Naomi Klein, ovvero la banalità dell’antagonismo
di Alberto Mingardi

Il succo del best-seller di Naomi Klein, acclamato come la Bibbia del movimento antiglobalizzazione, è riassunto a puntino nella quarta di copertina: “L’immagine è tutto. Anche troppo. Dopo anni passati a inseguire falsi bisogni (e vere etichette) le nuove generazioni stanno impadronendosi di una nuova consapevolezza: la vita è fatta di sostanza, non solo di apparenza”.
In queste poche righe, c’è una concentrazione di banalità davvero notevole, a metà strada fra i raccontini della nonna e, ironia della sorte, lo spot televisivo di una popolare bibita gassata (“L’immagine è zero, la sete è tutto”, ricordate?). Il libro riflette gli stessi argomenti, gli stessi pensieri, sciorinati con dovizia di improbabili esempi per cinquecento pagine. “No logo” è solo l’ennesimo di questi mattoncini, pagine e pagine di riflessioni prefabbricate. Dopo l’apocalittica Vivianne Forrester e il post-liberale John Gray (dal libertarismo al tradizionalismo), dopo la bizzarra teoria della “Mcdonaldizzazione” di George Ritzer (“Si potrebbe dire che l’obiettivo di un ristorante fast food è di portare il personale a funzionare come un robot”) e le improbabili “lettere ai guru dell’economia mondiale”, stavolta tocca alla giovane giornalista Naomi Klein, puntualmente portata in palmo di mano dal baraccone mediatico italiano e non.

La reazione più opportuna al saggio della Klein è stata quella di un gruppo di studenti londinesi che, in occasione dell’uscita del libro, hanno piantonato un paio di McDonald’s e un mega-store della Nike giusto per stringere le mani ai consumatori che uscivano. Piacere, secondo “No logo” lei sarebbe un alienato, hanno spiegato agli attoniti mangiatori di cheeseburger. L’iniziativa, lanciata da Julian Morris, uno dei migliori cervelli del liberalismo classico d’Oltremanica, mi sembra azzeccata. Infatti, quando un’autrice blasonata come la Klein confessa candidamente di essere uscita dal “tunnel della shopping-mania” con lo stesso sforzo che fa un eroinomane nel tentativo di disintossicarsi, l’unica risposta può essere quella dell’ironia. Una risata li seppellirà. Già. Perché effettivamente è impossibile rispondere in altro modo a chi considera una massa di automi i milioni di persone che ogni giorno comprano capi d’abbigliamento con il “baffo” della Nike. Bluse alla moda siglate “CK”. Oppure pasteggiano a Coca-Cola sgranocchiando patate fritte.

L’idea, del resto, non è nuova. Anzi è comune a tutto un filone di certa pubblicistica psicologista: il testo di riferimento è, ancora oggi, “I persuasori occulti” (Einaudi) di Vance Packard, la cui prima edizione data 1957. Non a caso, aspettando il G8, il libro di Packard è stato ristampato da Einaudi. Dopotutto, le sue conclusioni sono analoghe al più recente reportage della Klein: “Gli uomini d’affari applicano potenti tecniche in settori che nulla hanno a che vedere con la semplice vendita dei beni di consumo”. Cioè, nella formulazione di Packard, l’ipotesi che la pubblicità arrivi a plagiare chi la guarda. Nell’analisi della Klein, il folle assunto che ormai la promozione di un bene di consumo prescinda dal bene stesso, e vada ad imporre una way of life, uno stile di vita ai consumatori inermi. 

E, allo stesso modo, in “No logo” riecheggia il grido di Vance Packard: “Il sopruso più grave è che molti manipolatori tentano di insinuarsi nell’intimità della mente umana”. Oggi come ieri, insomma, a finire sul banco degli imputati è la pubblicità. Ma, oggi come ieri, questi inquisitori improvvisati non portano l’ombra di una prova scientifica a sostegno dei propri proclami. Del resto, come dà conto Adrian Furnham in una rassegna (Children and advertising, London, 2000) recentemente data alle stampe dalla Social Unit dell’Institute for Economic Affairs, i tentativi di proibire o comunque regolamentare in modo restrittivo la libertà di spot, fanno perlopiù perno su motivazioni squisitamente emozionali. Le tesi di Vance Packard sono state rigettate in blocco dalla comunità scientifica: l’Università di Leeds, nel 1994, ha smentito anche il più abusato corollario del suo teorema, cioè che la pubblicità in televisione “imporrebbe” ai bambini una dieta sbilanciata. 

Una serie di studi empirici hanno dimostrato come in realtà anche lo spettatore più giovane dimostri uno spiccato scetticismo verso quanto la televisione gli propina quotidianamente e che invece, com’è ovvio, sulle preferenze gastronomiche del bambino la vera influenza sia esercitata (a) dalle abitudini alimentari dei genitori, (b) dalle preferenze espresse dal gruppo dei pari. Allo stesso modo, altre ricerche hanno dimostrato che già uno spettatore di dieci anni si pone criticamente verso la televisione (Boush, Friestad e Rose, in Journal of Consumer Research, n. 21, 1994), e altri studi ancora confermano che l’attitudine di un consumatore, per quanto giovane, all’acquisto di un prodotto dipende da una serie di fattori (su tutti, l’esempio dei genitori e l’influenza dei coetanei) che pre-esistono all’esposizione alla pubblicità (John, in Journal of Consumer Research, n. 26, 1999). La quale ha senz’altro una sua funzione, importantissima: quella di informare.

Gli spot segnalano alla clientela che è disponibile il tale prodotto, tutto qui. Senza superpoteri. Bergler, in un saggio molto acuto (in Journal of Advertising, n. 18, 1999), fa presente come questa campagna contro i logo e gli spot, sia solo un tentativo di trovare un nuovo capro espiatorio. Si attribuisce al marchio la facoltà di indirizzare la volontà dei singoli, in modo da alleviare il peso della responsabilità individuale. Per questo, la lettura di Naomi Klein regala un grande senso di tristezza e di smarrimento. Da una parte, si finisce per constatare come la sinistra che voleva “liberare gli operai”, oggi, di fronte alla “tirannia del marketing”, rimpianga apertamente l’oppressione delle vecchie fabbriche. Dall’altra, si è messi di fronte alla totale assenza di un Pensiero con la P maiuscola, dotato di sistematicità e rigore. Verrebbe quasi da rimpiangere il vecchio marxismo.

13 luglio 2001

(da Ideazione 4-2001, luglio-agosto)

Naomi Klein, “No Logo. Economia Globale e Nuova Contestazione”, Baldini e Castoldi, Milano 2001, 500 pagine, lire 32.000.



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