La nave italiana nel mare globale
di Massimo Lo Cicero
Ideazione di novembre-dicembre 2006

Le informazioni sulla dinamica economica delle grandi economie mondiali ci dicono che l’orizzonte congiunturale potrebbe annunciare l’arrivo di qualche temporale, per utilizzare una metafora meteorologica. Se confrontiamo la crescita del prodotto interno lordo del secondo trimestre del 2006 con quella osservata nel secondo semestre 2005 – ricavandone un indicatore su base annua della crescita relativa delle grandi economie mondiali – abbiamo un quadro apparentemente stazionario. Ragioniamo, in prima battuta, con i dati che emergono dalle ultime rilevazioni dell’ocse.

Gli Stati Uniti crescono del 3,5 per cento; l’Italia cresce solo dell’1,5 per cento, ma questa è, paradossalmente, una buona notizia perché il nostro paese non cresceva da tempo. Francia, Germania e Gran Bretagna crescono, rispettivamente, del 2,6 per cento, del 2,4 per cento e del 2,7 per cento. Misuriamo anche la crescita osservata nel secondo semestre del 2006 con quella registrata nei vari paesi nel primo trimestre del medesimo anno. Vediamo che il quadro cambia e che la probabilità di una perturbazione potrebbe aumentare. I valori non sono confrontabili in termini assoluti con quelli annuali, perché indicano una variazione durata soli tre mesi, ma la tendenza che essi esprimono, se dovesse continuare per un intero anno, ribalterebbe la gerarchia della crescita che abbiamo conosciuto negli ultimi anni e che veniva confermata dalla nostra precedente graduatoria. Gli Stati Uniti crescono solo dello 0,5 per cento; l’Italia dello 0,5 per cento. La Francia conduce la danza con un valore di 1,2 per cento, la Germania arriva allo 0,9 per cento e la Gran Bretagna allo 0,8 per cento.

Come dobbiamo interpretare questa specie di rimonta da parte di alcuni paesi della vecchia Europa rispetto agli Stati Uniti?

L’economia americana viene da una crescita lunga quasi due decenni, interrotta intorno al cambio di secolo, ma governata con prudenza e lungimiranza da una politica fiscale che è diventata espansiva, senza paura del deficit pubblico, non avendo un grande debito accumulato in precedenza, e da una politica monetaria di bassi tassi di interesse che hanno permesso di rimontare la crisi di fine secolo: la fine della “bolla” indotta in Borsa dalla new economy, prima, e dal mercato immobiliare, subito dopo. Come è noto questa deriva espansiva – che ha consentito all’economia americana di raffreddarsi senza fermarsi di colpo – è stata ribaltata nella gestione della politica monetaria durante gli ultimi due anni ma, secondo tutti gli osservatori, di fronte al rischio di una frenata improvvisa, sia le autorità di governo che quelle monetarie non esiterebbero, ancora oggi, a dare una spinta espansiva alla congiuntura in presenza di una flessione perdurante nel terzo trimestre del 2006.

Il fatto è che, preoccupati dello stato della propria finanza pubblica, i paesi europei sono, al contrario, tentati di stringere i freni della fiscalità e di tenere alta la guardia contro l’aumento dei prezzi. Anche perché sono minacciati dall’imposta petrolifera in quanto più fragili sotto il profilo energetico. Questa combinazione di azioni e reazioni – crisi congiunturale, politiche espansive in usa e politiche deflattive in Europa – potrebbe, nel prossimo futuro, riportare l’euro in una posizione troppo forte verso il dollaro ed azzerare la ragione della crescita europea che, nella congiuntura recente di cui abbiamo detto sopra, altro non è che la conseguenza dell’espansione americana.

Ma questo effetto di traino, una volta che il dollaro si trovasse di nuovo in una posizione debole rispetto all’euro, verrebbe meno e questo nuovo scenario porterebbe ad un rallentamento anche delle economie europee. In questo caso l’Italia sarebbe un possibile vaso di coccio tra i vasi di ferro europei perché, come sappiamo bene, si tratta del paese con la finanza pubblica più indebitata e con l’economia reale più svenata, dopo dieci anni di stasi nella dinamica della propria produttività interna.

Crescita e debito nel mercato globale
La dimensione del debito pubblico non rappresenta un problema: essa rende più fragile la gestione della politica economica perché aumenta la fragilità dei conti dello Stato in presenza di un aumento dei tassi di interesse, perché più risulta elevata la dimensione del debito esistente, più significativo sarà l’incremento degli interessi in presenza di un incremento del tasso che si applica a quello stock di debito. L’aumento degli interessi si traduce, automaticamente, in un aumento della spesa pubblica corrente e, se non si incrementa la tassazione o non si riducono le spese correnti, aumenta il deficit pubblico e, per coprirlo, si deve aumentare ancora il debito. Si genera, in questo modo, una spirale pericolosa per la credibilità del debito in circolazione. Il mercato sanziona chi usa male le risorse raccolte con il debito perché ritiene che quei capitali raccolti dagli Stati – ma anche quelli raccolti dalle imprese – dovrebbero alimentare la crescita della ricchezza e non essere utilizzati solo per trasferire la ricchezza esistente da un gruppo sociale ad un altro. Nel mondo contemporaneo, dominato dalla integrazione finanziaria ed economica e caratterizzato da una qualche forma di disintegrazione della grandeur per i singoli Stati nazionali, i mercati finanziari sono diventati più forti degli Stati e delle banche centrali nazionali che, prima di quella integrazione, potevano, di intesa con i governi e con la loro politica fiscale, governare i mercati finanziari, almeno nel perimetro dei confini nazionali.

Si può immaginare che i mercati finanziari, nel nuovo contesto di un mondo globalizzato, giudichino sostenibile il debito pubblico? La crescita è l’unica strada per rendere sostenibile il debito pubblico ma un grande debito pubblico, per larga parte finanziato dal risparmio domestico, finisce per assorbire parte delle risorse necessarie per finanziare la crescita. Sia perché impegna il risparmio nazionale ma anche perché obbliga i governi a prelevare ulteriori quote di risparmio per pagare, attraverso l’incremento della pressione fiscale, l’onere degli interessi sul debito. Se un paese accetta di integrarsi con i mercati finanziari internazionali, si apre agli investimenti esteri e si dimostra capace di espandere all’estero le proprie esportazioni e gli investimenti delle proprie imprese, quel paese troverà nei mercati finanziari consenso al giudizio sulla sostenibilità del proprio debito ed una leva vera e propria per espandersi ancora, grazie al reperimento di capitali eccedenti la dimensione del proprio mercato interno, che i mercati finanziari gli assicurano sulla scena mondiale.

Sembra, allora, che lo stato della così detta globalizzazione rappresenti una variabile strategicamente rilevante per le politiche economiche dei singoli Stati. Non basta l’analisi congiunturale per assumere decisioni strategiche e non è un caso che questo orizzonte analitico più ampio e più lungo, nelle conseguenze osservate, sia stato recentemente proposto dal nuovo presidente della Federal Reserve, Bernanke. Dice il responsabile della politica monetaria americana, in un discorso pronunciato a Kansas City alla fine di agosto, che il processo di globalizzazione ed integrazione dell’economia nel nostro pianeta è ancora robusto e che esso rappresenta una opportunità per migliorare il futuro dell’intera popolazione mondiale.

Quattro motivi di ordine strutturale sostengono l’opinione di Bernanke. La quota delle esportazioni nelle grandi economie raggiunge una dimensione elevatissima rispetto a quella del prodotto interno lordo, più alta della quota raggiunta nei secoli alle nostre spalle durante altre fasi di espansione commerciale ed integrazione reciproca tra le economie mondiali. La rivoluzione tecnologia ed istituzionale che si espande nel mondo riduce la distanza tra centro e periferie del sistema. La frammentazione dei processi industriali alla scala mondiale aumenta e, dunque, non siamo solo in presenza di una integrazione commerciale ma anche di una integrazione produttiva. La quarta osservazione riguarda l’avvenuta fortissima integrazione del mercato dei capitali e l’aumento conseguente delle capacità di questo unico mercato finanziario mondiale, e delle autorità che ne governano le dinamiche, di assorbire le crisi, fronteggiare l’incertezza del sistema e controllare la dinamica dei rischi in essere. Bernanke conclude la sua analisi sostenendo che lo sforzo dei governi nazionali deve ormai affrontare un obiettivo di equità e non più un obiettivo di efficienza: il secondo potendo essere, infatti, garantito dalla integrazione dei mercati mondiali. Perché il futuro della globalizzazione dipende, appunto, dalle opportunità che la nuova ricchezza prodotta può offrire ai deboli del pianeta, aumentando la sfera di coloro che ne supportano, e non ne ostacolano, il cammino. Singolare che la medesima prospettiva abbia condiviso il managing director del Fondo monetario internazionale in un discorso tenuto agli inizi di settembre.

Il Fondo rafforza oggi la sua capacità di governare gli equilibri valutari e finanziari dilatando la pratica della multilateralità rispetto alle trattative bilaterali tra l’istituzione ed i paesi membri, ed amplia la partecipazione al proprio capitale, e dunque al governo del Fondo stesso, ai paesi finora tenuti in posizione inferiore rispetto ai padri fondatori. Nuova governance e nuova dimensione multilaterale del monitoraggio dei capitali internazionali: questa è la strategia del Fondo monetario internazionale nel nuovo equilibrio mondiale. La medesima cosa, con accenti più radicali ma convergenti, viene auspicata da Stiglitz nel suo ultimo volume sulla globalizzazione, l’arrivo del quale è stato annunciato con una breve traduzione del messaggio in esso contenuto da Il Sole 24 ore del 10 settembre.

Sul terreno dei dati di lungo periodo, infine, questa analisi viene supportata, ancora una volta, dall’ocse con i suoi Composite Leading Indicators. Si tratta di un indice sintetico, che raccoglie oltre duecento valori osservati nei vari paesi del mondo e che fornisce un buon indicatore delle tendenze di lungo periodo in atto.

Dal 1999 le Major 5 Asia (Cina, India, Indonesia, Giappone e Corea) procedono meglio degli Stati Uniti e dell’Europa che si alternano alla seconda posizione della graduatoria mondiale. Nel cuore della vecchia Europa la Germania e la Francia, nel medesimo periodo, si alternano in una posizione che domina quella italiana ma tutte e tre le economie sono su valori inconfrontabili con le Major 5 Asia. Canada, Gran Bretagna e Giappone convergono verso un risultato stagnante negli stessi anni mentre Brasile, Russia ed India aumentano sistematicamente il proprio punteggio. Questi quattro cluster ci dicono che il mondo si espanderà grazie all’Asia e che, nell’integrazione tra Asia e Stati Uniti, abbastanza evidente per tutti, si trova il cuore del futuro governo democratico di queste dinamiche politiche ed economiche.

L’Europa dovrebbe quindi “darsi una sveglia”, guardare fuori del proprio confine, ammettere di essere solo una ricca regione del mondo che non ha più la forza di crescere anche per ragioni legate alla sua età media ed alla natalità ridotta che ne deriva, ed accettare la multilateralità, offerta dai grandi organismi internazionali, come la sede in cui far valere umilmente ed unitariamente – rispetto ai suoi venticinque partecipanti ed ai nuovi possibili ingressi, basta pensare alla Turchia – le proprie ragioni.

Il caso italiano
Il primo discorso di Mario Draghi, nel suo nuovo incarico di governatore della Banca d’Italia, venne pronunciato in primavera, a ridosso della scadenza imminente delle elezioni politiche. Difficile non leggere gli argomenti da lui utilizzati come un terreno di sfida per l’agenda del futuro governo. Anche Draghi partiva dal ritmo e dalle modalità della crescita mondiale, ricordandoci che non esistono più orizzonti nazionali dei sistemi economici. Politiche restrittive negli Stati Uniti, cambi flessibili tra le valute asiatiche e quelle dei paesi sviluppati, radicali riforme strutturali in Europa: questa è la scena virtuosa dei prossimi anni. Il mercato finanziario mondiale – il palcoscenico sul quale dovranno trovare posto le tre politiche appena descritte – attraversa una fase distesa: bassi i tassi reali di interesse, bassa la volatilità dei corsi, ragionevolmente abbondante la disponibilità di fondi.

Ma, anche nel giudizio del governatore, questa buona meteorologia può nascondere insidie: i derivati finanziari migliorano la gestione del rischio ma, connettendo tra loro sistemi e mercati, possono accelerare le dinamiche di crisi; «le favorevoli condizioni dei mercati finanziari ritardano la correzione degli squilibri reali. Attenuano i sintomi senza aggredire le cause del male». Decollare senza avere la forza per restare in volo; liberarsi dal dolore ma non dalla causa delle proprie perdite, coprendole con i debiti: ecco i due avversari temibili del possibile, ma ad oggi non ancora garantito, risanamento dell’economia italiana. La diagnosi è assolutamente netta: caduta della competitività per il mancato utilizzo delle risorse offerte dalla nuova tecnologia a livello dell’intero sistema. È la macchina produttiva italiana – le scuole ed i ministeri; gli uffici del catasto ed i tribunali; le città ed i grandi sistemi di trasporto, per essere chiari, ma anche l’organizzazione della produzione e la rigidità dei rapporti di lavoro – che non funziona più. Il problema, come si diceva una volta, non sta nella “fabbrica” o nella “organizzazione della società”: siamo in presenza di una metastasi diffusa. Perché ognuno ha conservato garanzie e rendite per soddisfare le quali le vecchie tecnologie non sono più in grado di generare la ricchezza necessaria. «L’Italia è attardata nel cogliere le occasioni di questa rivoluzione (tecnologica). Il divario è massimo nella produttività totale dei fattori». Non mancano giudizi severi anche sul sistema bancario. Le banche hanno migliorato la qualità dei propri crediti, nonostante il tono stagnante dell’economia reale, e ridotto i propri costi. Ma il loro futuro, ora, dipende della «continuazione della crescita dei volumi di credito» anche perché «le banche di minore dimensione hanno consolidato le proprie posizioni nei mercati locali, sfruttando i vantaggi comparati di credito alle piccole e medie imprese».

Le banche dominano i mercati finanziari ma devono assolutamente garantire l’indipendenza dei gestori di patrimoni «anche per assicurare la risoluzione del conflitto di interesse insito nella relazione con la banca». Riusciranno i due “poli”, antagonisti nel mercato politico, a risolvere questo delicato intreccio di questioni?

Di fronte alla lucida diagnosi di Draghi sembra abbastanza fragile sia il confronto realizzato nella campagna elettorale che il suo sviluppo, successivo all’insediamento del governo Prodi. Ridare tono economico al paese, e costruire il consenso su questo cambiamento radicale, è un traguardo che nessuno riesce a tagliare se passa il proprio tempo solo a sgambettare l’avversario. C’è il rischio concreto di finire entrambi stesi per terra e, per giunta, di rompere anche le ossa al paese intero. Se non cambia il tono del confronto politico sarà difficile gestire il risanamento ed il rilancio dell’economia italiana. Persa nella propria apparente autoreferenzialità televisiva, la classe dirigente rischia di far perdere il treno della crescita all’intero paese. Insomma, la primavera ha portato in Italia un ricambio della maggioranza parlamentare e della compagine governativa. Una coalizione di centrosinistra ha battuto, di stretta misura, la coalizione di centrodestra e Romano Prodi ha sostituito Silvio Berlusconi alla guida del governo. Appena insediato, e secondo la routine del calendario parlamentare, il nuovo governo ha rilasciato il dpef: una rappresentazione analitica della situazione economica congiunturale del paese che definisce il contesto di riferimento nel quale in autunno viene emanata dal Parlamento la legge finanziaria, che rappresenta la manovra di bilancio che aggiusta la struttura dei conti pubblici in vista degli sviluppi attesi per l’anno successivo, sulla base delle dinamiche osservate nel primo semestre dell’anno.

Con la primavera sono arrivate in Italia anche le diagnosi dei principali osservatori internazionali richiamate nel primo paragrafo di questo articolo. Tutti gli osservatori, dall’ocse al Fondo monetario, hanno rilevato che, dopo una lunga stagnazione, la nostra economia nazionale riprendeva la crescita: con una velocità inferiore rispetto a quella dell’Europa che, a sua volta, non corre come gli Stati Uniti od il Far East. La locomotiva di questa crescita è, come spesso è accaduto anche in passato, il grande cuore industriale dell’Europa, la Germania. Mentre la parte dell’Italia più sensibile agli effetti della locomotiva rimane quella del nord e del nord-est in particolare. Buio a Mezzogiorno, almeno per ora, mentre, grazie alla forza dell’euro, che deriva dai rialzi nel tasso di interesse voluti dalla bce, anche le imprese italiane hanno potuto realizzare investimenti rilevanti e localizzare i propri impianti nei paesi dell’est Europa: dove il regime flessibile del mercato del lavoro e la bassa pressione fiscale sulle imprese rendono più competitiva la produzione di manufatti industriali.

Ad una economia reale in ripresa, tuttavia, il nostro paese contrappone una finanza pubblica gravata da molto debito e da un tendenziale squilibrio tra la spesa e le entrate che caratterizza la dinamica di questi fenomeni dal 1999 ad oggi. Secondo i dati rilasciati dall’istat nelle ultime settimane, fatti pari a 100 i valori osservati nel primo semestre del 1999 la spesa per gli stipendi dei dipendenti pubblici arriva, nel secondo semestre del 2006, ad un indice di 144. Il totale delle spese pubbliche arriva a 134 mentre il totale delle entrate a 155. Di conseguenza, almeno nel secondo semestre del 2006, il volume delle entrate supera quello delle uscite e riequilibra parzialmente le dimensioni del nostro, preoccupante, deficit pubblico.

Il problema nasce dal fatto che, nel semestre precedente, il saldo primario, cioè la differenza tra le entrate e le spese, al netto degli interessi, era stata negativa per 4 miliardi di euro. Nel secondo semestre 2006, grazie alla ripresa interna ed internazionale, si è allargato invece il gettito fiscale, a parità di aliquote e di struttura tributaria, ed il saldo è diventato positivo per 16 miliardi di euro: con un incremento aggiuntivo di gettito nell’ordine dei 20 miliardi di euro. Questa positiva discontinuità nella dinamica delle entrate tributarie ha ulteriormente dilatato e surriscaldato il confronto politico sulla quantità e la qualità della manovra che il governo Prodi propone in questi giorni: con il disegno di legge finanziaria e con la politica economica, enunciata nella Relazione previsionale e programmatica per il 2007.

A giugno il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, aveva annunciato una correzione, tra minori spese e nuove tasse, nell’ordine dei 45 miliardi di euro: una vera stretta deflattiva per l’economia reale che stava ritrovando la strada della crescita. Subito dopo l’estate, e di fronte ai miglioramenti nei saldi della finanza pubblica, il governo annuncia una legge finanziaria contenuta in 30 miliardi di euro. Preoccupati dei danni al regime di welfare (sanità, pensioni e previdenza, scuola, trasferimenti agli enti locali) le componenti più radicali del centrosinistra chiedevano una ulteriore dilazione dei costi della manovra: spalmandone gli effetti non solo sul 2007 ma anche sul 2008. Al contrario, la legge finanziaria e la Relazione previsionale e programmatica si attestano, nell’ipotesi che il governo ha presentato al Parlamento, su un saldo di 34 miliardi di euro: 14 di nuove tasse, 15 di ricomposizione della spesa e 5 di trasferimento delle nuove quote del tfr – che rappresentano le rate per la liquidazione dei propri lavoratori accantonate dalle imprese ogni anno nei propri bilanci – come entrate all’inps, qualora i lavoratori non volessero impegnarle nei fondi pensioni privati recentemente immessi nel nostro regime previdenziale.

Alcuni economisti, ed in particolare il prorettore della Bocconi, Francesco Giavazzi, vedono con diffidenza questa ipotesi avanzata da Padoa Schioppa. Perché ritengono adeguata per rientrare nei parametri del patto europeo di stabilità una cifra nell’ordine dei 15 miliardi di euro e non credono che un debito delle imprese verso i lavoratori possa diventare una entrata per le casse dello Stato. Per trasferire quei fondi allo Stato le imprese dovrebbero indebitarsi mentre l’inps si ritroverebbe con un debito verso i lavoratori, e non una entrata disponibile nei propri conti. Inoltre nulla ci dice che sia meglio, in una fase delicata sotto il profilo congiunturale, trasferire risorse da alcune voci ad altre del bilancio pubblico, piuttosto che lasciare nelle mani delle imprese e dei consumatori la disponibilità di quelle risorse perché siano loro a decidere la natura e l’entità di consumi ed investimenti.

La sensazione è che il governo abbia proposto, attraverso il disegno di legge presentato da Visco e Padoa Schioppa, un largo dessert di soluzioni possibili mentre sia il Parlamento a dover scegliere, davvero, il menu della nuova manovra. Naturalmente il governo ha bloccato i saldi della legge finanziaria e dunque il Parlamento potrà cambiare nelle dimensioni relative ma non nei valori assoluti gli importi della manovra. Si annuncia, di conseguenza, una fase di confronto tra contribuenti, sindacati, imprese ed enti locali su come dovrà essere ripartito l’onere di una forte accelerazione nel risanamento dei conti pubblici. Accelerazione che un governo appena insediato considera, giustamente dal proprio punto di vista, una sorta di riserva per il futuro che lo rende più libero di indirizzare i programmi di spesa pubblica nei prossimi anni. Essendo chiaro che, all’avvicinarsi della scadenza del rinnovo parlamentare, i margini di controllo sulla spesa cedono il passo alla cattura del consenso per le successive scadenze elettorali. Singolare il fatto che a questo passaggio parlamentare, ricorrente nelle democrazie bipolari, si arrivi con un volume di gettito fiscale crescente generato dalla legge finanziaria varata nel 2005 dal governo Berlusconi, e dall’allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti, oltre che, come si è già detto citando i dati dell’istat, dalla tiepida ripresa congiunturale del primo semestre del 2006.

Massimo Lo Cicero, docente di Economia della comunicazione e Economia dell’informazione e della conoscenza all’Università Tor Vergata di Roma.

(c) Ideazione.com (2006)
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