-sommossa, macchine blu e nere con le scorte, cecchini anti attentatori sui tetti di Genova e missili anti terrorismo installati all’aereoporto, che pure al ministro Martino gli è venuto da ridere? Si potrebbe fare come il compagno Gino Paoli, girar le spalle ai compagni contestatori e salire sulla nave di gala per esibirsi in onore degli illustri ospiti.

Inutile, non se ne esce. Scappi dal mondo globalizzato con tutto l’armamentario del grunge e ti rinfili nello stesso tunnel. Pure le simulazioni dei cortei fatte in questi giorni ad uso dei media sembrano uscite da film tipo Nirvana, il massimo del postmoderno all’italiana. Questo maledetto pianeta sarà pure un inferno ma forse non è tutta colpa della globalizzazione. Quando l’Occidente si fermava a Berlino, l’inferno era al di là, bastava un po’ di buona volontà, un visto, un saltino e zac, benvenuti nel comunismo dove la globalizzazione del socialismo reale aveva reso tutte le strade uguali, tutti i palazzi uguali, tutte le miserie uguali. Ancora oggi, bazzicate le periferie di Berlino Est, di Praga, di Varsavia e di Mosca e poi ancora quelle di Baku, di Pechino, di Vladivostock, di Hanoi e se vi regge lo stomaco arrivate fino a Pyongyang, Corea del Nord. Le tracce di quel regime capace di globalizzare solo la miseria sono ancora tutte visibili e anche l’Africa non è estranea a quel retaggio. Poi vedi le popolazioni indigenti, ti commuovi e pensi che qualcosa bisogna pur fare. E ce lo dice l’Onu (l’associazione che gli antiglobal vorrebbero al posto del G8) cosa bisogna fare: diamogli un bel computer, creiamo sviluppo tecnologico laddove oggi c’è solo disperazione e povertà. Allora uno si ferma un attimo, se ha voglia di fermarsi, e pensa: ma io a Genova cosa ci vado a fare?

13 luglio 2001

pmennitti@ideazione.com


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