Il pregiudizio anti-tedesco
di Federico Niglia
Ideazione di novembre-dicembre 2006

Chiunque si accinga a investigare le dinamiche dei rapporti italo-tedeschi si imbatte con inconsueta facilità in una serie di pregiudizi che condizionano e limitano la reciproca comprensione e la capacità di giudizio. Non che questo sia indice di una interazione particolarmente patologica: l’assenza di pregiudizi esiste solo nei confronti di quelle culture e di quelle nazioni ritenute così lontane che venire a contatto con esse si ritiene non significativo. Guardando però al reciproco atteggiarsi di italiani e tedeschi sembra che vi sia qualche cosa di più del normale bagaglio di pregiudizi.

A voler partire da un episodio marginale, si potrebbero prendere in considerazione le recriminazioni sorte tra commentatori italiani e tedeschi nell’ultimo campionato del mondo di calcio. I protagonisti di così modesta querelle, infatti, si sono confrontati, più che sul concreto della vicenda, sfidandosi a colpi di stereotipi che hanno mostrato come tra Italia e Germania le ruggini siano tali e tante da giustificare una investigazione sulla loro origine.

Se l’esistenza di un reciproco pregiudizio appare evidente anche all’osservatore meno esperto, la comprensione delle ragioni richiede forse un maggiore sforzo di analisi. Lasciando da parte i sentimenti di parte germanica e concentrandosi sugli italici, si osserva come sia prassi inveterata, ed invero semplificatoria, quella di far risalire la cesura tra Italia e Germania al biennio 1943-1945, quando l’occupazione tedesca dell’Italia, con i lutti e le distruzioni che ne derivarono, avrebbe definitivamente troncato il legame tra due delle maggiori civiltà europee. Nulla da obiettare, soprattutto per quanto concerne la legittima reazione di coloro che sono stati toccati da quell’esperienza. Ciò detto, non si ritiene utile inquadrare il discorso sul pregiudizio antigermanico esistente in Italia come mera reazione a quei fatti storici, bensì come un processo di più ampio respiro che ha interessato diverse fasi della storia d’Italia e al quale non sono rimasti estranei progetti culturali che, alimentando il pregiudizio antigermanico, hanno cercato di perseguire un chiaro disegno di legittimazione politica ed egemonia culturale.

Contro l’imperialismo: dalla crisi dello Stato liberale al fascismo
L’idea di far risalire la storia dell’antigermanesimo italiano alla seconda metà del Diciannovesimo secolo non scaturisce dalla perversione filologica che accomuna storici ed aspiranti tali, inducendoli ad una forsennata ricerca dell’origine delle cose. L’ultimo trentennio dell’Ottocento rappresenta infatti il momento in cui la nazione tedesca, da Vestfalia ridotta a mera potenza culturale e morale, assurge a potenza politica e si pone come soggetto dominante dell’equilibrio europeo. Quantunque la trama diplomatica tessuta sapientemente da Bismarck apparisse come il dato più evidente di questa pulsione, il disegno culturale promanante dal mondo germanico era in realtà il vero instrumentum regni attraverso cui si realizzava l’egemonia continentale.

Lungi dal limitarsi alla caricaturale ricezione del bismarckismo operata da Francesco Crispi, l’influsso della cultura germanica fu tale da penetrare i gangli profondi dell’italico pensiero: l’hegelismo come dottrina condizionò la visione di grandi menti e traccia se ne può ritrovare rileggendo la Storia della letteratura italiana di De Sanctis o la filosofia di Spaventa. Tracce profonde, che avrebbero permesso alle scienze sociali italiane di crescere e toccare alcuni picchi, raggiunti a cavallo tra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo dalle riflessioni di Giovanni Gentile e Benedetto Croce. L’assimilazione della cultura tedesca non fu però un processo condiviso e a tutti accetto: quantunque si riconoscessero ad essa una serie di meriti, la sua affermazione veniva sovente vista come l’imporsi del dominante sul soccombente. Più precisamente, in molte menti illuminate la cultura tedesca era vista come l’espressione di una società tendenzialmente autoritaria in cui lo Stato assurgeva a protettore morale e materiale del popolo. Di fronte all’autoritarismo prussiano trasfuso nel Reich prima bismarckiano e poi guglielmino doveva dunque levarsi la critica di parte del mondo liberale italiano. Francesco Ferrara, grande economista liberale tanto amato da Federico Caffè, lesse nell’autoritarismo prussiano il risultato della sostituzione dello Stato al privato, la quale non solo recava nocumento al buon funzionamento del sistema economico, ma pregiudicava anche le libertà civili e politiche dei singoli. La critica non doveva però limitarsi agli strali contro il “germanesimo economico”, investendo financo l’essenza di quella nazione: rispolverando la vecchia dicotomia tra barbari e popoli civilizzati, Pasquale Villari si fece addirittura interprete di una contrapposizione tra cultura germanica e cultura latina che sarebbe poi stata ripresa nei decenni del nuovo secolo.

Queste istanze critiche avrebbero costituito il retroterra ideale sul quale si sarebbe innestato un ben più vasto movimento che avrebbe preso corpo con il nuovo secolo. La cosiddetta “generazione del Settanta”, quella di Guglielmo Ferrero e di altri valenti intellettuali, avrebbe accolto le critiche dei pensatori liberali e le avrebbe fuse con le istanze politiche di opposizione agli Imperi Centrali. Formatisi alla scuola del Bonghi e della Nuova Antologia, questi nuovi uomini sentivano il bisogno di superare il torpore in cui gli anni di Crispi e gli obblighi della Triplice Alleanza avevano annegato le istanze nazionali del primo Risorgimento. Dopo che la sconfitta di Adua aveva ricondotto l’attenzione sulla priorità del compimento dell’unità nazionale, gli animi dovevano rivolgersi contro la decadente Duplice Monarchia, indisposta verso qualsiasi soluzione negoziata avente ad oggetto le terre irredente. In questa contrapposizione la Germania non aveva parte attiva, ed erano anzi noti i tentativi di Berlino per indurre Vienna ad un ammorbidimento. La sordità austriaca doveva però portare, infine, a pregiudicare anche il rapporto tra Italia e Germania e, sebbene il peso e l’autorità di quel mondo fossero in Italia ancora elevati, il vincolo di ferro con cui Bismarck aveva legato il suo paese alla decadenza asburgica doveva far sì che le accuse puntute della propaganda interventista finissero per investire anche il vecchio alleato.

Le ragioni della guerra finirono per condurre alla rottura definitiva. Grave era stata l’incertezza: sebbene il Patto di Londra obbligasse l’Italia ad entrare in guerra immediatamente contro tutti i nemici dell’Intesa, questa si limitò ad avviare le ostilità contro l’Austria-Ungheria. La dichiarazione di guerra alla Germania veniva bollata da gran parte del ceto politico e culturale come una “temerità”, un atto di ardimento contro un nemico che come tale non era da tutti percepito. Alla fine però gli obblighi derivanti dalle alleanze costrinsero il governo italiano a dichiarare guerra, ad oltre un anno di distanza dalla dichiarazione di guerra alla Duplice Monarchia, all’Impero tedesco. Fu quello il momento in cui si realizzava la vera frattura tra Italia e Germania, una frattura che i traumi della seconda guerra mondiale avrebbero solo contribuito ad ampliare. Con l’impegno ad intervenire contro la Germania, l’Italia si schierava definitivamente a fianco di quelle potenze che avevano deciso di reagire alla sfida egemonica lanciata quarant’anni prima dalla Germania all’Europa. Accettando di incorporare al suo interno una parte di quel mondo tedesco che i vincitori si accingevano a smembrare alla conferenza della pace di Parigi, l’Italia si condannava, insieme alla Francia, all’eterna prevenzione di un revanchismo tedesco la cui affermazione avrebbe arrecato un colpo mortale a quell’Europa che dalla carcassa della vecchia Germania aveva tratto ricco nutrimento.

Le ferite della guerra e il pregiudizio culturale marxista
Tenendo presente questo dato, si comprende in quale errore incorra chi afferma che durante il fascismo si ebbe una pianificata opera di riavvicinamento alla Germania. Formatosi ed affermatosi nella concitata fase dell’intervento, Mussolini rappresentava null’altro che la continuazione di questa politica di contenimento del revanchismo tedesco, una politica che, come noto, portò avanti con decisione fino ai primi anni Trenta. Sarebbero state le mancate concessioni all’imperialismo italiano da parte di Francia e Gran Bretagna a indurre il Duce ad accogliere le avances provenienti da Berlino. Non atto d’amore, ma manovra tattica errata fu quella che si concretizzò nel patto d’acciaio, e chi vuole può trovare conferma a questa affermazione nelle corrispondenze del Duce e nelle altre fonti della storia di quel periodo.

Gli eventi dell’estate 1943, tranciando di netto l’alleanza scellerata, dimostrarono, agli occhi dei più, che i pregiudizi che da decenni ormai si tramandavano sui tedeschi altro non erano che pura verità. Le varie anime dell’antigermanesimo riemergevano dalle varie ere del passato e si fondevano in un unico giudizio di condanna.

Reazione naturale, quella di un popolo che subiva un’occupazione bellica aggravata dalle nefandezze e dagli atti efferati. Come comprensibile, la ferita che si era aperta nel biennio 1943-1945 doveva richiedere molto tempo per rimarginarsi: troppo viva la memoria delle stragi di civili, delle deportazioni e delle grandi e piccole vessazioni di cui era stata fatta oggetto la popolazione italiana. A ben guardare, però, l’atteggiamento con cui l’Italia si è accinta a guardare alla Germania nel secondo dopoguerra non è stato condizionato solamente dalla naturale persistenza dei traumi della seconda guerra mondiale. Osservando il modo in cui l’Italia repubblicana si è rapportata con la Germania si scorge la presenza di un giudizio fortemente stereotipato, che non si limitava alla legittima condanna del regime nazista, ma estendeva la sua critica anche a quella Germania democratica sorta dalle ceneri della guerra nelle zone di occupazione occidentali del territorio del Reich. Lungi dall’essere il risultato di una mera estensione induttiva del giudizio sulla vecchia Germania, l’antigermanesimo che si sviluppò nella seconda metà del Ventesimo secolo in Italia rappresentò l’attuazione pratica di un disegno portato avanti dalla cultura dominante del Belpaese, disegno che si dispiegò nella sua massima virulenza a partire dai primi anni Sessanta.

In quel periodo, la stagnazione risultante dall’esaurimento dell’epopea della presunta guerra di liberazione doveva indurre la cultura dominante di matrice azionista e marxista a ricercare nuove fonti di legittimazione. Queste furono trovate in una anacronistica riproposizione dei valori resistenziali, di una resistenza che non si indirizzava più contro un nemico concreto, bensì contro tutte quelle istanze antidemocratiche che minacciavano il mito di società progressiva in quegli anni propugnato1. Tale vigilanza democratica si dispiegava anche al di fuori dei confini nazionali ed investiva anche le altre società occidentali in cui la degenerazione del capitalismo di matrice borghese portava all’insorgenza di pulsioni autoritarie. La Germania di Bonn, per la spiccata inclinazione allo sviluppo capitalistico nonché per il rigido orientamento atlantico, era destinata a divenire il bersaglio ideale dei novelli dioscuri della democrazia.

Paese forte ed opulento, la Germania di Bonn veniva accusata principalmente di non aver saputo operare quella rigenerazione democratica che altri paesi, come l’Italia del nascente centrosinistra, avevano messo e mettevano in pratica. La mancata depurazione dell’animo tedesco, tarlato da un autoritarismo latente che aveva assunto nel passato forme diverse – militarismo prussiano, imperialismo guglielmino, totalitarismo hitleriano – portava quella società a patire anche nel momento presente quella malia, rappresentata dall’autoritarismo di Stato della Bundesrepublik di Adenauer e dei suoi epigoni. Dagli anni Sessanta, anche per creare un valido argine alla politica filotedesca che i governi democristiani portavano avanti, queste idee furono propagandate e trasfuse dall’alta alla media e bassa cultura italiana con una scientificità che tutt’oggi crea stupore. Se la comunità si saziava delle riflessioni che in materia sviluppavano i grandi intellettuali marxisti – si pensi alle pagine dedicate all’argomento da Ernesto Ragionieri – per la cosiddetta media cultura, anche non comunista, efficaci risultavano gli articoli che sulla Stampa pubblicavano Luigi Salvatorelli o Vittorio Gorresio. Per la diffusione delle istanze antigermaniche a livello di massa soccorrevano poi altri strumenti di comunicazione, quali ad esempio il cinema che con un florilegio di pellicole di argomento “resistenziale” proiettava ad infinitum l’immagine dal tedesco in uniforme delle ss, del carnefice, del nuovo barbaro.

Fu un’azione martellante, che durò fin quando l’ininterrotta riaffermazione di miti ormai privi di ogni carica vitale non risultò insopportabile per i suoi stessi esegeti. Gli anni Ottanta e il riflusso che li caratterizzò videro il venir meno di questo progetto culturale e un’attenuazione degli strali antigermanici. Ma tale era stata l’ampiezza di quell’offensiva culturale, e così prolungata la sua azione, che ne era risultata l’affermazione, nella quasi totalità dell’opinione pubblica italiana, di una immagine così mistificante che un riavvicinamento tra la percezione che gli italiani avevano della Germania e la realtà di quel paese appariva nel breve periodo impossibile.

La Germania della riunificazione: il nuovo corso
Si giunse così al fatidico momento della riunificazione tedesca con un’Italia che guardava a questo processo epocale senza comprenderne le dinamiche di fondo. I vecchi strali contro l’autoritarismo e l’irregimentazione dei tedeschi erano venuti meno, ma ad essi si era sostituita la malcelata invidia per un paese che, per potenza economica e politica, tornava a svolgere un ruolo chiave per i destini del continente. I timori per un nuovo asse franco-tedesco, quello sancito nell’intesa tra Schröder e Chirac, per il rigorismo tutto tedesco con cui le autorità monetarie europee di Francoforte si accanivano contro le incertezze italiane, tutto questo indicava come negli italiani permanesse la tendenza a impostare il proprio atteggiamento verso la Germania più sui luoghi comuni che sulla effettiva aspirazione alla comprensione ed all’intesa.

Guardando al panorama di questi tempi non sembra, purtroppo, che gli italiani abbiano accresciuto la loro voglia di Germania. Non che manchino i segnali positivi: si prenda ad esempio il recente volume di Beda Romano, una pregevole presentazione delle sfide e delle contraddizioni della Germania contemporanea2. Il limite però permane nel pregiudizio misto a disinteresse che ancora si registra negli italiani e che stride se confrontato con l’interesse con cui sempre più tedeschi guardano all’Italia. La consapevolezza di non vivere più in tempi di grandi disegni culturali, se da una parte ci fa sentire sollevati, dall’altra ci rende coscienti del fatto che non possiamo aspettarci nessuna iniziativa in grande stile che rimedi alle nefandezze antigermaniche dei passati decenni. Possiamo limitarci a confidare, più che nella forza riparatrice che forse esiste nella storia, nell’opera di uomini che hanno più a cuore la reale conoscenza che la conservazione del potere attraverso la cultura.

 

Note
1.       Si veda a tal proposito il recente contributo di Giovanni Orsina, “Quando l’Antifascismo sconfisse l’antifascismo. Interpretazioni della Resistenza nell’alta cultura antifascista italiana, 1955-1965”, in P. Craveri-G. Quagliariello (a cura di), La seconda guerra mondiale e la sua memoria, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006.
2.       B. Romano, Germania questa sconosciuta. Storia e storie di un grande Paese che cambia, Longanesi, Milano, 2006.



Federico Niglia, dottorando di ricerca in Storia dell’Europa all’Università La Sapienza di Roma.

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