Michigan: per Romney una vittoria di Pirro?
di Alessandro Marrone
[16 gen 08]

Nelle primarie repubblicane in Michigan l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney ha vinto con il 38 per cento dei voti, staccando di otto punti il rivale John McCain fresco vincitore delle consultazioni in New Hampshire. Terzo con solo il 16 per cento dei consensi il pastore battista Mike Huckabee, che aveva vinto il primo caucus repubblicano in Iowa. La netta vittoria di Romney, così com’è accaduto per quella di Hillary Clinton nelle ultime primarie democratiche in New Hampshire, non era stata pronosticata dai sondaggi che prevedevano un testa a testa con McCain. Segno che in questa corsa elettorale i dati delle indagini demoscopiche vanno presi con molta cautela, e che spesso viene sopravvalutato l’effetto trainante della vittoria di questo o quel candidato nell’ultimo Stato in cui si è votato. Ex post, si può spiegare l’affermazione del milionario mormone con diversi ragionevoli argomenti. Dal punto di vista dell’appeal personale, Romney è vissuto fino ai 18 anni in Michigan ed il padre ne è stato governatore negli anni Sessanta: Mitt ha perciò potuto utilizzare la sua familiarità con il paese e con i suoi problemi per lusingare l’orgoglio dei suoi compatrioti, e la nostalgia per un passato decisamente migliore del presente. Infatti lo Stato di Detroit attraversa da diversi anni una grave crisi economica dovuta al processo di deindustrializzazione del settore automobilistico, dovuto tanto alla concorrenza delle case straniere quanto ai processi di delocalizzazione e outsourcing resi possibili e convenienti dalla globalizzazione. Mentre McCain ha avuto il coraggio di parlare anche in Michigan a nome dell’interesse nazionale, affermando che certi lavori “sono andati e non torneranno” e proponendo una nuova formazione professionale per i disoccupati, Romney ha scelto la posizione opposta promettendo assistenza per l’industria automobilistica e invitando a “non credere a chi dice che questi lavori sono andati”. Il tono populista e protezionista della sua campagna (“in Michigan la maggior parte delle auto sulle strade sono fatte in America, come è giusto che sia”) ha probabilmente giovato a Romney, calibrando quella immagine di freddo business man della East Coast che si presenta ai comizi con le presentazioni fatte in PowerPoint.

Tuttavia è interessante notare come McCain abbia ottenuto il 30 per cento dei voti nonostante abbia detto francamente ai suoi elettori che si devono rimboccare le maniche e cambiare lavoro se vogliono andare avanti. Considerando inoltre che Romney è molto più popolare in Michigan che nel resto del paese, e che nello Stato di Detroit aveva speso molti più fondi dei suoi rivali, la sua netta vittoria non induce a pensare che si stia innescando un effetto domino a suo favore. A onor del vero Romney ha vinto anche nel caucus tenutosi la settimana scorsa nel Wyoming, ma lo Stato incastonato sulle Montagne Rocciose dalla popolazione pari a quella di un quartiere di Roma non ha mai fatto testo nelle primarie presidenziali. Con tre diversi vincitori nei primi tre rilevanti Stati in cui si è votato, il campo repubblicano conferma dunque la suai estrema frammentazione. Situazione che di certo aiuta l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, potenzialmente uno dei principali candidati repubblicani che ha però deciso di non partecipare alle primarie svoltesi finora nei piccoli Stati per puntare sui popolosi distretti della East Coast, a partire dalla Florida che voterà il 29 gennaio. Finora la sua strategia non è fallita, nel senso che non è emerso un vero front runner repubblicano, ma ciò non significa necessariamente che sia riuscita: la prolungata assenza dai resoconti dei media sulle primarie fin qui svoltesi potrebbe aver appannato al sua popolarità a livello nazionale, e non gioca a suo favore né il tempo che lo separa dal suo debutto vero e proprio né il calendario che vede il prossimo appuntamento elettorale repubblicano in South Carolina, Stato del Sud dove il conservatorismo poco ortodosso di Giuliani ha ben poca presa.

In campo democratico, le primarie in Michigan non costituivano un test significativo, perché i vertici nazionali del partito avevano precedentemente deciso di azzerare i delegati alla Convenzione nazionale eletti in quello Stato per la sua decisione di anticipare l’appuntamento elettorale rispetto al tradizionale calendario. Alla fine del 2007 infatti si era innescata una corsa ad anticipare la data delle primarie tra gli Stati che volevano ottenere maggiore attenzione (e quindi maggiori promesse elettorali) per le loro specifiche issues, spirale che ha preoccupato non poco i vertici federali per il suo effetto alterante sulla campagna presidenziale. Effetto testimoniato dal fatto che, avendo aperto la corsa l’Iowa piuttosto che il tradizionale New Hampshire, un candidato della destra religiosa come Huckabee ha potuto godere dell’attenzione dei media in quanto vincitore del primo appuntamento elettorale, cosa che non sarebbe successa dopo una doppia sconfitta iniziale in New Hampshire e Michigan. Le primarie democratiche svoltesi nello Stato di Detroit dunque non contano formalmente per la corsa alla nomination democratica, tanto tutti i candidati del partito dell’asinello non hanno fatto campagna elettorale in Michigan, e Barack Obama e John Edwards hanno ritirato persino il loro nome dalla scheda elettorale. La Clinton, invece, pur non dedicando attenzione a questo Stato, ha lasciato il suo nome sulla scheda ed ha raccolto il 57 per cento dei voti dei (pochi) elettori democratici recatisi a votare, mentre il 40 per cento di loro ha espresso un voto “uncommitted”, l’equivalente delle italiane “schede bianche”. Più importante per la sfida democratica è stata la decisione di Obama e Clinton di abbassare i toni del dibattito sul tema dell’eredità ideale e politica di figure come Martin Luther King e Lyndon Jhonson, che stava per degenerare in un scontro su chi in passato avesse fatto di più per gli afroamericani e chi oggi possa raccogliere meglio la bandiera dei diritti civili. Entrambi i front runners democratici hanno ribadito di “stare dalla stessa parte” (Hillary) e di “essere brave persone, dei patrioti” (Obama), mostrando così un certo savoir faire in una corsa così incerta da mettere a dura prova i nervi anche di un politico navigato. Chi dei due ne avrà guadagnato di più lo si vedrà sabato, quando la “road to Washington” democratica farà tappa in Nevada.


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