A lezione di fusionismo
di Andrea Mancia
Ideazione di novembre-dicembre 2006

Grover G. Norquist non è abituato a perdere tempo. Arriva a Roma, alla sede di Ideazione, dopo aver visitato la Camera dei deputati, ma non sembra troppo distratto dalle conturbanti miscele architettoniche di Montecitorio. E inizia subito a distribuire materiale ai presenti: una brochure degli Americans for Tax Reform, da lui fondati nel 1985 su spinta del presidente Ronald Reagan; uno schema riepilogativo dei wednesday meetings, gli incontri settimanali che negli ultimi quindici anni hanno abituato la destra americana a ragionare con logiche di coalizione e non con l’istinto delle schegge impazzite; l’ultimo suo articolo scritto per The American Spectator, dove analizza le chance dei candidati repubblicani alle presidenziali del 2008. Norquist è fatto così. Poche chiacchiere, molte informazioni, moltissimi fatti. A Ideazione, accompagnato dal direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi (che lo ha ospitato a Sestri Levante per la terza edizione del Seminario Mises), Norquist è arrivato per incontrare un gruppo ristretto di giornalisti, intellettuali e blogger del centrodestra italiano, in quello che potrebbe essere un embrione di futuri wednesday meeting italiani. Anche chi lo conosce soltanto di nome si rende subito conto che si tratta di un’occasione irripetibile, per imparare qualcosa da un personaggio unico.

Norquist nasce il 19 ottobre del 1956 a Weston, in Massachusetts, da un padre imprenditore e una madre impiegata pubblica. Fin dalla tenera età, Grover capisce da quale parte della barricata vuole passare la propria vita: dalla parte di chi difende il libero mercato. Diventa anticomunista verso i dieci anni, dopo aver letto due capolavori della letteratura conservatrice del dopoguerra: Masters of Deceit di J. Edgar Hoover e, soprattutto, Witness di Whittaker Chambers, la straziante testimonianza-confessione di un ex comunista che sarebbe diventato un eroe dei red hunter americani. Nel 1978, si laurea in economia ad Harvard, dove qualche anno più tardi conseguirà anche un master alla Business School. Appena finito il college, diventa direttore esecutivo della National Taxpayers Union e dell’organizzazione nazionale dei College Republicans. Per un paio d’anni, entra anche alla U.S. Chamber of Commerce, come economista e capo degli speech writer.

Il “Taxpayer Protection Pledge”
Nel 1985, dopo qualche mese di lavoro alla Casa Bianca per l’Amministrazione Reagan, arriva la svolta. Norquist, spinto dal presidente in persona, fonda insieme a Bill Barr gli Americans for Tax Reform, che in pochissimo tempo diventano uno dei più influenti e agguerriti think-tank della destra liberista, soprattutto grazie a una “invenzione” che ancora oggi è in grado di determinare il destino politico di potenziali candidati in uno qualsiasi dei cinquanta Stati dell’Unione: il Taxpayer Protection Pledge (letteralmente: “promessa di protezione del contribuente”). Il meccanismo è allo stesso tempo semplice, geniale e devastante. Gli atr contattano potenziali candidati o rappresentanti già eletti, a livello nazionale o statale, chiedendo loro di sottoscrivere una “promessa” con cui si impegnano a votare contro qualsiasi proposta di aumento delle tasse nel corso di tutto il loro mandato. Una volta firmato il pledge, con una cerimonia ufficiale alla presenza della stampa, il candidato è formalmente sostenuto dall’associazione. Con almeno due conseguenze dirette: le sue possibilità di essere eletto aumentano sensibilmente; le sue possibilità di cambiare idea si avvicinano molto rapidamente verso lo zero. Sì, perché gli Americans for Tax Reform hanno già dimostrato più di una volta di essere in grado di rendere la vita impossibile (politicamente, s’intende) a chi rompe la promessa con cui si è impegnato verso gli elettori. Il caso più eclatante, naturalmente, è quello di George Herbert Walker Bush, vice e successore di Ronald Reagan alla Casa Bianca e padre dell’attuale presidente degli Stati Uniti. Bush viene eletto nel 1988 soprattutto grazie alla sua promessa di non aumentare le tasse, sintetizzata dal celebre slogan “Read My Lips: No More Taxes”. Durante il suo primo (ed unico) mandato, però, Bush si convince di poter infrangere impunemente la promessa, facendo infuriare gli attivisti anti-tasse di tutto il paese, che gli negano il loro appoggio alle elezioni presidenziali del 1992. Morale della favola: il fronte conservatore si presenta spaccato alla corsa per la Casa Bianca e i voti raccolti dal miliardario texano Ross Perot sono più che sufficienti per impedire ai Repubblicani di riconquistare la presidenza. La mancata rielezione di Bush padre, però, sembra almeno aver insegnato ai deputati e ai senatori repubblicani che sul tema delle tasse è meglio non scherzare troppo. Tanto che, a vent’anni dalla “invenzione” di Norquist, oggi 223 membri della Camera (più della maggioranza) e 47 membri del Senato (poco meno della maggioranza) hanno sottoscritto il pledge degli atr.

La “Leave-Us-Alone Coalition” e gli incontri del mercoledì
Sarebbe probabilmente bastato il Taxpayer Protection Pledge, e il suo impatto sulla politica americana degli ultimi decenni, per consentire a Norquist di approdare – insieme a Ralph Reed, Clint Bolick, David McIntosh e Bill Kristol – nella famigerata “Gang of Five” del moderno conservatorismo a stelle e strisce, dipinta con qualche esoterismo di troppo dalla giornalista ultra-liberal del Boston Globe, Nina J. Easton, nel suo libro del 2000. Ma il vero motivo per cui Norquist passerà alla storia ha molto poco a che vedere con la sua attività di “guerriero anti-tasse”.

Nel 1992, infatti, poco dopo l’elezione di Clinton (e signora) alla Casa Bianca, Norquist inizia ad organizzare un incontro settimanale di attivisti vicini al partito repubblicano nel suo ufficio di Washington dell’atr. All’inizio, i cosiddetti wednesday meeting sono riservati ad una quindicina di persone e la partecipazione dei media è assolutamente esclusa. «Eravamo come i menscevichi dopo la rivoluzione russa», ricorderà qualche anno dopo Marshall Wittmann, che partecipa al primo incontro in rappresentanza della Christian Coalition. Ma, a differenza dei menscevichi, il gruppo di attivisti che si ritrova ogni mercoledì da Norquist per iniziare a rimettere insieme i pezzi di una coalizione divisa e rissosa riuscirà a dare vita a 15 anni di successi devastanti che hanno rimodellato la struttura e le dinamiche del sistema politico statunitense. In pochi anni, il numero di partecipanti agli incontri organizzati da Norquist sfiora il centinaio. Oggi sono quasi 200, senza contare i 53 meeting che si svolgono (non sempre con cadenza settimanale) in altri 43 Stati dell’Unione. E dal 2001, oltre a diversi rappresentati eletti alla Camera e al Senato, anche molti membri dell’amministrazione Bush partecipano agli incontri per restare in contatto con gli umori della propria base elettorale.

Ma cosa sono, esattamente, questi misteriosi incontri del mercoledì? Il concetto che sta alla base di tutto, anche in questo caso, è estremamente semplice. Secondo Norquist, le varie anime che compongono la destra americana (da lui definita “center-right coalition”), anche se spesso hanno idee molto diverse su argomenti importanti (l’esempio più classico è il tema dell’aborto), sono in ogni caso accomunate dal fortissimo desiderio di costringere lo Stato a ridurre la propria invadenza. Gli attivisti anti-tasse vogliono che il fisco sia meno vorace. Gli home-schoolers vogliono che lo Stato non obblighi i genitori ad educare i propri figli nelle scuole pubbliche, o in scuole private parificate a quelle pubbliche. La Christian Coalition vuole che lo Stato non interferisca con le libertà religiose. I sostenitori di un’interpretazione restrittiva del 2° Emendamento, come la National Rifle Association, vogliono che lo Stato non limiti la loro libertà di acquistare o trasportare armi da fuoco. Le organizzazioni di imprenditori, come le Small Business Association, vogliono che lo Stato non uccida il libero mercato con la propria burocrazia. Sono solo alcuni esempi, ma rendono l’idea del perché Norquist definisca questa alleanza come la “Leave-Us-Alone Coalition”: il “collante” che tiene uniti tutti è il desiderio di essere lasciati in pace dallo Stato.

Partendo da questo principio, Norquist ha iniziato ad organizzare i suoi meeting seguendo alcune regole molto precise. Nessuna discussione sui massimi sistemi, per evitare scontri filosofici inutili, in cui nessuno è disposto a cambiare la propria posizione di un millimetro. Pochi minuti a disposizione, per ogni partecipante, che devono essere utilizzati per illustrare agli altri membri della coalizione quali sono le attività pratiche che saranno affrontate nella settimana seguente. Nessun invito rivolto ad associazioni, organizzazioni o think-tank in quanto tali, ma inviti mirati rivolti a persone che sono ritenute in grado di fare “lavoro di squadra”.

Seguendo queste regole e “costringendo” gli attivisti della destra americana a confrontarsi settimanalmente sulle questioni politiche concrete, Norquist è riuscito nel miracolo di dare vita a una coalizione diffusa, organizzata e spesso vincente, che ha permesso al partito repubblicano di controllare per anni Casa Bianca, Camera, Senato, maggioranza dei governatori e maggioranza dei parlamenti statali, prima frenando e poi invertendo un trend di supremazia dei Democratici che risaliva ormai ai tempi del New Deal. Non è tutto merito di Norquist, naturalmente, ma chi conosce i meccanismi della politica americana non dubita neanche per un istante che la Leave-Us-Alone Coalition sia stata il fulcro del dominio strutturale repubblicano degli ultimi decenni. E non è certamente un caso se il fondatore degli atr è stato uno degli attori principali in tutti gli snodi che hanno caratterizzato la storia recente del gop: dal Contract with America del 1994, ideato e promosso insieme a Newt Gingrich, fino alla “costruzione” della candidatura alla presidenza di George W. Bush, pianificata insieme al suo grande alleato Karl Rove, già nei primi mesi del 1999.

  Il ruolo di Norquist dopo 9/11
Oggi, malgrado i wednesday meetings continuino a rappresentare un appuntamento importantissimo per l’organizzazione del partito repubblicano sul territorio, Norquist si ritrova ad avere qualche nemico di troppo anche all’interno della destra americana. Il motivo principale è rappresentato dal suo tentativo, negli anni Novanta, di legare strutturalmente al gop la comunità islamica degli Stati Uniti, da lui considerata “naturalmente conservatrice” e dunque potenziale terreno di conquista elettorale. Questo tentativo, dopo l’11 settembre 2001, gli è costato l’ostilità di alcune delle frange più estreme del mondo neoconservatore e uno scontro pubblico al calor bianco, nel 2002, con il fondatore e presidente del Center for Security Policy, Frank J. Gaffney, che lo accusa di aver affidato a personaggi vicini al mondo del fondamentalismo islamico la gestione dell’Islamic Free Market Institute, da lui fondato nel 1998.

Ma il Grover Norquist che abbiamo incontrato a Roma non ci è sembrato affatto un personaggio capace di farsi travolgere da questioni del genere. Lui, del resto, è abituato a lavorare in funzione del successo della coalizione, senza farsi coinvolgere da diatribe personali. E molto probabilmente continuerà ad andare dritto per la sua strada, ancora per molti anni. In Giappone, Regno Unito, Francia, Germania, Croazia e Danimarca ha già dato il via da qualche mese ad incontri delle locali coalizioni di centrodestra strutturati sul modello dei wednesday meeting. Polonia, Svezia, Belgio e Italia (sì, Italia) sono i suoi obiettivi di medio-periodo. E nel frattempo ci sono le elezioni presidenziali americane del 2008 da organizzare e vincere.

Nel 1997, intervistato dalla rivista libertarian Reason, Norquist affermò che il suo obiettivo era quello di «dimezzare il peso del governo in 25 anni». «E tra 25 anni – concludeva – il mio obiettivo sarà quello di dimezzarlo di nuovo». Grover ha troppe cose da fare per lasciarsi distrarre.

 

 

 

Andrea Mancia, caporedattore di Ideazione.

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