McCain cerca di arginare il tornado Obama
di Alessandro Marrone
[13 feb 08]

Le “primarie del Potomac”, svoltesi in tre Stati sulle rive del fiume della capitale Washington – Virginia, Maryland e Distretto di Columbia che ospita appunto la Casa Bianca – hanno visto la netta affermazione dell’ormai certo candidato repubblicano McCain, e del nuovo front runner democratico Obama. McCain ha vinto su Huckabee con 9 punti di vantaggio in Virginia, 25 punti in Maryland e 50 nel Distretto di Columbia. Una vittoria senza ombre dunque, che cancella le ultime speranze del pastore battista di contendere la nomination repubblicana al senatore dell’Arizona. Secondo una stima riportata dal New York Times, McCain ha oggi 821 delegati contro i 241 di Huckabee, e per essere superato dovrebbe perdere ogni singola futura primaria, un’ipotesi alquanto improbabile. Alla luce degli ultimi risultati, è anzi probabile che si intensificheranno le pressioni da parte dei vertici repubblicani, di cui si è avuto qualche segnale già nei giorni scorsi, affinché l’esponente della destra religiosa si ritiri. La logica che si sta facendo strada tra l’establishment repubblicano (e più lentamente tra gli elettori) è semplice: Huckabee non può più vincere la nomination, ed il proseguimento della sua candidatura di bandiera impedisce a McCain di raccogliere il sostegno (e i finanziamenti) di tutto il Grand Old Party e di concentrarsi contro gli avversari democratici.

Inoltre si diffonde anche tra i conservatori più rigorosi la percezione che il repubblicano con modi da maverick (cane sciolto) sia in grado di battere Clinton e di mettere in difficoltà Obama: diversi sondaggi danno McCain appaiato a Hillary e 4 punti dietro il senatore di colore in un’eventuale sfida presidenziale. Tale percezione, diffusa anche da importanti opinionisti conservatori come Irving Kristol, potrebbe aver favorito un “voto utile” nelle primarie in Stati in cui la dimestichezza con i meccanismi della politica è maggiore che nel resto del paese, come il distretto della capitale Washington che ha visto trionfare McCain. A spingere i repubblicani verso l’unità contribuisce probabilmente anche la paura dell’onda che si sta sollevando in campo democratico: onda economica, perchè i fondi raccolti dai candidati dell’asinello hanno finora più che doppiato quelli dell’elefantino, ed onda umana, considerando che nelle ultime tre primarie hanno votato circa 1,8 milioni di elettori democratici e meno di 800.000 elettori repubblicani.

Le dimensioni della partecipazione al voto democratico rendono ancora più rilevante la schiacciante affermazione di Obama, che ha raccolto in tutti e tre gli stati oltre il 60 per cento dei consensi, con una punta del 75 per cento nella capitale. Oggi il senatore dell’Illinois è in testa nella conta degli stati per 22 a 13, e secondo una stima riportata dal New York Times ha superato di misura anche il numero dei delegati della rivale alla convention democratica. Di certo un fattore importante nell’ultimo trionfo è stata la mobilitazione della comunità di colore, particolarmente forte nella regione e specialmente nella Virginia simbolo nell’Ottocento dello stesso regime schiavistico. Non sembrano aver avuto effetto in questo senso le “scuse” che Bill Clinton ha in qualche modo rivolto ai suoi (ex) elettori afroamericani, affermando in merito ai duri attacchi rivolti ad Obama di “aver imparato una lezione molto importante da ciò che è accaduto”. Tuttavia l’analisi del voto etnico non basta da sola a spiegare un fenomeno che sta avvicinando ai democratici molti giovani al loro primo voto, e molti elettori indipendenti che non gradiscono il continuo avvicendamento alla Casa Bianca delle dinastie Bush e Clinton.

Con i suoi discorsi che si rifanno alla migliore tradizione oratoria americana, dai padri fondatori a Martin Luther King al presidente Kennedy, Obama sembra risvegliare nei cittadini statunitensi una passione politica che Hillary pare non riesca a toccare. La senatrice di New York ha puntato sulla sua esperienza politica, sulla riconosciuta padronanza dei temi oggetto dei vari dibattiti e sull’immagine di manager capace, ma alcuni commentatori cominciano a mettere in dubbio anche questi suoi affermati punti di forza. Alla vigilia delle ultime primarie il Financial Times pubblicava un commento dal titolo significativo: “Perché i democratici devono scegliere Obama”. Le si rimprovera il ruolo avuto nella controversa, fallimentare per alcuni, riforma del sistema sanitario varata durante il primo mandato presidenziale del marito, e si nota che sia lei che Barack tutto sommato hanno solo pochi anni di esperienza al Congresso e non sono stati neanche governatori di uno Stato americano. Aldilà della sua efficacia, in ogni caso l’argomentazione dell’esperienza politica lega in qualche modo la Clinton al passato mentre oggi è molto diffusa la voglia di futuro in un paese che di per sé, quasi geneticamente, è sempre lanciato verso il cambiamento, la speranza e la sfida. I due candidati democratici sono quasi appaiati quanto a numero di delegati, mancano ancora diverse primarie in Stati poco favorevoli al senatore di colore, e Hillary non è certo un tipo che molla facilmente. Tuttavia oggi Obama sembra cavalcare quest’onda ideale, e per Clinton sarà difficile costruire un argine in grado di arrestarla.


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