Nevada e South Carolina: Clinton e Obama in prima fila
di Alessandro Marrone
[21 gen 08]

Nevada e South Carolina hanno segnato una tappa importante ma non ancora decisiva sulla strada per la Casa Bianca. Nello Stato di Las Vegas, tra i democratici Hillary Clinton ha raccolto il 51 per cento dei voti contro il 45 di Barack Obama, lasciando a John Edwards i miseri avanzi. Tra i repubblicani, invece, Mitt Romney si è aggiudicato il 55 per cento dei suffragi, mentre gli altri candidati hanno avuto percentuali molto inferiori, intorno al 10 per cento ciascuno. In South Carolina invece si tenevano solo le primarie repubblicane, e McCain si è piazzato al primo posto con il 33 per cento dei consensi, contro il 30 per cento di Huckabee ed il 15 di Romney. A questo punto per il campo democratico le primarie assomigliano sempre più ad un campionato di Formula 1 che vede i due migliori piloti gareggiare in ogni circuito, occupando sempre la prima fila anche quando non si vince il Gran premio, mentre Edwards sembra ormai fuori dai giochi. Stavolta Clinton è arrivata prima, ma Obama è appena dietro la curva. Infatti in Nevada, dove i delegati alla convenzione democratica si assegnano contea per contea e non in base al risultato nazionale, il senatore dell’Illinois ha vinto nella maggior parte dei distretti aggiudicandosi 13 delegati contro i 12 della senatrice di New York. Hillary ha ottenuto nel complesso più voti grazie alla vittoria nella popolosa contea di Las Vegas, dove il sostegno pubblico ad Obama da parte dei sindacati dei lavoratori nel settore alberghiero (molto numerosi nella città dei casinò) evidentemente non è bastato per convincere le classi lavoratrici a votare in massa per il candidato afroamericano.

Obama adesso però ha di fronte due “circuiti” molto favorevoli, Lousiana e South Carolina, dove la comunità nera oscilla intorno al 40 per cento dell’elettorato e, stando a diversi sondaggi, voterà per tre quarti il candidato di colore. Tuttavia, oltre alla poca attendibilità dimostrata finora dai sondaggi, Obama deve fare i conti con un problema ben maggiore: se un’eventuale polarizzazione del voto su base razziale all’interno dell’elettorato democratico può favorirlo negli Stati con una forte comunità nera, lo stesso meccanismo può compattare il voto delle altre etnie su Clinton. Questo discorso vale non solo per i bianchi, tra i quali comunque non va sottovalutata la diffidenza per un presidente afroamericano, ma anche per altre minoranze consistenti come i latinoamericani. Essi infatti, come riportano alcune ricerche demoscopiche, sembrano preferire un altro presidente bianco piuttosto che vedersi simbolicamente scavalcati nella scala sociale dalla comunità nera, che con Obama conquisterebbe per la prima volta la massima carica degli Stati Uniti. Non a caso Obama ha evitato in tutti i modi di portare il dibattito elettorale sul piano razziale, chiudendo per primo la polemica con la Clinton sull’eredità di Martin Luther King e cercando di costruirsi un’immagine che possa unire tutto l’elettorato democratico.

Un candidato in grado di rappresentare le maggiori anime del partito è invece proprio quello che manca ai repubblicani. Tale situazione di fondo ha trasformato le primarie del Grand Old Party in una sorta di partita a Risiko: ogni giocatore sa di essere relativamente debole, ed adotta strategie diverse per dosare la sua forza (in termini ad esempio di fondi elettorali) puntando sugli Stati dove il terreno è più favorevole alle sue armate. Ad esempio sia Mc Cain che Huckabee non hanno assolutamente fatto campagna elettorale in Nevada, dove la forte presenza di correligionari del mormone Romney rendeva quasi impossibile una vittoria, e ciò spiega come l’ex governatore del Massachusetts abbia ottenuto più della metà dei voti staccando nettamente tutti gli altri. Romney a sua volta alla fine ha abbandonato il campo in South Carolina, per timore che la forte presenza di cristiani evangelici sostenitori di Huckabee prosciugasse il suo principale bacino di voti, la destra religiosa. Mc Cain invece ha sfidato il pastore battista nel suo feudo puntando sui voti degli indipendenti, e dopo una battaglia all’ultimo voto ha vinto con soli 3 punti di vantaggio uno scontro decisivo per la sua campagna. In questo quadro si inserisce la strategia di Giuliani di concentrare le forze sul voto della Florida del prossimo 29 gennaio, trascurando del tutto i precedenti campi di battaglia. Tuttavia, se questa tecnica permise a Fabio Massimo il Temporeggiatore di battere i cartaginesi, al momento non sembra giovare molto all’ex sindaco di New York.

Mentre infatti gli altri leader repubblicani consolidano il morale delle loro truppe e continuano a raccogliere sostegno economico vincendo alcune delle battaglie combattute, la prolungata assenza di Giuliani dall’arena nazionale fa serpeggiare il dubbio tra i suoi sostenitori e scendere i consensi nell’elettorato complessivo: tanto che anche in Florida secondo tutti i sondaggi il suo vantaggio iniziale di 10 punti si è via via ridotto fino a vedere una situazione di sostanziale parità con gli altri maggiori candidati repubblicani. A questo punto della campagna elettorale repubblicana, la rischiosa strategia adottata da Giuliani potrebbe portare ad una vittoria sorprendente come quella israeliana nella guerra dei Sei Giorni, oppure segnare la sua irreversibile Waterloo.


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