Cina/1 - Nixon aveva torto. Serve più democrazia
di Enzo Reale
Ideazione di novembre-dicembre 2006

«Ciò che importa non è la filosofia politica interna a una nazione – disse Nixon stringendo la mano di Mao nel corso della troppo celebrata visita cinese del febbraio 1972 – ciò che importa è la sua politica verso il resto del mondo e verso di noi». Questa frase, di fatto il lemma della scuola realista, è quella che i nipotini di Kissinger amano leggere ogni sera prima di prendere sonno per convincersi che nelle relazioni internazionali contano solo i fattori materiali e i rapporti di potere e che la natura dei regimi è un elemento sostanzialmente ininfluente nel determinare la politica estera degli Stati. Si tratta di una visione consolante sotto un certo punto di vista: se noi facciamo della storia e della politica scienze esatte possiamo limitarci a considerare ciò che uno Stato fa risparmiandoci la fatica di andare a vedere ciò che uno Stato è; il che ci libera non solo da considerazioni di carattere etico ma anche da una certa dose di responsabilità, perché se a contare è solo l’interesse nazionale allora le mie e le altrui azioni non potranno essere esaminate che in base a questo criterio di giudizio: in pratica godranno di un alibi permanente.

Questa autoindulgenza risulterebbe perfino scusabile se non fosse che la prospettiva cui si accompagna si rivela miope ed inconsistente sotto il profilo storico-politico. Miope perché sceglie il compromesso e la gestione dell’esistente invece della sua evoluzione e si fa scudo di un ingannevole concetto di stabilità per giustificare un sostanziale immobilismo foriero di disgrazie e poco altro (i cosiddetti realisti non ne hanno tratto le conseguenze ma l’undici settembre ha rappresentato la loro smentita più tragica ed eclatante); inconsistente perché non tiene conto del fatto che l’ideologia non solo condiziona le percezioni e le priorità delle élites ma soprattutto è in se stessa uno strumento di potere che determina le relazioni di un sistema politico sia nei confronti dei propri cittadini sia verso la comunità internazionale.

Sulla teoria della pace democratica
E dire che basterebbe da sola a far piazza pulita del piccolo cabotaggio quella teoria della pace democratica formulata per la prima volta in epoca contemporanea da Dean Babst e sviluppata dagli studi di R.J. Rummel. La dottrina è comunemente nota per il suo enunciato fondamentale: le democrazie non si fanno guerra tra loro, ma è in realtà il risultato di una approfondita analisi storica sui rapporti tra violenza, conflitti e sistemi politici. Rummel ha osservato che nei 190 anni di storia che separano la conclusione del Congresso di Vienna dall’attualità sono scoppiate più di 200 guerre tra regimi non democratici, più di 150 tra regimi non democratici e regimi democratici, ma nessuna tra democrazie. Conclusione: non solo le democrazie non si attaccano tra di loro, ma quanto più democratiche sono due nazioni più ridotto è il grado di violenza reciproca, nonché di quella esercitata in generale all’interno e all’esterno dei propri confini.

Proprio perché basata sull’esame della realtà storica, quella della pace democratica è di fatto – come nota un altro studioso della materia, James Lee Ray – almeno ad oggi la teoria più comprovata nel campo delle scienze politiche. Non è un caso che per confutarla i suoi critici siano costretti a ricorrere ad episodi marginali e non significativi o a ridurre il concetto di democrazia ad una caricatura di se stesso. Ma quando definiamo una democrazia consolidata attraverso i parametri di elezioni libere e competitive, della garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali, del primato della rule of law e dell’equilibrio tra i poteri dello Stato, allora non possiamo che riconoscerne la specificità assoluta come potente forza di pace e stabilità internazionale, dove pace fa rima con emancipazione e stabilità con riconoscimento reciproco. Diverse sono le spiegazioni che al proposito la politologia ha fornito nel corso degli anni, alcune di carattere normativo, altre di tipo istituzionale, altre ancora di stampo economico o addirittura psicologico, ma non essendo questa la sede per discuterne ci limiteremo a verificare implicitamente la consistenza di alcune di esse, trattando il tema che ci occupa in concreto: se una Cina democratica sarebbe automaticamente un attore più responsabile e meno ostile sul piano delle relazioni internazionali.

Per evitare di scadere nella fantapolitica, non intravedendosi all’orizzonte per il momento nessun significativo segnale di democratizzazione del regime di Pechino, conviene affidarsi ancora una volta all’analisi del reale e considerare come si sta muovendo sullo scacchiere mondiale la Cina autoritaria. Il primo elemento che colpisce è che la proiezione internazionale dell’ex Grande Proletaria, nonostante abbia origini relativamente recenti, si sviluppa ormai a trecentosessanta gradi: dallo scenario eurasiatico a quello latino-americano, passando per l’Africa e il Medioriente, assistiamo ad una strategia di ridefinizione degli equilibri esterni strumentale alle esigenze di salvaguardia del proprio modello interno. In generale la Cina sta giocando la partita del soft-power a beneficio delle cancellerie occidentali e quella dell’hard-power nelle sue zone di influenza. Mentre l’apparato della propaganda è impegnato ad accreditare un ruolo di moderazione e di collaborazione in linea con le nuove parole d’ordine della “crescita pacifica” e della “società armoniosa”, sul campo Pechino sta creando una vera e propria rete di alleanze in chiave anti-democratica e anti-occidentale con l’obiettivo di imporre un modello di sviluppo (o sottosviluppo) alternativo a quello della democrazia liberale.

Soft power e hard power: la doppia strategia politica di Pechino
Quando nel giugno scorso l’ultimo vertice dell’Unione Africana si trasformò in un festival dell’odio anti-americano e anti-imperialista la Cina era presente con dieci osservatori. Ufficialmente era il Gambia ad organizzare il summit ma gli inviti partirono da Zhongnanhai. Ospiti d’eccezione Chávez e Ahmadinejad. Da una parte la necessità di procurarsi le materie prime e l’energia di cui ha bisogno, dall’altra il desiderio delle oligarchie dominanti nel continente africano di ricevere infrastrutture ed aiuti economici senza interferenze negli affari interni: Pechino importa ricchezza ed esporta armi ed autoritarismo, promette assistenza ma agisce come una potenza neocoloniale. Forte del suo sviluppo economico senza libertà, il partito comunista cinese offre un’alternativa ideologica ai nuovi despoti spacciandola per cooperazione agli occhi di una comunità internazionale disposta a non vedere e non sentire in nome del sacro principio della sovranità (quale sovranità?) e pronta a concedere alla riedizione del fronte dei non-allineati il palcoscenico e il portafoglio delle organizzazioni internazionali. Che bisogno ha lo Zimbabwe – deve aver pensato il tiranno Mugabe – delle aziende occidentali se il nuovo alleato cinese firma con noi accordi economici per l’estrazione ed il trasporto dei diamanti? Perché dovremmo accettare truppe straniere sul nostro territorio – ragionano a Karthoum – se gli stessi che ci inviano le munizioni per compiere il genocidio del Darfur sono anche i nostri principali protettori alle Nazioni Unite? E come interpretare l’avvertimento dell’ambasciatore cinese nello Zambia secondo cui in caso di vittoria del candidato dell’opposizione alle presidenziali si sarebbero interrotti i rapporti diplomatici tra le due nazioni? Stabilità, certo, ma dei regimi.

Discorso analogo vale per l’America Latina. L’abbraccio tra Chávez e Hu Jintao lo scorso agosto all’Assemblea Nazionale del Popolo suggellava qualcosa di più della firma di un accordo petrolifero. Era la rappresentazione grafica di un vero e proprio asse politico-ideologico in quello che una volta veniva definito il giardino di casa di Washington. Merita di essere notato che, se fino a pochi anni fa, Pechino manteneva un profilo basso, attualmente – in virtù della crescita economica e militare – pratica una politica più assertiva, come se non temesse lo scontro. Uno degli sviluppi recenti più interessanti è ad esempio il crescente coinvolgimento di personale cinese nell’addestramento delle forze armate in diversi paesi latino-americani che fino al 20021 ricevevano aiuti e supporto logistico dagli Stati Uniti: uno sforzo che va letto sia in chiave di protezione dei propri interessi commerciali sia in termini più strettamente militari, includendo in questa definizione la collaborazione a livello di intelligence e la vendita di armamenti.

Solo tenendo presente che tutto quello che Pechino fa al di fuori dei propri confini rientra in una logica di consolidamento del regime all’interno degli stessi, si può capire l’importanza che a Zhongnanhai assegnano alla questione Taiwan anche in contesti apparentemente ininfluenti: sono ancora 12 le nazioni latino-americane che mantengono relazioni diplomatiche con Taipei. L’impegno di Pechino nella regione ha molto a che vedere con l’obiettivo di sottrarre, attraverso il ricatto della dipendenza economica e della tutela politica, potenziali alleati al fronte pro-Taiwan. L’opera di convincimento si è ripetuta all’ultimo vertice dei paesi non-allineati tenutosi a L’Avana due mesi fa, nel corso del quale la Cina ha giocato il ruolo della grande potenza in via di sviluppo intenzionata a difendere la causa terzomondista e multilateralista (leggasi populista e dispotica) dalle ingerenze imperialiste (leggasi occidentali e democratiche). Hu Jintao d’altra parte non ha mai fatto mancare il suo apprezzamento per il “modello politico cubano”, prontamente ricambiato dalle parole del ministro castrista dell’economia che, proprio poco prima dell’inizio dei lavori, ricordava come le relazioni tra i due Stati fossero «maturate nel solco della comune ideologia».

Alcuni analisti interpretano l’espansione cinese nel continente americano come una risposta alla crescente presenza statunitense in quello asiatico prodotta dalla guerra al terrorismo. Ma la tesi della reazione non spiega tutto, perché le cinesi non sono tanto incursioni tattiche quanto piuttosto tentativi (finora coronati da successo) di conquista di posizioni strategiche coerenti con la visione di potere globale alternativo che il regime ha di se stesso. Realpolitik, certo, ma di una dittatura. Non può quindi stupire se sui missili che Hezbollah faceva piovere al nord di Israele si sono trovate impronte digitali cinesi.

La minaccia cinese tra Sud America e Teheran
L’alleanza tra l’ateismo di Stato di Pechino ed il fanatismo religioso di Teheran è probabilmente uno dei fattori di instabilità più inquietanti del nostro tempo. Mai l’equazione no war for oil ha assunto un significato tanto preciso come in questo caso, anche se il pacifismo è come sempre occupato altrove. L’11 per cento di tutto il petrolio che la Cina importa proviene dall’Iran e la moneta di scambio sono gli armamenti. In spregio a tutti i trattati di non-proliferazione, nei rogue-states del Medioriente2, ma soprattutto nella terra degli ayatollah, arrivano tanks, artiglieria leggera e pesante, missili anti-aerei, componenti di navi da guerra, materiali e consulenza tecnica per la fabbricazione di ordigni chimici e nucleari. L’Iran è una pedina chiave nel grande gioco del consolidamento/esportazione della dittatura perché è l’argine ai disegni democratici americani in Medioriente e in Asia Centrale (l’effetto accerchiamento è l’incubo di Pechino) e perché consente ai cinesi di continuare la melina infinita sulla questione nordcoreana: nel caso questi ultimi fossero costretti a dimostrare una certa dose di collaborazione con la comunità internazionale contro le intenzioni belligeranti dello Stato-vassallo (altro “modello” dichiarato di Hu Jintao), l’Iran sarebbe pronto a farsi carico di tutta l’assistenza di cui Kim Jong Il ha bisogno. Multilateralismo alla cinese. Ed è di nuovo nelle sale ovattate delle organizzazioni internazionali – in cui non a caso il protagonismo cinese sta aumentando in maniera esponenziale – che avviene il riciclaggio degli affari sporchi: Teheran ha potuto continuare a lungo il ricatto atomico grazie alla complicità di Pechino (e in minor misura di Mosca) e alla voglia di appeasement delle cancellerie europee, delle anime candide onusiane e dei fondamentalisti della stabilità. Ma l’Iran è anche osservatore privilegiato in quella Shanghai Cooperation Organization (sco) che, sotto l’egida cinese, riunisce il fior fiore dell’oligarchia tiranneggiante centroasiatica, una riedizione su scala ridotta del Patto di Varsavia sotto le mentite spoglie della cooperazione internazionale e dell’anti-terrorismo.

Spesso anche ai teorici della minaccia cinese sfugge la dimensione globale ed eminentemente politica della stessa. Limitandosi a valutare i fattori della crescita economica o della spesa militare e a misurare in base ad essi il grado di pericolosità della Cina, perdono di vista l’elemento decisivo: in sé la crescita del potere di una nazione non significa nulla se non si tiene conto di chi esercita quel potere, in che modo e con quali obiettivi. Se la Cina preoccupa non è perché modernizza il suo esercito o investe in Africa ma perché le sue forze armate sono comandate da un gruppo di leader illegittimi che non hanno esitato ad usarle per massacrare il loro stesso popolo quando l’hanno ritenuto opportuno, che non devono rendere conto delle proprie decisioni ad un’opinione pubblica, che governano uno Stato di polizia fondato sull’intimidazione e la violenza, che usano il nazionalismo come una bomba ad orologeria per garantirsi la sopravvivenza e mandare avvertimenti ai vicini, che dichiarano di non possedere intenzioni egemoniche ma di fatto le esercitano, che praticano una diplomazia anti-democratica in grado di ostacolare qualsiasi iniziativa umanitaria diretta contro i loro protegés, «soffocando sul nascere i fattori che favoriscono lo sviluppo, i diritti civili, la democrazia»3. Se il Partito comunista cinese tesse le sue relazioni con despoti e criminali politici è perché parla il loro stesso linguaggio. Ecco allora che l’interesse per la diffusione della democrazia e dei diritti non è un segnale di inguaribile idealismo ma piuttosto una questione di politica pratica, di fatto la più sostenibile forma di realismo. Parlare di contenimento senza democratizzazione è come parlare di sviluppo senza libertà: una contraddizione in termini, un inganno che la storia si incarica di smascherare.

Prosperità e integrazione da sole non bastano. Si diceva che il mondo avrebbe cambiato la Cina, ma sembra che oggi sia la Cina ad imporre la propria Weltanschauung ad una parte consistente del mondo. I partigiani dello status quo avvertono che una Cina forte è in ogni caso più sicura di una Cina debole e in disintegrazione, ma è veramente questa l’alternativa? Perché, invece di accettare compromessi con un regime ossessionato dai suoi fantasmi, non lavorare affinché anche il muro di Pechino cada, una società civile si consolidi e la prospettiva di una transizione democratica prenda corpo? è così utopico adoperarsi in modo da far coincidere l’interesse nazionale cinese con la promozione della democrazia e dei diritti umani invece che con la loro soppressione? Conviene pensarci perché a puntare sulle buone intenzioni dei tiranni la storia insegna che si perde sempre. Nixon aveva torto.

 

Note
1.       Anno di approvazione da parte del Congresso di una legge che ha vietato questo genere di attività nei confronti di quegli Stati che non accettavano di esentare i cittadini americani dalla giurisdizione del Tribunale Penale Internazionale.
2.       Il generale dell’Esercito di Liberazione Popolare, Liu Yazhou, fervente nazionalista noto per le sue posizioni antiamericane, è considerato il principale ideologo della politica pro-islamista del governo cinese.
3.       Nelle parole di Nunziante Mastrolia, ricercatore del Centro Militare di Studi Strategici, intervistato da Elisa Borghi su L’Opinione (1° settembre 2006).



Enzo Reale, corrispondente da Barcellona per Ideazione.

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