La strana parabola del Big Mac
di Alessandro Bezzi


Strano destino, quello del Big Mac, il panino con la doppia polpetta schiacciata farcito di salse e verdura, pasto principe dei fast food della catena Mc Donald’s. Negli anni successivi alla caduta del Muro di Berlino, quel panino, quella insegna ormai famosissima (una grande emme gialla in campo rosso) era divenuto il simbolo della libertà ritrovata in tutti i territori dell’ex impero comunista. A Mosca come a Praga, a San Pietroburgo come a Budapest e a Varsavia, i primi Mc Donald’s venivano assaltati da giovani smaniosi di assaggiare il sapore dell’Occidente. E, ovviamente, l’Occidente era soprattutto l’America. La notte che il Muro cadde, il 9 novembre 1989, centinaia di berlinesi dell’est si accalcarono religiosamente in fila di fronte al Mc Donald’s della stazione allo Zoologisches Garten.

Dieci anni dopo, nel satollo e un po’ annoiato Occidente europeo, quel panino e quelle insegne sono diventati un simbolo di prigionia. Il simbolo della globalizzazione che, secondo quello che i media ormai definiscono il popolo di Seattle, omologa le menti e impoverisce gli uomini. E Mc Donald’s impersonerebbe proprio questo: cibo globalizzato, uguale in ogni dove, da Los Angeles a Tokio, da Stoccolma a Buenos Aires. Certo anche la pizza ha un suo sapore globale, come gli spaghetti, la bistecca argentina, il riso alla cantonese, il goulash ungherese. Potete mangiarli un po’ dappertutto e alcuni di questi cibi arricchiscono i menu dei fast food di mezzo mondo. Ma, appunto, l’hamburger è americano. Il problema sembra questo.

Insomma pare proprio difficile vedere nel Big Mac un semplice hamburger e nei fast food della catena Mc Donald’s soltanto una scelta di ristorazione in più, da prendere o lasciare a seconda dei propri gusti e della propria volontà. Né più e né meno dei ristoranti cinesi, delle pizzette della catena Spizzico, delle paste precotte della catena Pastarito e dei tacos messicani. E’ nella polpetta schiacciata il male del mondo. Passa dalla carne macinata la schiavitù del genere umano. Che il dibattito sulla globalizzazione, sulle opportunità e sui problemi che essa determina, si debba incrociare in maniera stantìa attorno al solito antiamericanismo dell’estrema sinistra è un peccato che ha molti padri. Non solo nei centri sociali e in tutti quei movimenti che hanno trovato un nuovo pretesto per riprendersi la piazza. Ma anche fra gli esponenti del mondo della comunicazione che, invece di ragionare e far ragionare, hanno rispolverato l’eschimo dei tempi andati.

13 luglio 2001

alexbezzi@usa.net


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