La rinascita del paese dimenticato
di Domenico Naso
Ideazione di novembre-dicembre 2006

Se non fossimo nel Ventunesimo secolo, dotati di mappe geografiche dettagliate e sistemi satellitari precisi al millimetro verrebbe da chiedersi che fine ha fatto l’Albania. La questione è meno assurda di quanto possa apparire, perché i nostri dirimpettai dell’Adriatico sono scomparsi da tempo dalle pagine dei giornali e dai tg televisivi. Eppure c’è stato un periodo in cui le vicende di Tirana “andavano di moda”, in cui i barconi stracolmi di disperati aprivano l’edizione della sera dei telegiornali, ispiravano film di successo, occupavano le discussioni delle persone comuni per strada, in casa, al lavoro. L’agenda dei mass media, tuttavia, è notoriamente volubile e ben presto, e forse giustamente, l’Albania è stata sostituita dall’Afghanistan, dai problemi del terrorismo internazionale, dall’Iraq. La politica internazionale storicamente coinvolge ben poco gli italiani. Ne consegue, dunque, che i nostri mezzi di comunicazione di massa abbiano preferito riservare il già esiguo spazio agli avvenimenti di più stretta e drammatica attualità. Resta il fatto, però, che poco o nulla sappiamo della situazione politica ed economica albanese degli ultimi anni. E, cosa ancora più grave, la maggioranza degli italiani ignora completamente l’apporto che l’Italia ha dato e sta dando allo sviluppo dell’ex feudo oscurantista di Enver Hoxha. È quello che tenteremo di fare in questo breve excursus, cominciando dall’evoluzione recente della vita politica albanese.

Nel 2000 Sali Berisha, ex presidente della Repubblica albanese, era stato addirittura arrestato dalla polizia, in seguito agli scontri cruenti nella cittadina di Tropoja, che avevano provocato cinque vittime. Era la fase più calda ed esplosiva del confronto politico locale. I socialisti erano sotto accusa, Berisha li incalzava avanzando poco velate accuse di brogli elettorali. Quello stesso Berisha che qualche anno prima era stato al centro dello scandalo delle finanziarie, che avevano mandato sul lastrico centinaia di migliaia di albanesi.

Nel 1998 lo stesso Berisha aveva rilasciato un’intervista a Stefano Mensurati per Ideazione,1 tentando di fare autocritica e di comprendere politicamente e socialmente le ragioni di quella débâcle socio-economica che per molto tempo aveva provocato disordini e rivolte e aveva permesso ai socialcomunisti di Fatos Nano di tornare al governo. Berisha si rimproverava: «L’aver sottovalutato le conseguenze alle quali ci avrebbe condotto lo schema delle società piramidali è stato un errore imperdonabile, non posso negarlo. Ma quando ci siamo resi conto del pericolo e abbiamo cercato di fermare la truffa era troppo tardi: a quel punto è stata la stessa gente a rivoltarsi, perché temeva che con la chiusura delle finanziarie avrebbe perso tutti i suoi risparmi. In soli tre mesi, mentre noi pensavamo preoccupati come arrestare la corsa all’investimento facile, il patrimonio delle finanziarie è sestuplicato. Eppure, fino al ’96 nessuno, dico nessuno, aveva paventato il rischio cui andavamo incontro. Ciò premesso, va però ricordato cosa è successo dopo. È proprio sulla crisi delle finanziarie che si è innestata la spirale di violenza, scatenata dagli agit-prop comunisti per la conquista del potere. Mentre le bande mafiose davano l’assalto alle caserme e alle carceri, gli ex agenti della Sigurimi – la polizia segreta di Enver Hoxha – diffondevano la voce, in Albania e all’estero, che il Partito democratico aveva costruito le società piramidali e si era arricchito rubando milioni di dollari agli ignari investitori».

Ma l’ex presidente albanese già allora dimostrava fattivamente l’estraneità del suo partito alla vicenda: «A un anno di distanza, la Commissione parlamentare d’inchiesta ha invece riconosciuto la nostra totale estraneità, ma questa è soltanto metà della verità. Perché il 97 per cento di quelli che hanno partecipato alla costruzione e al funzionamento delle società piramidali, dai semplici cassieri ai presidenti, erano o membri della nomenklatura comunista, o agenti della Sigurimi o esponenti della malavita locale. Tutti personaggi che dopo le elezioni sono divenuti alti dignitari di corte: ministri, capi dei servizi segreti, ambasciatori. Il ministro delle Finanze, Arben Malaj, è stato il principale consigliere di tre di quelle società, intascando per le sue “consulenze” oltre mezzo milione di dollari. A metà aprile la commissione d’inchiesta ha presentato al premier Nano un dossier coi nomi dei responsabili: la lista comprende 180 esponenti della sua banda. La triste verità è che l’Albania è diventata il paradiso della mafia regionale. Si è più volte parlato di fuga di capitali. Perché nessuno indaga sui milioni di dollari portati in Grecia dai capi dell’attuale regime?».

Era un Berisha finito politicamente, dunque. Ma il tempo, si sa, è galantuomo e oggi Sali Berisha è tornato alla ribalta, vincendo le elezioni generali del 3 luglio 2005 e diventando primo ministro. I socialisti che allora stravincevano e occupavano tutti i posti di potere oggi sono in piena crisi, travolti da corruzione e malgoverno. Gli albanesi, fortunatamente, hanno smesso da un po’ di risolvere i loro problemi politici in piazza e oggi Berisha può governare con relativa tranquillità, pur in una situazione non certo ottimale. La maggioranza di centrodestra è piuttosto salda (81 seggi su 140) ma non è comunque sufficiente per evitare un ingorgo istituzionale quando, nel 2007, serviranno 84 voti per eleggere il nuovo presidente della Repubblica e scongiurare le elezioni anticipate. Ma la politica albanese non è convenzionale. Nei mesi scorsi le sedute del Parlamento erano costantemente controllate da un gruppo speciale di polizia, per prevenire le sempre più frequenti scazzottate tra i deputati di Tirana. È la normale e ovvia conseguenza di un clima politico sicuramente meno teso rispetto a qualche anno fa ma comunque problematico e ricco di incognite. La nuova crisi politica albanese, che vede opporsi il redivivo Partito socialista e il Partito democratico di Sali Berisha, ha origini solo apparentemente futili. Tutto è iniziato il 22 febbraio scorso, quando in Parlamento si votava la mozione di sfiducia nei confronti del presidente del parlamento di Tirana, la democratica Jozefina Topalli. I socialisti, certi di un anonimo appoggio dai banchi della maggioranza, avevano chiesto il voto segreto, sperando di incoraggiare i dissidenti interni al partito di governo. Il rifiuto fermo e deciso di Berisha e il ricorso al tradizionale voto elettronico hanno esasperato gli animi, provocando la protesta plateale e violenta dei socialisti. Cinque giorni dopo i deputati si sono affrontati fisicamente in aula e solo l’intervento della polizia, chiamata dai dirigenti del Partito democratico, ha evitato il peggio.

I socialisti, dunque, sembrano essersi ricompattati dopo le divisioni delle ultime elezioni generali. Il problema è che la sinistra albanese continua ad usare metodi non propriamente democratici per rovesciare il governo di Berisha. L’Albania di oggi, non è quella della fine degli anni Novanta. Il contraccolpo del ritorno alla democrazia dopo l’asfissiante dittatura comunista è ormai assorbito pressoché completamente. E l’eco degli scandali delle finanziarie è ben più lontana di quella dei numerosi episodi di corruzione che hanno coinvolto gli esponenti del partito di Edi Rama (sindaco di Tirana).

Il partito socialista, stavolta, sembra non essere in grado di mobilitare nuovamente la piazza, provocando violenze e scontri come successe alla fine dello scorso decennio. La carta che rimane ai socialisti è praticamente l’unica ammessa in democrazia: l’arma politica. Solo attraverso una opposizione legale possono sperare di evidenziare le contraddizioni (ove ci fossero) all’interno della coalizione di centrodestra. Nel caso in cui decidessero di creare nuove e sanguinose divisioni all’interno della società albanese se ne assumerebbero per intero la responsabilità. La stabilità politica è un requisito imprescindibile affinché l’Albania possa finalmente chiudere la lunga e tormentata fase di transizione. Da troppi anni la contrapposizione tra sinistra e centrodestra è caratterizzata da livore, odio e scontri di piazza. E chi ne ha pagato le conseguenze (tragiche) è stato il popolo albanese.

La lunga transizione verso l’economia di mercato
L’Albania è la nazione più povera d’Europa. Questa è la frase che sentiamo più spesso quando si parla del quadro economico albanese. Ebbene, forse è vero ma sarebbe sbagliato non tener conto delle situazioni di partenza e dei progressi fatti dal 1991, da quando, cioè, Tirana è tornata ad essere la capitale di uno Stato libero, ponendo fine all’asfissiante dittatura comunista. Ancora oggi, a quindici anni di distanza, la transizione verso un’economia di mercato non può dirsi del tutto conclusa, nonostante alcuni innegabili passi in avanti che soprattutto negli ultimi tempi fanno ben sperare.

La claudicante economia albanese non ha potuto compiere la sua parabola ascendente a causa di numerosi momenti di tensione sociale e politica che più volte hanno portato il paese balcanico sull’orlo di una vera e propria guerra civile. Prima lo scandalo delle finanziarie nel 1997, poi le accuse di corruzione a politici socialisti e infine una preoccupante crisi energetica nell’inverno dello scorso anno. Questi sono stati gli ostacoli principali alle trasformazioni economiche albanesi, insieme ad una ormai tradizionale instabilità politica, provocata da due partiti contrapposti (quello socialista e quello democratico) che tentano incessantemente di delegittimarsi a vicenda, accusando l’avversario di brogli elettorali e gettando fosche ombre di corruzione e clientelismi.

Vale la pena, però, cercare di ripercorrere la situazione economica albanese negli ultimi cinque anni, attraverso alcune considerazioni sui dati macroeconomici che abbiamo a nostra disposizione. Iniziamo dal dato che più di ogni altro è considerato la cartina al tornasole dello sviluppo economico di una nazione: la crescita annua del pil2.

Nel 2000 il Prodotto interno lordo albanese era cresciuto del 6,5 per cento, dato rafforzato da quello dell’anno successivo (7,1 per cento). Nel 2002 ci troviamo di fronte, invece, a una brusca frenata, con una crescita ferma al +4,3 per cento. Nel biennio successivo si affaccia una costante risalita (5,7 per cento nel 2003 e 6,7 per cento nel 2004) fino al 5,5 per cento del 2005, annus horribilis per l’Albania soprattutto a causa della crisi energetica che ha colpito lo Stato balcanico. Il Prodotto interno lordo pro capite, inoltre, è passato dai 1.456 dollari del 2002 ai 2.672 del 2005, con un balzo in avanti, in soli tre anni, quasi del 100 per cento.

I dati relativi al pil, la cui crescita è ormai abbastanza costante, ci mostrano una economia viva, finalmente alla ricerca di una crescita attesa per troppo tempo. Industria e costruzioni sono i settori trainanti di questo momento positivo per l’economia albanese. È particolarmente significativo il dato del 2004 relativo a questi settori: il comparto industriale è cresciuto del 16,7 per cento mentre le costruzioni hanno visto un’impennata del 15,5 per cento. Queste ultime, tuttavia, sono in calo rispetto agli standard dell’anno precedente. Ciò è dovuto alla battuta d’arresto in termini di nuove concessioni edilizie nelle maggiori città, soprattutto a Tirana dopo l’entrata in vigore del nuovo piano regolatore e la ristrutturazione delle strade principali.

Un altro indicatore particolarmente importante, e che ci dà il senso pieno dello sviluppo (seppure ancora instabile) albanese è quello relativo alla disoccupazione. In questo senso i nostri grafici ci mostrano due dati: quello relativo al numero di disoccupati e il tasso di disoccupazione dal 2000 al 2004.

Si va dai 215.085 disoccupati del 2000 ai 157.008 del 2004, passando per i 180.513 del 2001, i 172.385 del 2002 e i 163.030 del 2003. Una diminuzione costante e assolutamente sorprendente, con un consequenziale calo del tasso di disoccupazione dal 16,8 per cento del 2000 al 14,4 per cento del 2004. Alla fine del 2004 i lavoratori occupati erano 922.000 su una forza lavoro complessiva di 1.073.000 persone.

Il 14,4 per cento di disoccupazione è un dato sicuramente non basso in valore assoluto, ma considerando le situazioni di partenza e le condizioni economiche albanesi è innegabile che siamo di fronte ad uno sviluppo economico che non coinvolge solo le grandi imprese o gli investitori internazionali ma anche la gente comune che finalmente potrebbe essere incentivata, grazie all’aumento di opportunità occupazionali, a rimanere in Albania interrompendo un flusso migratorio verso l’esterno che dal 1991 è costantemente elevato.

Il nuovo governo di centrodestra guidato da Sali Berisha, dunque, ha la possibilità di attuare un programma economico liberista per sfruttare appieno questa congiuntura favorevole. Solo attraverso provvedimenti coraggiosi e un po’ spregiudicati si può cavalcare l’onda della crescita, in modo tale da stabilizzarla e farla durare negli anni a venire. Anche per smentire l’usuale e nota frase «L’Albania è la nazione più povera d’Europa».

Italia e Albania, l’attrazione fatale
115 aziende italiane, 193 aziende albanesi a capitale italiano, 23 ong e onlus soprattutto dedicate alla formazione e ai servizi sanitari, 7 uffici di rappresentanza regionale. Questi i numeri importanti della presenza italiana in Albania3. Il rapporto economico tra queste due sponde dell’Adriatico è solido e fondamentale. Tirana dipende fortemente dall’Italia e il nostro paese non può fare a meno del pur piccolo mercato albanese. Oltre la metà delle nostre aziende presenti sul territorio albanese sono attive dall’inizio degli anni Novanta, quando il crollo del regime comunista offrì all’Italia un vicino e comodo mercato “vergine” nel quale espandere le proprie industrie.

Alla fine del decennio, tuttavia, si è avuto un netto calo nella presenza italiana: solo le imprese che avevano competenze reali e spiccate capacità imprenditoriali, infatti, sono riuscite a resistere in un mercato sempre più competitivo e vitale come quello balcanico.

Le imprese italiane in Albania rappresentano la presenza nazionale più consistente in assoluto. Alla base di questa massiccia presenza italiana c’è il buon clima politico tra i due paesi, la scarsa concorrenza locale e internazionale e il basso costo del lavoro. Tra i più importanti gruppi italiani figurano Divella nel settore alimentare, Casa Isnardo, Acciaierie Venete nel settore edile, Gruppo Enel Power ed Essegei nel settore energetico, Darfo e Petrolifera Italo-Rumena nell’estrazione e stoccaggio dei minerali, Italstrade e Italcementi nelle infrastrutture. Le imprese italiane presenti sul territorio albanese sono prevalentemente aziende di trasformazione, divise tra imprese a capitale interamente italiano e italo-albanese (joint ventures), con una presenza che supera il 75 per cento. La maggior parte sono pmi nei settori delle costruzioni (35 per cento), del tessile e delle calzature (21 per cento), del commercio e dei servizi (16 per cento), dell’industria agro-alimentare (8 per cento). Geograficamente, invece, le aziende italiane sono distribuite maggiormente nella zona di Tirana, Durazzo e Kavaja (75 per cento), seguono Valona e il Sud del paese (15 per cento) e Scutari e la zona settentrionale (poco più del 5 per cento).

Ma la presenza italiana non è solo economica. Numerosi sono gli istituti scolastici italiani (soprattutto cattolici) che operano nel territorio albanese. Salesiani, rogazionisti, gesuiti, suore domenicane: molti degli ordini religiosi più importanti sono impegnati in un territorio difficile per ovvie ragioni sociali ed economiche ma anche e soprattutto religiose, visto che la stragrande maggioranza degli albanesi è di fede musulmana.

I rapporti italo-albanesi, dunque, sembrano ancora piuttosto solidi. Il problema principale è quello di trasformarli, finalmente, in qualcosa di costruttivo per lo sviluppo albanese e non limitarli solo a furbe (seppur lecite) operazioni industriali atte a produrre dove il mercato del lavoro è molto meno caro rispetto al nostro. Piuttosto è importante costruire, sulla base dei rapporti decennali tra i due paesi, un piano di collaborazione economica e industriale solido e a lungo termine. L’Albania conta molto sull’Italia, soprattutto in ambito economico. È ora, da parte nostra, di dimostrare che la fiducia è ben riposta.


 

Note
1.       Ideazione, maggio-giugno 1998, “Italia, attenta: l’Albania è alla deriva”, pp. 26-32.  2.       I grafici relativi alla crescita del pil, al numero dei disoccupati e al tasso di disoccupazione sono stati realizzati rielaborando dati dell’instat (Istituto nazionale albanese di Statistica) – www.instat.gov.al.

3.       Istituto per il Commercio con l’Estero – Presenza italiana in Albania : www.ice.gov.it/estero2/tirana/.

 

Domenico Naso, giornalista.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuilleton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006