Grosse Koalition e grossa delusione
di Pierluigi Mennitti
Ideazione di novembre-dicembre 2006

Nel dibattito pubblico italiano la Grosse Koalition che da un anno governa le sorti della Germania gode ancora di vasto credito. Politici e opinionisti la indicano come esempio virtuoso rispetto all’incerta guida del centrosinistra in Italia e auspicano, anche da noi, una soluzione di compromesso tra le principali forze politiche del paese per affrontare con maggiore coerenza le sfide riformiste del momento. È come se la magia azzurra della notte mondiale di Berlino si fosse estesa sino a zuccherare ogni aspetto della vita tedesca, politica compresa. Invece, ormai da mesi, l’esperienza della Grosse Koalition – l’alleanza costituita dai due maggiori partiti del sistema tedesco, la cristiano-democratica cdu e la socialdemocratica spd – vive una seria crisi di progetto, di azione, di risultati. Una crisi che sta corrodendo innanzitutto la leadership del cancelliere Angela Merkel, appena pochi mesi fa nominata dalla rivista americana Forbes «donna più potente del pianeta». I tedeschi non ci potevano credere, ma è un fatto che la stella della lady di ferro tedesca continui a risplendere all’estero almeno tanto quanto appaia appannata in patria.

Colpa soprattutto della scarsa informazione sul mondo germanofono che circola in Europa e in America, in parte dovuta alla difficoltà di comprendere una lingua confinata alla passione di ristrette élites culturali e che è dovuta ripiegare dalle illusioni di espansione cullate dopo la caduta del Muro e la riunificazione, in parte legata alla persistenza di stereotipi (generalmente legati a concetti come ordine e disciplina) con i quali si continua pigramente a descrivere ogni aspetto della società tedesca. La politica, invece, è entrata ormai da diversi anni in una turbolenza continua e la Grosse Koalition di Angela Merkel sta scrivendo solo l’ennesimo capitolo del caotico romanzo della Berliner Republik. Da quando le istituzioni hanno abbandonato le tranquille sponde renane di Bonn per approdare su quelle più agitate della Sprea a Berlino, la politica tedesca sembra essere entrata in una lavatrice che strapazza sempre più vorticosamente leader e coalizioni, partiti e classi dirigenti, progetti e ambizioni. Nuovi partiti (i comunisti a sinistra, i neonazisti a destra) minano alle fondamenta il funzionamento ordinato ed efficiente del sistema politico federale; nuovi e più giovani politici accrescono il rimpianto per quelli delle generazioni precedenti confermando anche qui, nel cuore del continente, l’evidente scadimento della qualità politica delle classi dirigenti della Vecchia e della Nuova Europa: un problema, in Germania, in apparenza attutito dalla resistenza dei tradizionali partiti di massa.

Fine della luna di miele: crisi di leadership e difficoltà di governo
Fatto sta che nel momento in cui il paese vive una robusta ripresa economica, la Grosse Koalition che era partita di slancio portando a termine il nuovo impianto di Stato federale s’è impantanata in discussioni infinite sulla Gesundheitsreform, la riforma del sistema sanitario. A un dibattito pragmatico e costruttivo, si è sostituita una polemica infinita tra i ministri e i leader dei due partiti di maggioranza, tra la Merkel e i presidenti dei Länder del suo stesso partito: una sorta di guerra di tutti contro tutti, con gli elettori spettatori attoniti e spaventati. E sempre più delusi. La ripresa economica, dunque, tranquillizza le angosce degli imprenditori, di tanto in tanto anche quelle dei lavoratori: il tasso di disoccupazione che negli anni precedenti aveva raggiunto vette mai toccate nella storia della Germania post-bellica, ha cominciato a scendere, e qualche economista azzarda la previsione che si possa trattare di una tendenza lenta ma strutturale. Ma la politica disegna nuvole di incertezza che si riflettono su una società demograficamente anziana preoccupata di difendere le vecchie certezze più che di attrezzarsi per le rischiose sfide del futuro. Sulla progettualità prevale la tattica quotidiana, il bene comune è sacrificato alla convenienza personale dei singoli leader, nonostante il lavoro intenso e propositivo di Fondazioni che da sempre affiancano i partiti nella loro elaborazione politica. Osservando lo spettacolo del litigio sulla riforma sanitaria, viene da chiedersi di cosa abbiano parlato per due mesi gli sherpa della cdu e della spd quando, all’indomani delle elezioni, hanno stilato il lungo programma di governo. Una coalizione straordinaria sta producendo uno stallo straordinario, puntualmente registrato dalla disaffezione degli elettori nelle elezioni locali più recenti e negli ultimi sondaggi d’opinione.

Ne fanno le spese i due partiti maggiori ma soprattutto la cdu e Angela Merkel che hanno assunto la guida di questa strampalata avventura governativa. Ai cristiano-democratici si imputa la mancanza di compattezza e un’eccessiva litigiosità interna, alla cancelliera carenza di leadership e carisma. Sono lontani i tempi della luna di miele, quando la stampa tedesca salutava la nuova era politica lanciando in copertina la coppia di leader emergenti provenienti dall’Est, la rivincita della vecchia Prussia, come titolava con garbata ironia il settimanale Der Spiegel: per i conservatori Angela Merkel, la promettente ragazza nata sul Baltico, trasferitasi in fasce da Amburgo nella ddr, e dopo la caduta del Muro cresciuta politicamente sotto le ali protettive di Helmut Kohl; per i socialdemocratici Matthias Platzeck, proiettato alla guida della spd, presidente di un Land tanto vasto quanto gravido di problemi come il Brandeburgo, la piatta marca dell’Est simbolo delle speranze e delle delusioni della riunificazione. Da allora Platzeck s’è dimesso dalla guida del partito per problemi di salute, la Merkel si consuma in estenuanti tira e molla, e dall’Est giungono ormai problemi sempre più allarmanti, primo fra tutti il ritorno prepotente dell’estrema destra neonazista (npd) che conquista consensi e seggi nelle elezioni locali sfruttando la crisi combinata del sistema politico nazionale e dei neo-comunisti (die Linke), sino a ieri rappresentanti quasi esclusivi (e non meno preoccupanti) dei disagi e delle proteste dei cittadini orientali.

I numeri elettorali sono chiari. Nelle elezioni amministrative di metà settembre in Mecklenburgo e a Berlino, i partiti della Grosse Koalition hanno sostanzialmente perduto. In Mecklenburgo è crollata l’spd con una tenuta della cdu e dei neo-comunisti e con il successo da un lato dei liberali, dall’altro dei neonazisti che sono entrati nell’assemblea regionale replicando l’exploit di alcuni mesi fa in Sassonia: risultato, fine del governo spd-comunisti e nascita di una Grosse Koalition anche lì. A Berlino è crollata la cdu, scesa al livello più basso della sua storia elettorale berlinese, con la contemporanea picchiata dei neo-comunisti (presentatisi divisi al voto) che hanno ceduto tutte le loro roccaforti nella parte orientale della città all’spd. Una bella crescita l’hanno registrata anche i Verdi che hanno intercettato il voto della borghesia giovane e progressista. I socialdemocratici, qui, hanno vinto grazie anche all’effetto traino del sindaco Klaus Wowereit, stella nascente del firmamento socialdemocratico che ora vuol proiettarsi sullo scenario nazionale. Si parla di lui come possibile, futuro cancelliere. Senonché, come scrivevamo prima, anche la politica tedesca, come quella italiana e più in generale come quella europea, misura le proprie mosse sulle convenienze personali. E così Wowereit ha chiuso le porte del governo ai Verdi che hanno vinto per ritentare la strada della maggioranza “rossa-rossa” con i neo-comunisti che hanno perso, in nome dell’unità del paese a suo avviso diviso tra un voto occidentale rappresentato dall’spd e un voto orientale rappresentato dai neo-comunisti: è il marchio di fabbrica con il quale Wowereit vorrà tentare la scalata alla cancelleria.

La decisione sembra scontentare la maggioranza dei berlinesi, stando ai sondaggi, ma è stata battezzata come una “scelta intelligente” dall’attuale leader dell’spd Kurt Beck, non a caso un altro pretendente alla futura cancelleria che, forte della sua provenienza dal cuore della Germania occidentale (è il presidente del Land Renania-Palatinato) ritiene fuori gioco un candidato che voglia governare il paese con i neo-comunisti. Insomma, bizantinismi in puro stile latino, un linguaggio inedito per un paese abituato alla chiarezza delle posizioni e a una certa moralità della vita politica. Tanto più che questi bizantinismi contribuiscono ad accrescere l’atmosfera di incertezza e precarietà attorno al governo “rosso-nero”. Si parla apertamente di nuove coalizioni. Il centrodestra ha avviato un faticoso dialogo con i Verdi che difficilmente porterà a ipotesi di collaborazione in tempi brevi: ma intanto il sasso è stato lanciato. A sinistra i socialdemocratici corteggiano i liberali (che a loro volta stanno erodendo consenso ai conservatori) con la prospettiva di una maggioranza del semaforo, dai colori dei tre partiti che sarebbero coinvolti, il rosso dell’spd, il giallo dell’fdp e, ovviamente, il verde degli ecologisti. La passione dei tedeschi ad associare combinazioni di colori alle diverse formule governative scatena un divertente caleidoscopio di possibilità, un arcobaleno di opzioni che aggiunge caos a caos: dalla girandola della tavolozza giunge un brutto segnale per il governo in carica.

Il calo dei partiti storici e le contraddizioni della Germania riunificata
Dai voti ai sondaggi d’opinione, i risultati non cambiano. I più recenti, confezionati a metà ottobre dal prestigioso istituto demoscopico Allensbach e pubblicati dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung, registrano rispetto alle elezioni nazionali del 2005 un calo di otto punti per i due partiti maggiori, equamente diviso a metà: meno 4 per la cdu e meno 4 per l’spd. I due pilastri del bipolarismo tedesco, che hanno rappresentato l’impalcatura della rimpianta Repubblica di Bonn, si attestano entrambi attorno al 30 per cento. Crescono invece i partiti cosiddetti minori, rimasti esclusi dalla Grosse Koalition: i liberali spingono sul tasto della lotta alla burocrazia e toccano la sorprendente quota del 12 per cento; i Verdi strappano ai socialdemocratici le fasce del ceto medio borghese urbano, colto e benestante, e si piazzano all’11 per cento; perfino i neo-comunisti rosicchiano qualcosa a sinistra dell’spd e sono accreditati quasi del 10 per cento. Confusi nella indistinta voce degli “altri” si nascondono i neo-nazisti dell’ndp: ma questa voce si avvicina pericolosamente alla soglia nazionale del 5 per cento e sfonda ad Est raggiungendo il 9 per cento. Nei nuovi Länder, cioè nei territori natali di Angela Merkel, la cdu si riduce a terzo partito, dopo socialdemocratici e neo-comunisti.

Non servono altri numeri per dare la misura del terremoto politico in corso in questi mesi: la crisi dei due partiti maggiori proprio nel momento in cui falliscono la loro missione straordinaria di unirsi per portare il paese fuori dal cul de sac delle riforme bloccate e la contemporanea crescita di formazioni che sino a qualche anno fa faticavano a mantenersi al di sopra della soglia di sbarramento del 5 per cento, segnano di fatto l’inizio della crisi del sistema partitico tedesco. L’alternanza fra conservatori e socialdemocratici con i liberali come ago della bilancia è ormai storia consegnata ai libri della Repubblica di Bonn. Ma la novità registrata con il primo governo di sinistra rosso-verde è stato solo il primo punto di rottura. La riunificazione, l’irruzione dell’Est nelle statiche regole politiche della Germania capitalista, la frammentazione della società e di conseguenza degli interessi spingono il sistema a un’ulteriore e più grande riforma: quella della politica. Il problema si è già posto per quel che riguarda l’aspetto federalista, ma oggi le esigenze diventano più grandi. Anche per la Germania si tratta di far compiere al proprio sistema democratico un salto di qualità: se la prima repubblica tedesca è legata all’infausto periodo di Weimar e la seconda al miracolo economico di Bonn, è giunto il tempo di modellare la terza repubblica di Berlino sulle esigenze di un grande paese riunificato e articolato in più forze politiche. Se è lecito esprimere un’opinione personale, l’impressione è che l’attuale classe dirigente non sia preparata ad un compito di tal genere.

Il costo politico della riunificazione
I nodi della riunificazione, dunque, vengono al pettine. E mentre non sono ancora sanati i contraccolpi di natura economica, adesso arriva pure il saldo della politica. Il modello adottato nei primi anni Novanta era sembrato il più rapido e il più efficiente. L’Ovest si annetteva l’Est, semplicemente estendendo ai fratelli ritrovati la struttura economica, sociale e politica che tanto bene aveva funzionato nella Germania capitalista. Ma i conti erano sbagliati: l’Est era messo peggio di quanto si fosse immaginato e l’Ovest si incaricava di esportare un modello sociale che avrebbe avuto esso stesso bisogno di riforme e aggiustamenti. Invece di adeguare il generoso welfare state tedesco-occidentale ai tempi dell’incipiente globalizzazione dei mercati e alla concorrenza che sarebbe venuta da Est proprio in conseguenza dello scongelamento degli Stati comunisti, i politici del tempo estesero all’ex ddr benefici e sicurezze che peraltro non avevano – come a Ovest – la copertura di un sistema produttivo dinamico. I primi problemi vennero dalla complessità della riconversione industriale: poche aziende sopravvissero ai rigidi standard del mercato capitalista. Poi venne la disoccupazione di massa. Quindi la delusione e il rimpianto, con fenomeni sociali bizzarri ma comprensibili, come l’ondata di nostalgia per il bel tempo andato, quando non c’era la libertà ma posti di lavoro fittizi, uno straccio di stipendio e asili per tutti i bambini: erano i tempi della Ostalgie, immortalati nel successo cinematografico di Goodbye Lenin. In politica è stato fatto lo stesso errore. L’annessione di cinque nuovi Länder avrebbe richiesto un adeguamento del sistema politico per gestirne tensioni e complessità. A Ovest, ad esempio, era inimmaginabile la presenza di un partito comunista; a Est, invece, un partito comunista peraltro erede di un regime era destinato a giocare un ruolo centrale negli equilibri locali e poi nazionali. Questa contraddizione non si è sanata da sola, il modello occidentale non ha fatto il miracolo e oggi l’Est s’è rivoltato contro l’Ovest aggiungendo al costo economico della riunificazione anche quello politico.

Nei giorni gloriosi del 1989 pochi riuscirono a sottrarsi all’euforia generale e solo i più pessimisti valutavano in vent’anni – più o meno lo spazio di una generazione – il tempo necessario perché le due Germanie raggiungessero un livello di benessere comparabile. Ne sono passati diciassette e, nonostante i progressi in molti settori, è ancora difficile intravedere la fine della transizione. Sarà anche per questo affanno che Berlino, oggi, si è messa alla testa di quei paesi europei che frenano sulle ipotesi di ulteriore allargamento all’area balcanica e premono perché l’ue metta un paletto definitivo alle proprie frontiere. Assieme alla questione energetica, sarà uno dei punti centrali nell’agenda del semestre di presidenza europea che la Germania assumerà dal prossimo primo gennaio.



Pierluigi Mennitti, direttore di Ideazione

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