Con gli occhi dell’Occidente
di Luciano lanna


“No logo” è il nuovo grido di battaglia. E al grido di “no logo” la nuova gioventù si scaglia. E ancora una volta a finire nel mirino della contestazione sono l’iconologia, il pensiero simbolico, l’artificiosità estetica: tutto ciò che - in fondo - dà forma e anima al mercato, allo scambio, alle relazioni economiche e politiche. Cosa sono, del resto, le icone, i marchi, i simboli della Walt Disney, di Mc Donald’s, della Coca-Cola, della Apple, della Nike, se non la veste seduttiva, il richiamo immaginario e il valore aggiunto mitopoietico di luoghi e tempi di una contemporaneità necessariamente e vitalisticamente post-illuminista? Cosa resterebbe della nostra civiltà senza un universo simbolico che proprio attraverso i loghi, le icone, la pubblicità riesce a comunicarci i suoi colori, i suoi suoni, le sue sensazioni? Sì: suoni, colori e sensazioni che artificiosamente ri-creano la possibilità di rappresentare e di comunicare le istanze, gli interessi, le aspirazioni, i sogni di tutti noi. Ma contro questi suoni, colori e sensazioni si solleva ora la nuova crociata in nome di un naturalismo e di una “autenticità” che marciano al suono sinistro di una vita sociale ridotta alla triste “naturalità” di rapporti e transazioni umane codificate dalla pura razionalità e dalla semplice istintualità. Per cui l’economia si riduce a volgare transazione di interessi materiali, e il mercato al campo smagnetizzato di un utilitarismo senza volto. Come a negare tutta la storia dell’Occidente e la spinta “estetica” di miti come la “via delle Indie” o la ricerca dell’Eldorado. 

Dietro la campagna del “no logo”, torna, in realtà, una delle costanti regressive della nostra storia culturale e politica: l’iconoclastia. Come a Bisanzio, come con un certo Illuminismo, si torna a ipostatizzare una preseunta “realtà” naturale che si nasconderebbe dietro le apparenze e nella quale dovrebbe tornare. Torna il dualismo moralistico tra “verità” e “apparenza”. Ciò che appare, ciò che rimanda a interpretazioni iconologiche va rifiutato. La verità sarebbe unica, neturalisticamente semplice, immediata. Solo dietro e oltre l’immagine c’è il “vero”. Solo dietro l’apparente c’è il reale. Tornano le mitologie anticonsumistiche di Marcuse che affondano le loro radici in una cultura che da una interpretazione distorta di Platone arriva fino a Kant, sostenendo che esisterebbe una scissione insanabile (ma da superare) tra l’apparente e il reale. Una posizione che di fatto nega qualsiasi concretezza, qualsiasi sostanzialità a quello che appare. Che va rifiutato in quanto tale. Ma qualcuno di noi conosce qualcosa che non gli appare?

Con la nuova tentazione iconoclastica si torna indietro rispetto alla rivoluzione epistemologica resa consapevole dalla filosofia di Nietzsche e Heidegger. Una rivoluzione che ha invece accompagnato, anticipato, determinato, la cultura, la vita, l’antropologia, il linguaggio del mondo novecentesco. Dal punto di vista estetico, infatti, i due filosofi hanno ricomposto la scissione platonico-kantiana: e il fondamento teoretico dei loro ragionamenti è quantomai concreto: la percezione, la realtà, lo svolgimento stesso della realtà a noi contemporaneo, si svolge in questa direzione. E purtuttavia oggi torniamo a pensare come non-reale, o come fuorviante - l’apparente - quello che in realtà vediamo. Apparente che essere svalutato, pensando a quello che non vediamo, a quello che c’è dietro, a quello che “sostanzialmente” è la verità. E’ questa, in realtà, la radice - regressiva, puritana, in-civile - che si nasconde dietro i recenti appelli a un mondo senza “loghi”, senza richiami mitici, senza simboli nella quotidianità. Da parte nostra, restiamo a guardare il mondo come ci piace. Con gli occhi dell’Occidente.

13 luglio 2001

lucianolanna@ideazione.com


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