L’isola di Utopia oggi si chiama Tobin Tax
di Stefano da Empoli


In un paese liberaldemocratico, saldamente ancorato all’Occidente, una coalizione appena sconfitta alle elezioni dovrebbe mettersi al lavoro per costruire un progetto credibile. Di modo che si possa presentare alla tornata successiva con decenti probabilità di vincere, senza confidare in scivoloni dell’avversario o fortunosi accadimenti del caso. Con un termine pittoresco ma calzante, si usa descrivere questa transizione come una traversata del deserto. Prova che richiede grossi sacrifici iniziali ma, qualora superata, può garantire ritorni politici importanti. Come la parabola recente del centrodestra insegna. O almeno dovrebbe.

Sarà il miraggio delle vacanze di agosto, la calura romana di luglio, certe immagini televisive ammiccanti ma di deserto gli esponenti del centrosinistra sembra non ne vogliano proprio sapere. Complice una tappa marina di mezzo, Genova, hanno armato una specie di arca di Noè, che ha generosamente imbarcato più o meno tutte le varietà dell’ampio vivaio sinistrorso. Quasi nessuno se l’è sentita di rimanere a terra, forse memore dei precedenti biblici poco incoraggianti. Destinazione finale apparente: l’isola che non c’è. Un tempo la si sarebbe chiamata Utopia, come l’aveva battezzata Thomas More. Dopo quella di More è stata la volta di molte altre isole, alcune più belle e altre meno, tutte egualmente irraggiungibili. Adesso è il turno dei Folena, dei Mussi, dei Castagnetti. Alla ricerca di un’isola che assomiglia molto di più a quella dello spot Tim che alle isole dei filosofi del passato che, nella loro irragionevolezza, avevano una loro nobiltà. Oggi, il centrosinistra italiano tenta di andare al traino di un pensiero politico senza capo né coda. Da Gramsci ad Agnoletto, da uno dei massimi pensatori italiani del secolo ad un refuso culinario.

Non si spiega altrimenti perché, a fronte di notevoli e forse fin troppo generose offerte della maggioranza, la minoranza abbia deciso di fare quadrato intorno ad un’idea assurda come quella della Tobin Tax, l’imposta sui movimenti di capitale, fiore all’occhiello dei protestatari al tempo di Internet. Creando un collegamento artificioso tra le transazioni finanziarie e la povertà nel mondo, come se le prime fossero responsabili della seconda. E’ semmai vero il contrario. Senza la piena mobilità dei capitali, il livello di vita dei paesi poveri è destinato al massimo a crescere molto lentamente. Due uomini di mondo come Franco Debenedetti e Lamberto Dini sono stati tra i pochissimi nell’Ulivo a dire no alla Tobin Tax. Ben sapendo che, al di là di evidenti debolezze teoriche, l’imposta richiede collaborazione tra tutti gli stati, paradisi fiscali inclusi, per essere applicata. Praticamente impossibile al giorno d’oggi.

Non altrettanto informati su come gira il mondo sono apparsi di questi tempi molti dei più illustri esponenti del centrosinistra e dei sindacati. A parte scivoloni collettivi come quello sulla Tobin Tax, vale la pena segnalare alcune interessanti dichiarazioni del segretario della Cisl, Pezzotta e del neo-sindaco di Roma, Walter Veltroni. Il primo ha testualmente affermato che “i paesi più ricchi devono ridurre il gap tecnologico con i paesi più poveri”. Detta così sembra quasi che le nazioni tecnologicamente più avanzate si debbano fermare ed aspettare gli altri. Come chiedere al primo della classe di passare il compito piuttosto che a quello meno bravo di studiare di più. Al di là di come debba essere interpretata la sua frase, Pezzotta sembra dimenticare che la differenza tecnologica tra il Nord e il Sud del mondo non è la causa bensì l’effetto di un’evidente disparità tra i due modelli economici. Che riguarda molto di più il modo in cui sono organizzate le società e le loro istituzioni. Se il problema fosse solo tecnologico, l’Unione Sovietica sarebbe oggi ricca quasi quanto gli Stati Uniti grazie al sapiente lavoro di spionaggio del Kgb. Evidentemente la questione era un’altra se oggi l’Unione Sovietica non esiste più.

Veltroni ha invece auspicato in un’intervista domenicale al Corriere della Sera “una gigantesca operazione di redistribuzione del reddito” dalle aree ricche a quelle povere del mondo. Peccato che abbia dimenticato di illustrarne i particolari. In paesi liberaldemocratici, sembra operazione ardua requisire proprietà “gigantesche” per devolverle a paesi lontani. Senza neanche poterne controllare l’impiego e con il pericolo più che concreto che vadano a finire nelle mani sbagliate. Perché il buonismo ipocrita della sinistra di questo non parla. Non dice nulla delle classi dirigenti dei paesi del Terzo Mondo e del modo in cui usano le risorse a disposizione. Forse perché avendo nel ritratto di famiglia Pol Pot e Stalin su queste questioni è meglio stare in silenzio. E darsi alle vacanze. Quelle vere, però.

13 luglio 2001

stefanodaempoli@yahoo.com 



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