Cina/2 - Istruzioni per l’uso.Un punto di vista realista
di Mauro Gilli
Ideazione di novembre-dicembre 2006

La guerra in Iraq ha avuto un importante effetto collaterale sul dibattito politico: ha regalato nuova attenzione alla disputa sulla presunta natura pacifica dei paesi democratici, anche nota come teoria della pace democratica. Questo dibattito ha attirato molta attenzione, anche in Italia dove, però, è stato affrontato in maniera semplicistica, per non dire ideologica, disquisendo spesso sulla forma (la democrazia può essere esportata?) e non sulla sostanza (le democrazie sono davvero pacifiche?). In pochi, infatti, sembrano essersi chiesti se davvero la promozione della democrazia possa garantire un futuro senza guerre, come sostengono i fautori della democratizzazione del Medio Oriente. Tra le poche eccezioni può essere annoverato l’ultimo libro di Christian Rocca, Cambiare Regime, che infatti prova ad affrontare l’argomento nella sua interezza. Anche Rocca, però, sembra essere rimasto intrappolato nelle sue convinzioni, ignorando ogni argomentazione contraria alle sue idee. Rocca ritiene che «cambiare i regimi dittatoriali [in regimi liberal-democratici] sia cosa buona e giusta»1. E la ragione, a suo dire, «[è] molto semplice. Se gli altri sono liberi, noi siamo più sicuri. Meno dittatori vuol dire meno guerre»2. Tuttavia, non sempre le spiegazioni e le soluzioni molto semplici sono anche corrette3. L’obiettivo di questo articolo è quello di dimostrarlo. Sulla base delle considerazioni che verranno proposte, verrà analizzato il particolare caso cinese.

Sulla teoria della pace democratica
Dopo Immanuel Kant – uno dei primi filosofi ad immaginare la natura pacifica delle Repubbliche – la letteratura sulla teoria della pace democratica si è sviluppata esponenzialmente, soprattutto nel corso dell’ultimo quarto di secolo. Essa può essere divisa in due parti: quella descrittiva e quella positiva. Secondo la prima, storicamente, i paesi democratici si sarebbero dimostrati meno propensi a ricorrere all’uso della forza dei paesi non-democratici; e inoltre non avrebbero mai combattuto contro altri paesi democratici. La seconda parte della teoria, quella positiva, offre invece una spiegazione a queste proposizioni, individuando nel sistema di limiti istituzionali, nell’esternalizzazione delle procedure democratiche e nella condivisione degli stessi principi, gli elementi che renderebbero le democrazie pacifiche e alleate tra di loro. In questo saggio verrà innanzitutto verificata empiricamente la prima parte della teoria, per poi passare ad un’analisi della seconda parte, quella positiva4.
La parte descrittiva della teoria si divide a sua volta in due varianti. Secondo quella monodica, che considera il comportamento di un singolo Stato, i paesi democratici sarebbero meno propensi di tutti gli altri a ricorrere all’uso della forza sul piano internazionale. La variante diadica, che considera il comportamento di una diade (un gruppo di due Stati), postula invece che una guerra tra due democrazie non si sarebbe mai verificata.

Rudolph J. Rummel è stato uno dei primi studiosi a dimostrare una correlazione statistica tra libertarismo e pace5. L’esiguo numero di anni da lui considerato e la sua definizione di “paesi liberi”6 riducono però significativamente la portata di queste conclusioni7. Rummel stesso, infatti, ha dovuto ammettere che le democrazie potrebbero non essere meno propense alla guerra una volta che entrano in military confrontation con altri Stati8.
Anche il successivo tentativo di mantenere in vita la sua teoria, (le democrazie, per Rummel, sarebbero meno propense delle altre forme di governo ad inserirsi in queste military confrontation9) è stato oggetto di dure critiche: statisticamente è stato dimostrato come non vi sia alcuna correlazione tra regime politico e guerra10. Infatti, per il periodo 1816-1980, le probabilità di coinvolgimento in una guerra per un paese non democratico sono state dello 0,191 per cento mentre quelle per un paese democratico sono state dello 0,189 per cento11. Una differenza dello 0,002 per cento.

È interessante notare, invece, come i paesi democratici siano stati meno propensi a lanciarsi in avventure militari degli altri paesi solo durante la guerra fredda12. Un dato che conferma il ruolo del sistema internazionale. Come ha affermato l’illustre studioso John A. Vasquez, in generale, «le guerre devono essere comprese anche in termini di contesto nel quale esse vengono combattute e nelle condizioni sistemiche associate ad esse»13. E infatti, gli Stati Uniti nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale e il Regno Unito all’indomani delle guerre napoleoniche sono esempi illuminanti: il sistema politico democratico non ha impedito loro di avventurarsi in numerosi conflitti militari, spesso dettati da interessi geostrategici14.

Se dunque, come empiricamente confermato,15 è il ruolo internazionale di un paese a determinare la sua propensione ad entrare in guerra, è chiaro che il regime politico interno risulti molto spesso irrilevante. Conviene a questo punto considerare la variante diadica.
Per Christian Rocca, «[u]n dato è certo: le democrazie non si sfidano sui campi di battaglia […] Tra il 1816 e il 2004 sono state combattute 381 guerre, nessuna delle quali tra due democrazie»16. Una verità che per Jack S. Levy «si avvicina come nient’altro ad una legge empirica delle relazioni internazionali»17.

Poiché le pubblicazioni in materia non mancano, si possono considerare alcuni importanti contributi per verificare se tanta sicurezza sia giustificata. Joanne Gowa, per esempio, ha dimostrato come nel periodo che va dal 1816 alla fine della guerra fredda vi siano stati almeno due casi di scontri armati classificabili come guerra tra due paesi democratici: la guerra ispano-spagnola del 1898 e quella anglo-finlandese del 194118. Il caso finlandese non era sfuggito neanche a Micheal Doyle, uno dei più importanti sostenitori della teoria della pace democratica19. D’altronde, malgrado la democrazia finlandese abbia continuato a funzionare durante la guerra, essa non impedì al paese di allearsi con la Germania nazista dal 1941 al 1944.

La storia, comunque, ci fornisce anche altri esempi molto interessanti che la letteratura in materia ha ignorato. Fra tutte spicca ovviamente la guerra civile americana, la più sanguinosa guerra nella storia degli Stati Uniti. Come dimenticare, poi, il sostegno statunitense alle operazioni che portarono alla sospensione del sistema democratico in Cile, Grecia, Indonesia, Uruguay, Brasile e Cipro?20 Infine, possiamo ricordare la guerra tra Perù ed Ecuador; l’attacco israeliano della nave americana Uss Liberty dell’8 giugno 1967; e l’occupazione militare, nel 1923, della regione tedesca della Ruhr da parte della Francia (e del Belgio).

Di fronte a queste eccezioni, la teoria della pace democratica si è trovata impreparata. Per Bruce Russett la guerra civile americana non è un esempio valido in quanto la Confederazione non era uno Stato riconosciuto a livello internazionale21. Per Michael W. Doyle, la guerra tra Perù ed Ecuador non rappresenterebbe invece un episodio rilevante perché iniziò «prima che l’effetto pacificatore del liberalismo potesse essere profondamente determinante»22. Il bombardamento israeliano della Uss Liberty, secondo Rummel, rappresenterebbe invece una “eccezione alla regola”, giustificata comunque dalla natura solo “parzialmente libera” di Israele, dato l’interventismo economico dello stato ebraico23. La crisi della Rurh, secondo John M. Owen, viene spiegata invece dal fatto che la Repubblica di Weimar non fosse considerata un paese democratico dai francesi24.

In sostanza, gli stessi alfieri della teoria della pace democratica, nel tentativo di spiegare casi che non hanno bisogno di spiegazioni, riconoscono implicitamente l’esistenza di numerose eccezioni. Risulta dunque difficile ribadire che non ci sono mai state guerre né scontri armati tra democrazie.

L’irrilevanza dell’analisi empirica
Fino a questo momento è stato dimostrato come il principale argomento dei sostenitori della pace democratica (l’assenza di guerre tra democrazie) non sia supportato dall’evidenza storica. È però necessario sottolineare l’assoluta irrilevanza dell’analisi empirica: essa non ha alcun tipo di rilevanza se si vuole analizzare il futuro.

In primo luogo, il campione rimane troppo limitato per poter dedurre alcuna “legge”. Il numero di paesi democratici, negli ultimi duecento anni, è stato assai esiguo, ed è ovvio che le probabilità di una guerra tra democrazie siano state infinitamente basse25. Inoltre, in questo periodo, il sistema internazionale ha assistito a tre periodi di pace negativa per cui su 189 anni considerati da Rocca, ben 97 sono stati connaturati dalla quasi totale assenza di conflitti tra i paesi europei (che sono anche quelli democratici)26.

In secondo luogo, anche se fosse empiricamente confermata, la teoria della pace democratica risulterebbe comunque irrilevante fino a quando non riesce a dimostrare una chiara relazione causale (e non casuale, come verrebbe da dire) tra il regime politico democratico e la natura pacifica di un paese. L’utilità e la validità di una teoria dipende infatti dalla sua capacità di spiegare e predire con successo un insieme di fenomeni che essa vuole spiegare e predire. L’affermazione in sé che due democrazie non si sono mai combattute, da sola, ricorda quindi i “precedenti” che i cronisti sportivi usano divulgare prima dell’inizio delle partite di calcio.

Perché le democrazie dovrebbero essere pacifiche?
Credere che le democrazie non si combatteranno in futuro per la semplice ragione che non si sono combattute in passato (ignorando, quindi, quanto scritto finora) è una prova di fede, non di lungimiranza. Prima di passare al caso cinese è dunque opportuno considerare le spiegazioni offerte dalla teoria della pace democratica.

I limiti istituzionali vengono generalmente indicati come quell’insieme di limiti propri dei sistemi democratici che impediscono – o, per lo meno, ostacolano attivamente – l’entrata in guerra di un paese. Tra questi vi è ovviamente il ruolo dell’opinione pubblica: poiché il costo della guerra (morte, distruzione, fame, eccetera) viene sostenuto direttamente dalla popolazione, quest’ultima, secondo la teoria della pace democratica, cercherà di impedire questo epilogo drammatico27. Questa spiegazione si scontra però con alcune verità oggettive. Innanzitutto le masse non sono sempre così razionali come le si vuole far apparire. Il diffuso sostegno per le misure protezionistiche tra le popolazioni occidentali è solo una delle tante conferme, come lo sono l’euforia con la quale fu salutato l’inizio della guerra nella democratica Inghilterra, le violenze che hanno angosciato gli Stati Uniti nel 1992 e la Francia nell’autunno del 2005, e gli episodi di violenza negli stadi. Inoltre, l’introduzione della leva volontaria da una parte e, dall’altra, la progressiva tendenza delle guerre ad avere una minore incidenza sul tenore di vita della popolazione rendono obsoleta – se mai è stata attuale – questa spiegazione.

Secondo la teoria della pace democratica, i paesi democratici cercherebbero di esternalizzare a livello internazionale le stesse norme e le stesse procedure che hanno permesso loro di dirimere pacificamente i conflitti interni – superare, cioè, lo stato di natura28. Ciò si tradurrebbe nella tendenza ad affidarsi a istituzioni internazionali (corti e tribunali) per risolvere le diatribe con altri paesi29. Certamente sono stati numerosi i tentativi in questa direzione, ma i buoni propositi sembrano essersi fermati qui: nonostante le energie e l’impegno per la creazione di queste istituzioni, le democrazie non si sono mai distanziate dalla difesa dei loro interessi nazionali. È difficile credere, infatti, che un paese (specialmente uno di quelli potenti) possa accettare la decisione di un tribunale internazionale qualora essa fosse lesiva dei suoi interessi. La storia è solo un elenco di conferme: lo stato di natura non è ancora stato superato a livello internazionale.

Infine, secondo la teoria della pace democratica, la natura pacifica delle relazioni tra i paesi democratici verrebbe spiegata dalla comune visione e percezione del sistema internazionale. In sostanza, le democrazie, unite dagli stessi principi, tenderebbero ad allearsi tra di loro, e a promuovere i loro principi e le loro istituzioni. Come ha dimostrato Christopher Layne, anche nei rapporti tra paesi democratici sono gli interessi a rappresentare il fattore determinante, non i principi30. L’esempio finlandese citato in precedenza è emblematico. Come lo è l’atteggiamento dell’Inghilterra nel periodo che precedette i due conflitti mondiali: la perfida Albione non fece altro che continuare la sua politica vecchia di quattrocento anni volta ad opporsi al più forte Stato sul continente europeo, anche quando questo Stato era la democratica Francia31. Ma soprattutto, come ha sottolineato Henry Kissinger, l’Inghilterra fu ostinata nel non voler intrecciare alcuna alleanza permanente con altri Stati32. E quando dovette abbandonare la sua reticenza, non si curò molto del sistema politico dei suoi futuri alleati.

La democrazia renderà più pacifica la Cina?
Nel corso di questo articolo si è cercato di dimostrare le debolezze della teoria della pace democratica. È ora possibile analizzare brevemente il caso cinese. In particolare è possibile chiedersi se la democratizzazione della Cina possa modificare la natura della sua politica estera, trasformando un paese che oggi viene percepito come una futura minaccia all’ordine internazionale, in una garanzia per la pace e la stabilità. In primo luogo bisogna considerare la crescita economica. Essa è un fenomeno di portata rivoluzionaria per il sistema internazionale, e non è sbagliato parlare di secolo cinese anche se può sembrare esagerato. La crescita economica di un paese, come ha scritto lo storico Paul Kennedy nel suo celebre The Rise and Fall of Great Powers, determina infatti una crescita del potere politico e militare,33 e storicamente, i paesi che hanno registrato un aumento del loro potere politico e militare non hanno esitato ad usarlo34.

La democrazia potrebbe trasformare la Cina in un’illustre eccezione? Storicamente, la democrazia non sembra aver impedito le aspirazioni egemoniche di un paese che registrava una forte crescita economica: per Regno Unito, Francia, Germania, Giappone, Unione Sovietica e Stati Uniti l’espansione territoriale è coincisa infatti con fasi intense di industrializzazione e sviluppo economico.35 Indipendentemente, quindi, dal regime politico interno.

L’analisi empirica, però, non è sufficiente per analizzare il futuro. È necessario usare le teorie. Secondo la teoria della pace democratica la Cina diventerà un paese pacifico per via del ruolo giocato dalla sua popolazione nella formulazione della politica estera, della tendenza ad esternalizzare le procedure democratiche e della comunanza di principi con le altre democrazie.
La democratizzazione della Russia ci suggerisce di non riporre troppa fiducia sul ruolo della comunanza di principi con altri paesi democratici: è assai difficile che le vecchie tensioni vengano superate in pochi anni. Analogamente, è difficile credere che un paese che avrà difficoltà ad applicare le procedure democratiche al suo interno (soprattutto in ragione delle sue immense dimensioni) le possa applicare a livello internazionale.

Rimane, quindi, solo l’opinione pubblica ad ostacolare l’aggressività cinese. In questo caso non si possono dimenticare gli episodi di violenza registrati nella primavera 2005 di fronte all’ambasciata giapponese di Pechino. Si può credere che quegli stessi manifestanti che lanciavano pietre contro la rappresentanza diplomatica di un altro paese, in un domani non molto lontano, vadano a rappresentare l’ostacolo principale all’utilizzo della forza smisurata di cui la Cina si sta dotando. È possibile. Come è possibile che questi manifestanti, proprio come gli inglesi nel 1914 e gli italiani nel 1915, si lascino trasportare dalle spinte nazionalistiche e vadano a sostenere apertamente una politica estera aggressiva.

Non si può dire a priori. Ma le conclusioni di Mansfield e Snyder, secondo i quali proprio tra i paesi in transizione verso forme più democratiche di rappresentazione politica si registrerebbe una maggiore aggressività e una maggiore propensione alla guerra,36 confermano i timori di chi propende per la seconda ipotesi.

L’unico periodo della storia che potrebbe essere identificato come un periodo di pace democratica è la guerra fredda. Che è stata però caratterizzata dalla presenza di altri importanti fattori: la presenza della minaccia sovietica, e la (conseguente) alleanza tra i paesi occidentali (tra cui rientravano anche alcune dittature: Grecia, Portogallo, Spagna e Turchia). Individuando nelle dittature la causa originaria delle guerre, la teoria della pace democratica dimentica completamente questi fattori strutturali. Cade, cioè, in quella che Alfred North Whitehaed ha chiamato fallacia del singolo fattore.

La speranza che un giorno i cinesi, come tutti i popoli governati da brutali dittature, possano scegliere liberamente il loro destino è ampiamente condivisa. Ma questa speranza non deve tradursi in una percezione sbagliata degli affari internazionali. Che purtroppo sono molto più complicati di quanto la teoria della pace democratica sembri concedere.

 

Note
1.       C. Rocca, Cambiare Regime: La Sinistra e gli Ultimi 45 Dittatori (Torino: Einaudi, 2006).
2.       Id., p. 1.
3.       Molti studiosi non avrebbero accostato il proprio nome alla scoperta di importanti paradossi. Si pensi, tanto per fare qualche esempio, alla crescita che impoverisce dell’economista indiano Jagdish Bhagwati, al paradosso di Triffin, e allo splendid paradox of strategy di cui parla Edward Luttwak.
4.       È utile sottolineare un problema che si presenta per qualsiasi studio empirico che voglia analizzare la teoria della pace democratica. Esso concerne le definizioni di guerra e di democrazia: dei criteri troppo restrittivi (o, al contrario, troppo allargati) possono infatti influenzare sensibilmente le conclusioni raggiunte, riducendone dunque la portata.
5.       R. Rummel, Libertarianism and International Violence, Journal of Conflict Resolution, n. 27 (March 1983), pp. 27-71.
6.       Rummel definisce un paese libero in base alla sua economia, individuando nella Norvegia, nella Svezia e in Israele, per fare un esempio, paesi non liberi per via della loro economia “capital-socialista” (Id., p. 30).
7.       S. Chan, “Mirror, Mirror on the Wall… Are the Democratic States More Pacific?”, Journal of Conflict Resolution, n. 28 (December 1984), pp. 617-648; e E. Weede, Democracy and War Involvement, Journal of Conflict Resolution, n. 28 (December 1984), pp. 649-694.
8.       Cfr. R. Rummel, “Libertarian Propositions on Violence Between and Within Nations”, Journal of Conflict Resolution, n. 29 (September 1985), pp. 419-455.
9.       Cfr. Id.
10.       Cfr. Z. Moaz and N. Abdolali, “Regime Types and International Conflict, 1816-1976”, Journal of Conflict Resolution, n. 33 (March 1989), p. 30.
11.       H. S. Farber and J. Gowa, “Polities and Peace”, International Security, vol. 20, n. 2 (Fall 1995), pp. 123-146.
12.       Cfr. M. Small and J. D. Singer, “The War Proneness of Democratic Regimes”, Jerusalem Journal of International Relations, vol. 1, n. 1 (September 1976), pp. 50-69; e J. Gowa, Ballots and Bullets. The Elusive Democratic Peace, (Princeton: Princeton University Press, 1999).
13.       J. A. Vasquez, The War Puzzle (Cambridge: Cambridge University Press, 1993), p. 225.
14.       C. S. Gochman and Z. Maoz, “Militarized Interstate Disputes, 1816-1976”, Journal of Conflict Resolution, vol. 28, n. 4 (December 1984), p. 609.
15.       Cfr. E. D. Mansfield and J. Snider, Electing To Fight: Why Emerging Democracies Go To War (Cambridge: Harvard University Press, 2005), pp. 98-110.
16.       C. Rocca, Cambiare Regime, p. 1.
17.       J. S. Levy, “Domestic Politics and War”, Journal of Interdisciplinary History, vol. 18, n. 4, spring 1988, pp. 653-677.
18.       Cfr. J. Gowa, Ballots and Bullets.
19.       Cfr. D. E. Spiro, “The Insignificance of the Liberal Peace”, International Security, vol. 19, n. 2 (Fall 1994), pp. 61-62.
20.       C. Rocca, Cambiare Regime, p. 16.
21.       B. Russett, Grasping the Democratic Peace, pp. 40-43.
22.       M. Doyle, “Kant, Liberal Legacies and Foreign Affairs” Part I, Philosophy and Public Affaire, vol. 12, n. 3 (Summer 1983), p. 213, nota 7.
23.       Rummel, Libertarianism, p. 29-30 (corsivo aggiunto).
24.       J. M. Owen, “How Liberalism Produces Democratic Peace”, International Security, vol. 19, n. 2 (Fall 1994), p. 103-105.
25.       Cfr. D. E. Spiro, “The Insignificance of the Liberal Peace”, International Security, vol. 19, n. 2, (Fall 1994), pp. 51, 62-72.
26.       Il “concerto europeo” tra il 1816-1848; il periodo “bismarckiano” tra il 1871-1891; e la guerra fredda tra il 1947-1989. J. J. Mearshimer, “Back to the Future: Instability in Europe After the Cold War”, International Security, vol. 15, n. 1 (Summer 1990), pp. 50-51.
27.       Cfr. B. Russett, Grasping the Democratic Peace (Princeton: Princeton University Press, 1994), p. 24-40.
28.       Cfr. W. Dixon, “Democracy and the Management of International Conflict”, Journal of Conflict Resolution, vol. 37, n. 1, (1993), pp.42-68.
29.       Cfr. B. Russett, Grasping the Democratic Peace, p. 24-40.
30.       Cfr. C. Layne “Kant or Cant: The Myth of the Democratic Peace”, International Security, vol. 19, n. 2 (Fall 1994), p. 5- 49.
31.       Cfr. H. A. Kissinger, Diplomacy (New York: Touchstone, 1994), capitoli 6, 7, 10, 11.
32.       Cfr. Id., capitoli 6 e 10.
33.       P. M. Kennedy, The Rise and Fall of Great Powers: Economic Change and Military Conflict from 1500 to the Present (New York: Random House, 1987), p. xxii.
34.       F. Zakaria, From Wealth to Power: The Unusual Origins of America’s World Role (Princeton: Princeton University Press, 1999), capitolo 2.
35.       S. P. Huntington, “America’s Changing Strategic Interests,” Survival, Vol. 33, n. 1 (January/February 1991), p. 12.

36.       E. D. Mansfield and J. Snider, Electing To Fight.


Mauro Gilli, specializzando in Relazioni Internazionali ed Economia Internazionale presso la Sais Bologna Center della Johns Hopkins University. Collabora al gruppo di ricerca Epistemes.org.

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