Elogio del logo, specchio della nostra civiltà
di Ivo Germano


C'è che facendo ingresso casualmente all'interno di quei moderni mausolei della cultura editoriale che sono oramai le librerie multimediali oltre a bearsi dell'aria condizionata non si può non resistere al fascino attrattivo di una delle più belle copertine degli ultimi anni. Nera come la playstation 2, patinatissima come l'ultima edizione di vogue, liscia come i corpi glabri che assediano le spiagge, durante il fine settimana. Il titolo, poi, è un vero e proprio programma: "No Logo. Economia globale e nuova contestazione". L'autrice si chiama Naomi Klein, giornalista e musa assieme a Manu Chao, già leader dello “scazzo programmatico” e molto barceloneta y catalan dei Mano Negra di quel movimento antiglobalizzazione che anima le cronache e le inchieste mediali, en attendant il G8. Miss Klein sembra un personaggio dei film di Robert Redford e di Terence Malik, la faccia è saporosa come quella delle eroine della working class, l'impeto è simtomo del grande nord industriale degli Usa.

Già troppi logo personali per un libro che ambisce a condannare l'etichettificio globale e, per gioco armonico, a tramutarsi in una sorta di precettistica per il popolo di Seattle e derivati locali. All'attacco dei simboli, dunque. Puntualmente beffarda e icasticamente critica contro il mercato che non garantisce nessuno, ma che alimenterebbe profonde e lancinanti incertezze; antagonista di una pseudolibertà omologatrice di ogni differenza. Non più i singoli e malcapitati prodotti da pubblicizzare. Non è più tempo per l'eroica maestria di Ogilvy e di Testa, di Sanna e Seguela, per il loro imponente lavoro creativo che interpretava la sintesi narrativa ed estetica del ciclo industriale: prodotto, commercio, vendita, consumo.

Ora, l'avvertimento è totale. Il bollettino dei naviganti del consumo è globale. Il marchio ha soppiantato il prodotto e le nostre esistenze sono inebetite sotto i colpi di martello del Thor sponsorizzante ogni cosa, ogni oggetto e situazione. La tesi kleiniana avrebbe così gioco facile partendo dal presupposto di base che esista da un decennio una economia planetaria pilotata da precisi mandanti eco ed egocide: le multinazionali, capaci di governare il processo globale ben più dei singoli stati nazionali. Il campo di battaglia è rappresentato dal nesso antropologico fra le marche e i cittadini-consumatori. Da un lato, Nike, Mc Donald's, Coke, Shell, eccetera, dall'altro solo noi.

Temi e problemi difficili e complessi. Cui si potrebbe rispondere d'acchito con le parole eterodosse di Enzesberger, per cui "si è capito che rende di più esportare Mercedes che carri armati, ma ci sono volute due guerre mondiali: non esiste un progresso gratuito, ogni progresso ha un prezzo". Insomma, la libertà commerciale è forse l'antidoto a vecchi e nuovi totalitarismi, quelli sì che covavano tragici disegni di pre-globalizzazione, anzi di cannibalizzazione mondiale di ogni diversità. Del resto, molte sono le dimenticanze e i superficiali sottintesi che dimorano dietro a reali motivi di confronto e discussione. Francamente è troppo facile mixare un romanticismo di facciata e la lotta “dal basso” a ciò che è cool e hipster, e cioè, attaccando i simboli si corre il rischio di combattere una battaglia di forte retroguardia nei confronti di fatti e dati esteticamente volitivi e narrativi propositivi.

Due ragazzi che all'interno di un garage immaginarono un logo come la mela beatlesiana come icona del mondo digitale che andava annunciandosi hanno inciso sul tronco della cultura più di saggi e seminari. Sarà anche il Macworld, metafora malvagia della artificialità delle relazioni, ma quanti portatili sono utilizzati, al contempo, nella tecnoribellione ai tempi globali? E quell'errore grafico, cioè quel semplice baffo unitamente alla scritta "Just Do It" non ha forse mutato lo scenario della moda di strada, divenendo il “companatico imagologico” del beat street controculturale, elogiato cinematograficamente da Spike Lee. Sulle gigantesche emme di Mc Donald's basterebbe citare la non certo complicità con le multinazionali di Bono Vox e dei suoi U2, quando decisero di sceglierle quali architravi scenografiche del Pop Mart Tour. O la creatività estesa che dietro ad ogni spot della Swatch ha delineato il cambiamento degli scenari del costume e della società in un “battibaleno”.

Insomma, la visceralità, la sottocutaneità, l'estasi estetica non sono elementi dannosi e sconfortanti della globalizzazione, ma imagologie immateriali colme di senso e di significato per ognuno di noi, ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni su sette, dodici mesi all'anno. No logo, meglio parlare di sensibilità mistica e mitica degli oggetti contemporanei. E, se poi per ipotesi, impostassimo la litania kleiniana sulle iconografie di pronto consumo controculturale da Che Guevara al Subcomndante Marcos, dai Rage against the machine a Manu Chao, altro che No logo. Altro che assalti frontali alla globalizzazione. Finale aperto allora: 0 a 0 e palla, anzi mondo, al centro. Simbolicamente discettando, però.

13 luglio 2001

ivogermano@libero.it


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