Come liberare l'istruzione
forum con Valentina Aprea, Giuseppe Bertagna, Giovanni Cominelli, Vincenzo Silvano
Ideazione di novembre-dicembre 2006

Nei Pensieri sull’educazione John Locke si preoccupa di trasferire ai genitori il senso della responsabilità dell’educazione dei figli. All’epoca non era così scontato che fosse la famiglia a farsi carico dell’istruzione: a prendersi cura dei bambini c’erano di volta in volta nutrici, servitori e precettori, non sempre in grado di trasmettere quel senso morale e civile che Locke considera fondamentale.
Da allora, il ruolo dello Stato, della società e della famiglia nel compito educativo è stato ampiamente riconosciuto: siamo partiti da un’educazione “casalinga”, e passati a un’educazione di massa, pubblica, statale. Dove siamo arrivati oggi? Mi piacerebbe in altri termini che ci si interrogasse su quanta parte della responsabilità educativa debbano oggi assumere da un lato l’istituzione statale dall’altro i genitori, rispetto ai formatori e agli stessi allievi.

Valentina Aprea – Individuare a chi spetta il compito educativo rimanda al modello di educazione che si ha in mente e rispetto al quale va immaginata la governance del sistema. Non siamo all’anno zero e questo è certamente un bene, ma anche un handicap. Il sistema educativo nazionale ha una lunga tradizione non solo con riferimento agli ordini di scuola e ai programmi, ma ha vissuto nel secolo scorso quel grande fenomeno conosciuto come “scolarizzazione di massa”, e oggi si caratterizza come una scuola diffusa sul territorio, frequentata da percentuali altissime di studenti e con un’organizzazione didattica fin troppo ricca (mi riferisco al numero eccessivo di materie e di docenti di cui disponiamo), sebbene talvolta mostri allo stesso tempo di essere inefficace dal punto di vista dei risultati. Gli insufficienti livelli di competenza dei nostri giovani, comunque, non sono l’unico problema: semmai rappresentano la punta dell’iceberg. La nostra scuola è prevalentemente statale: intorno ad essa è nato il “mito della scuola unica”, ricordato anche recentemente nella ormai famosa omelia del cardinal Scola sulla libertà di educazione.

E mentre il cardinale ha invitato la classe dirigente a trovare il coraggio per superare il modello unico, statale, dell’istruzione, l’attuale ministro dell’Istruzione, Giuseppe Fioroni, interrogato da noi in Parlamento sul pronunciamento del cardinale, ha purtroppo ribadito che «spetta allo Stato garantire questo unico diritto all’istruzione in maniera appropriata e uniforme su tutto il territorio nazionale». Noi non siamo d’accordo con questa impostazione, poiché crediamo fermamente che il compito educativo spetti innanzitutto alle famiglie e che, conseguentemente debba essere riconosciuta la libertà di scelta educativa, peraltro garantita dalla nostra Costituzione. La concezione dell’unicità della scuola statale deriva, infatti, più dalla Costituzione materiale che non da quella formale. I lavori della Costituente e gli articoli 5, 33 e 34 della Carta costituzionale del 1948 prevedevano un sistema educativo secondo cui la Repubblica dettasse, per legge, solo «le norme generali sull’istruzione», non i programmi di insegnamento o le circolari dei dirigenti ministeriali.

Sulla base di queste norme generali, le istituzioni scolastiche dovevano gestirsi in autonomia. La Costituzione parla di parità e di libertà di insegnamento: lo Stato deve assumersi un ruolo di controllo e verifica rispetto alla qualità e all’efficienza del sistema e alla sua coerenza con le norme generali. Al contrario, per ragioni storico-politiche, lo statalismo ministeriale proprio del regime fascista, si è rafforzato nel tempo anziché essere superato dal regime repubblicano. Insomma, è successo che la cultura sociale e politica che aveva ispirato la Costituzione – che trovava i suoi fondamenti nel popolarismo, orientata all’autonomia, alla sussidiarietà, al decentramento – ha ispirato scelte e strategie esattamente di segno opposto. Bisognerà aspettare prima i decreti delegati del 1973 e poi gli anni a cavallo del nuovo millennio per vedere riproposto, in un contesto democraticamente più maturo, l’impianto istituzionale prefigurato dalla Costituzione formale. Mi riferisco in particolare alle misure previste da Bassanini, che hanno introdotto un certo federalismo amministrativo, e poi alla riforma proposta dal governo Berlusconi, che ha sancito il ritorno alle «norme generali dell’istruzione». Nonostante tutto ciò, non abbiamo fatto molti passi in avanti. La distanza tra il nostro modello e quelli più liberi è ancora grande.

Pensiamo, ad esempio, al modello americano. Pur mancando in tutti gli Stati Uniti un’organizzazione unica del sistema a livello nazionale, esiste una fondamentale uniformità basata sul perseguimento di un modello, un insieme di credenze, idee, caratteristiche che permeano di sé ogni “buon americano”. La diversità tra la scuola statale italiana e il modello educativo americano dipende in gran parte da una diversa idea di Costituzione. Lo afferma con efficacia Maurizio Fioravanti nel suo Appunti di Storia delle Costituzioni moderne: nelle Costituzioni europee, sull’onda della Rivoluzione francese, viene progettato un modello di società più “giusta”, che implica diritti sociali, soccorsi pubblici e anche un’istruzione pubblica. Anche i costituenti americani pensarono ad una società futura di liberi e di uguali: tuttavia, la loro prima preoccupazione fu il principio del “governo limitato”, al quale essi sacrificarono tutto il resto, realizzando una Costituzione che è più teatro di competizione tra gli individui e le forze sociali e politiche che progetto comune per il futuro. Si tratta di una Costituzione che si fonda su un unico valore dominante, quello della tutela forte ed assoluta dei “diritti individuali”. Ciò spiega la ragione per cui la scuola americana non è retta dal diritto amministrativo, come accade in Europa, ma si muove nell’ambito del diritto civile, dove il singolo gode di un diritto soggettivo nei confronti dell’istituzione.

In Italia, dunque, quello che potrebbe sembrare un bene – parlo della scuola statale diffusa e garantita a tutti – diviene così un forte limite alle libertà individuali, che si impone anche a quei soggetti che tentano di concorrere con la scuola statale. I principi della concorrenza, della competizione, della competenza non appartengono alla nostra tradizione. Nella legislatura precedente abbiamo cercato di spostare il baricentro dallo Stato alla persona, facendo leva su due parole magiche: sussidiarietà e autonomia. Malgrado ciò, nel nostro paese resistono una cultura e una concezione della scuola difficili da scardinare: si parla volentieri di liberalizzazioni in campo economico, ma ci si rifiuta di immaginare una liberalizzazione legata a questo settore. La scuola è ancora percepita come una funzione diretta dello Stato da cui dipendono i docenti come impiegati e non come professionisti. Dunque, la strada per la libertà di scelta educativa da parte delle famiglie è ancora tutta in salita e non solo per questioni economiche, ma prima ancora e soprattutto, per concezioni ideologiche che assegnano esclusivamente allo Stato la responsabilità dell’istruzione. È contro questa concezione che occorre favorire una nuova cultura nel paese.

Giovanni Cominelli – Se ricevere un’educazione vuol dire crescere come persona, diventare persona, trovare gli strumenti per coltivarsi, allora è la persona il titolare dell’intero processo, non lo Stato né la famiglia. San Tommaso sostiene che persona è «rationalis naturae individua substantia» (Summa Theologica, I q. 29, a. 3, I, q. 75): un individuo (in-dividuus) – ossia il nucleo originale irriducibile a qualsiasi altro individuo, comunità o Stato – che è in sé razionale, autocosciente e responsabile. “Persona” è il nome della maschera indossata dagli attori greci e latini, fatta di legno, attraverso cui la voce risuonava e si ampliava, come attraverso un magafono. Per-sonare vuol dire “suonare attraverso”: così, la persona è attraversata dal suono degli altri, è atomo ontologicamente aperto agli altri. Educare la persona significa far crescere ambedue queste dimensioni: far diventare l’individuo libero, responsabile e padrone di se stesso ed aprirlo al mondo. Tutto il resto – famiglia, comunità, tribù, corporazione, Stato – hanno funzione sussidiaria. A questo proposito, la formulazione migliore risale alla Quadragesimo anno di Pio XI del 1931: «Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare». La definizione può essere interpretata in maniera ambivalente: se l’unità sociale riesce da sola è giusto che se la cavi da sola, d’altro canto se non ce la fa sembra altrettanto giusto il ricorso allo Stato. Il mondo cattolico di La Pira, di Dossetti, di Fanfani ha interpretato in questo secondo senso, più dirigista, il principio di sussidiarietà, visto come la necessità di intervento dello Stato, tanto nell’economia quanto nella scuola.

Tornando al concetto di persona, nel percorso storico da Locke a oggi si è verificata una rottura: con il pensiero illuminista, la persona si fa cittadino, i cui paradigmi fondamentali sono definiti dallo Stato. La dialettica fondamentale diventa allora quella tra cittadino e Stato: una relazione asimmetrica, perché è in realtà lo Stato, la “volontà generale” di Rousseau, che definisce il cittadino. L’educazione, in questo contesto, non è più l’educazione della persona, ma la formazione del cittadino, compito supremo dello Stato e della nazione. Dall’illuminismo alla rivoluzione giacobina, all’intero pensiero continentale europeo (si pensi ad Hegel), è lo Stato il protagonista della storia umana. L’educazione diventa una funzione fondamentale: bisogna statalizzare i cittadini, nazionalizzare le masse. Per due secoli l’educazione è stata la formazione del cittadino “seriale”, che deve andare in fabbrica, nell’esercito, in guerra. Questo modello è oggi in difficoltà, non a causa delle forze di mercato, ma perché lo stesso Stato nazionale è in crisi a causa della globalizzazione e perde il controllo su parti della sua antica sovranità (come la politica estera o quella economica). Con il contemporaneo rafforzamento, per ragioni storiche, dei processi dal basso, siamo infine passati da uno Stato etico e ideologico a un grande apparato burocratico, vuoto di cultura e di progetto, ma ugualmente incombente sul cittadino. Un ruolo che però la società civile gli riconosce sempre meno.

Idealmente, quindi, lo Stato – sia esso la Repubblica italiana o l’Unione Europea – dovrebbe limitarsi ad elencare le competenze necessarie a esercitare la cittadinanza attiva. Si tratta del cosiddetto “curriculum” della ue, che non è da intendersi come un programma rigido, ma orientativo, come una sorta di stella polare. Lo Stato deve fornire indicazioni generali alle famiglie e alle scuole autonome; queste ultime devono avere la più piena libertà di metterle in atto, gestendo in proprio la didattica, l’organizzazione, l’assunzione e il licenziamento del personale. È evidente che occorre poi un’autorità terza in grado di valutare i risultati e giudicare se le scuole si attengano al quadro educativo previsto dalla legge. Una simile autorità deve essere pubblica, ma non necessariamente legata al ministero, autonoma dal punto di vista giuridico. In Italia questa struttura esiste già: è l’Istituto nazionale di valutazione del sistema educativo (invalsi).

Vincenzo Silvano – In base alla mia esperienza, ritengo che la responsabilità educativa sia innanzitutto delle famiglie: benché tendano sempre più a declinarla, per delegarla totalmente alla scuola. Don Giussani afferma che «l’educazione è l’introduzione alla realtà totale». Ma che cosa significa introdurre alla realtà? E ancora, quali strumenti occorre fornire per aiutare un giovane a compiere questo passo? La mia impressione è che le famiglie abbiano smarrito il senso di simili domande. Molti genitori demandano completamente all’insegnante l’educazione dei figli, dimenticando che mandarli a scuola vuol dire invece collaborare, insegnanti e genitori, per trasmettere loro qualcosa di durevole.

Il ruolo dei genitori nella scuola mi sembra il vero punto: la stessa concorrenza della scuola paritaria con quella statale sarebbe un falso problema, se fossero entrambe effettivamente pubbliche, se disponessero di tutti gli strumenti economici, e quindi i genitori potessero scegliere liberamente in base all’indirizzo che prediligono. In realtà, l’attuale governo sembra voler estromettere del tutto le famiglie: persino un interlocutore tradizionalmente cauto come l’Associazione Genitori Scuole Cattoliche ha preso nettamente posizione contro le ultime direttive ministeriali, che obliterano il principio di corresponsabilità educativa tra genitori e scuola. Di fatto, tutti i momenti di coinvolgimento della famiglia, dalla scelta delle ore facoltative alla creazione di piani di studio individualizzati, vengono lasciati all’arbitrio delle scuole. Se la responsabilità educativa è dei genitori, lo Stato dovrebbe al contrario rappresentarli e aiutarli nella loro libera iniziativa.

Come si afferma nell’ “Appello sull’educazione” – promosso lo scorso novembre in occasione dell’uscita della nuova edizione del libro di don Luigi Giussani Il rischio educativo – chi governa il nostro paese oggi ha una responsabilità grandissima: la miopia sull’educazione rischia di danneggiarci anche dal punto di vista economico. Ricordo che l’amico Franco Nembrini, nel suo viaggio in Sierra Leone, rimase profondamente colpito dal sostegno di uno Stato tanto povero economicamente alla libera iniziativa di cittadini che creavano nuove scuole. Di fronte al suo stupore, l’omologo del ministro Fioroni gli rispose: «Se in un paese come il nostro non si riparte dall’educazione, da dove si riparte?»

Giuseppe Bertagna – Quando si parla di educazione bisogna sempre diffidare dei nomi collettivi come mercato, Stato, comune, sanità, scuola, famiglia, eccetera. L’educazione, infatti, ha sempre a che fare con la persona, è un incontro di persone; un evento complesso, ma intimo e personale, per l’appunto, in cui ciascuno ha, anche a non volerlo, una responsabilità verso l’altro, dalla quale non può esimersi. Il padre e la madre, in questo senso, contano non in quanto astratta famiglia, ma come persone reali che stanno insieme con i loro figli, parlano con loro, se ne prendono cura, sono loro di esempio e li fanno crescere giorno dopo giorno. Lo stesso principio vale per la scuola: intesa come nome collettivo non è in grado di educare, e non è sede di educazione. Ci riesce, invece, quando è intesa come l’insieme delle persone reali che la costituiscono, che hanno intenzioni ed azioni che interagiscono tra loro e che, con questa interazione, creano conoscenze, abilità, competenze e, soprattutto, senso comune.

I nostri padri erano soliti distinguere tra educazione funzionale e intenzionale: distinzione necessaria, dal momento che in educazione l’eterogenesi dei fini è all’ordine del giorno. L’educazione intenzionale è un progetto vivo, in cui ciascuno mette in gioco in maniera consapevole la propria volontà di educare: occorre badare, però, a che non diventi pura istituzione, rompendo la connessione con la libertà e la responsabilità delle persone che la agiscono, trasformandosi magari in burocrazia amministrativa, in precipitato meccanico, in ripetizione. In questo caso, però, al di là del fascino della formula, non abbiamo più nemmeno l’educazione funzionale che è quella che fa spesso raggiungere esiti educativi imprevisti, non voluti da quella intenzionale. Non l’abbiamo più perché anche l’educazione funzionale – se educazione e non soltanto addestramento, allevamento, sviluppo – ha bisogno, per costituirsi, di relazioni personali, di intenzioni personali implicite, anche se non riconoscibili da chi le incontra casualmente. Ogni ambiente naturale o ogni struttura, proprio quella nota agli antropologi o ai sociologi strutturalisti, non educa, infatti, se non è antropizzata.

Lo avevano compreso benissimo anche i teorici dello “Stato educatore”. L’affermazione di Danton che i figli appartengono allo Stato, infatti, voleva in realtà dire che appartengono alle persone che fanno le istituzioni statali, ossia alle persone in grado, nelle istituzioni statali, di esercitare atti intenzionali educativi simili a quelli di cui lui stesso parla nelle Convenzioni rivoluzionarie. Non diversa era la prospettiva di Napoleone quando, alla vigilia della legge 10 maggio 1806 che portò alla creazione dell’Université de France, dinanzi al Consiglio di Stato, l’11 marzo 1806, disse: «Nella costituzione di un corpo insegnante, lo scopo principale è quello di avere un mezzo per dirigere le opinioni politiche e morali» dei giovani cittadini; o quella di Jules Ferry, quando, in Senato, il 5 marzo 1880, sostenne che «ci sono due cose nelle quali lo Stato insegnante e sorvegliante non può essere indifferente: la morale e la politica, perché nella morale, come in politica, lo Stato è a casa propria; è il suo dominio e pertanto la sua responsabilità». Lo stesso avviene nell’Italia liberale, quando a governare sul novantotto per cento della popolazione, privo di diritti politici, era il restante due per cento: quel due per cento che aveva costruito e gestiva a propria immagine l’istituzione scolastica, scegliendo anche i docenti, con l’obiettivo di illuminare e trasformare il “popolo”, cui non veniva riconosciuta alcuna intenzionalità educativa e culturale. Lo Stato non educa in astratto, dunque. Educa in base al modo con cui chi lo guida e lo concretizza in situazione intende educare e di fatto educa. Per questo se avessimo uno Stato composto da persone alla Don Sturzo (il popolarismo) tutto sarebbe diverso. Sarebbe davvero sussidiario, cioè di servizio, e prenderebbe davvero sul serio gli articoli 29 e 30 della Costituzione. Inoltre, non temerebbe di fondare i propri interventi in tema di istruzione e di formazione anzitutto sulle libertà e responsabilità educative dei genitori, più che su di sé e sulle proprie prerogative di potere. E poi su quelle delle persone che compongono le diverse “formazioni sociali” di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, dagli enti locali all’impresa, dalle comunità religiose alle iniziative cooperative e di volontariato. Senza pensare di doversi ideologicamente imporre a loro come “persona giuridica” superiore. La scelta dell’insegnante e delle persone che lavorano nella scuola dei figli diventerebbe, in questo caso, davvero, un atto di fiducia e di cittadinanza da parte dei genitori. E a loro volta essi sarebbero davvero chiamati ad esercitare, con la loro libertà di scelta, anche la loro responsabilità: responsabilità di assumersi le conseguenze delle proprie scelte, di intessere con i docenti e con le altre figure educative una relazione basata sul dialogo, sulla costruzione di un senso comune, sul confronto. Aprendo a mano a mano orizzonti sempre più ampi di universalità, perché queste stesse prerogative della libertà, della responsabilità e del dialogo non possono essere esclusiva di nessuno, né tolte a nessuno.

Il suo intervento mi offre l’occasione per tentare di delineare una sorta di tassonomia. Partiamo dal livello dello Stato, che coincide con un grado molto basso di autonomia. A partire da qui si susseguono una serie di entità intermedie, tanto istituzionali (come regioni, province, comuni) quanto sociali (come associazioni, comunità, famiglie), fino ad arrivare alla persona. La questione dell’autonomia scolastica è stata, ed è tuttora, piuttosto dibattuta: sul suo terreno si creano attriti inevitabili tra questi soggetti, portatori di diverse istanze. Com’è possibile bilanciare le varie rivendicazioni di autonomia nel campo dell’istruzione? È inevitabile ricorrere alla parcellizzazione oppure è possibile immaginare un’articolazione non conflittuale?

Valentina Aprea – L’autonomia scolastica italiana nasce “viziata” (dentro un sistema fortemente burocratico) ed è “irresponsabile” (priva di accountability). Si inserisce, infatti, in un contesto legislativo e costituzionale, basato su una governance statalista, che prevede un ministero e una pubblica amministrazione che comprende articolazioni regionali e da qualche mese, con il nuovo governo, anche provinciali (i vecchi provveditorati). Se torniamo alla domanda iniziale: è un bene o un handicap avere un’organizzazione scolastica statale, diffusa sul territorio? Diventa sempre più chiaro che si tratta di un handicap, che impedisce, ad esempio, una vera autonomia che preveda anche il reclutamento dei docenti attraverso la chiamata diretta da parte delle scuole. Eppure, smontare oggi quello che all’inizio del secolo scorso era sembrato una conquista crea numerose difficoltà: ecco perché Stati come la Sierra Leone, ma anche la Cina e l’India, che non hanno conosciuto questa fase, sotto questo punto di vista sono paradossalmente avvantaggiati rispetto a noi. Non si tratta di rinnegare la nostra storia, ma di riconoscere che la scolarizzazione di massa ad opera dello Stato ha già portato tutti i frutti che poteva. Ora, proprio lo Stato deve fare un passo indietro e garantire altri diritti (la libertà di scelta delle famiglie) e perfino altre modalità di apprendimento, diverse da quelle formali, ad esempio informali e non formali (per parlare con il lessico dell’Europa) per far sì che tutti gli studenti possano essere educati alla cittadinanza attiva e all’occupabilità in luoghi e tempi diversi da quelli previsti dalla scuola, in generale, e soprattutto dall’unica scuola statale.

L’istituzione ha il dovere, insomma, di offrire ai ragazzi l’opportunità di crescere, di costruire nuove sicurezze, diverse da quelle del passato. Quel che cent’anni fa era stata una grande intuizione – l’obbligo di studiare tutti nello stesso luogo, nello stesso momento, fino alla stessa età – oggi rappresenta un limite. Per questo guardiamo con preoccupazione al “nuovo” obbligo tutto scolastico fino a 16 anni reintrodotto dal governo Prodi con la legge finanziaria. Per realizzare una vera autonomia bisogna passare dal primato burocratico al primato dell’educazione. In accordo con la nuova struttura federale dello Stato, bisogna accantonare la governance napoleonica che ancora sopravvive. Il nuovo sistema educativo nazionale deve superare i vincoli centralistici, la struttura gerarchica e piramidale, l’uniformità degli interventi educativi. Noi proponiamo di passare da una scuola di massa a una scuola di qualità, per tutti e per ciascuno, attraverso la concorrenza degli istituti, il perseguimento dell’eccellenza e la competenza legata a qualità e trasparenza dei percorsi. Ecco perché abbiamo cominciato ad adottare quegli strumenti che hanno dimostrato di essere efficaci in Europa e nei paesi economicamente avanzati: piani di studio personalizzati, portfolio delle competenze, alternanza scuola-lavoro, valutazione delle scuole e dei docenti, differenziazione dei percorsi degli studi superiori. Ecco perché possiamo dire che sono valide, ancora oggi, le riflessioni che a tal proposito faceva Don Sturzo quando nel maggio del 1950 diceva: «Mi son più volte domandato perché da quarantacinque anni ad oggi, il metodo Montessori non sia stato diffuso nella scuola italiana. Allora come oggi, debbo dare la stessa risposta: si tratta di vizio organico del nostro insegnamento: manca la libertà; si vuole l’uniformità, quella impostata da burocrati e sanzionata da politici. Manca anche l’interessamento pubblico ai problemi scolastici; alla loro tecnica, all’adattamento dei metodi alle moderne esigenze. Forse c’è di più: una diffidenza verso lo spirito di libertà e di autonomia della persona umana, che è alla base del metodo Montessori. Si parla tanto di libertà; ma si è addirittura soffocati dallo spirito vincolistico di ogni attività associata dove mette mano lo Stato; dalla economia che precipita nel dirigismo, alla politica che marcia verso la partitocrazia, alla scuola monopolizzata dallo Stato e di conseguenza burocratizzata».

Giovanni Cominelli – La didattica deve abbandonare l’organizzazione per classi e per età, il cui senso si limita ormai alla ratio della politica del personale, gestita dal ministero dell’Istruzione. È evidente che non si dà autonomia senza la gestione diretta da parte dei soggetti che offrono educazione, in base a un determinato progetto e che perciò hanno il diritto di reclutare il personale o di licenziarlo. Dal punto di vista della gestione economica, Tony Blair ha condotto un’operazione straordinaria, trasformando le scuole in Fondazioni, che possono cercare autonomamente finanziatori. Quando non ci sono imprenditori che finanziano, interviene il principio di sussidiarietà, e quindi lo Stato. Mi sembra altrettanto importante il tema del “governo dell’autonomia”. Attualmente, sulla base del modello degli Organi collegiali, il modello parlamentare vige anche nelle scuole. In questo modello il “Parlamento” prevale nettamente sul “governo”. Personalmente, sono contrario alla partecipazione dei genitori al governo della scuola: il genitore dovrebbe essere interessato a costruire il curriculum personalizzato del figlio, ma lasciare la libertà di gestione ai docenti. Bisogna distinguere chi offre il servizio da chi è utente del servizio stesso; difendere gli utenti non significa introdurli nell’organo di governo della scuola, ma piuttosto riconoscere il diritto dei genitori all’informazione sulla qualità dell’offerta scolastica. Esistono diversi modelli di valutazione esterna, come quello in vigore in Gran Bretagna, ma anche laddove non sia ancora universalmente operante un sistema di valutazione nazionale, come nel nostro paese, lo scambio di informazioni tra genitori decide se una scuola debba o meno chiudere, spostando le iscrizioni dei figli. Esiste una fortissima resistenza della scuola all’innovazione, poiché la scuola italiana è chiusa in un blocco storico conservatore, fondato sull’amministrazione e sui sindacati. La politica, a sua volta, ha tempi troppo lunghi, come si è visto anche per il governo Berlusconi. Tuttavia la causa più profonda è probabilmente l’orientamento della società civile italiana, scarsamente propensa a collocare l’educazione al primo punto dell’agenda del paese.

Valentina Aprea – Una breve replica sui tempi della politica. I processi di cambiamento dei sistemi educativi sono molto lunghi, sia nella fase di elaborazione che di attuazione. Purtroppo, la fase di elaborazione nel nostro paese si sta prolungando in maniera ormai tragica da svariati decenni, non da ultimo a causa degli interessi corporativi di cui si è parlato. Non sono sufficienti tre o quattro anni per modificare un sistema così parcellizzato, così diffuso sul territorio e politicizzato; ne occorrono almeno dieci. Al governo Berlusconi, di cui ho fatto parte, sono stati riconosciuti risultati molto positivi. In cinque anni siamo intervenuti su tutto il possibile. È grave che ora il processo si interrompa.

Vincenzo Silvano – Per le scuole paritarie – come quelle raccolte nella Federazione Opere Educative – la concorrenza con la scuola statale è una realtà. Sul piano dell’organico e delle retribuzioni, ci basiamo sul sostegno delle banche per formulare una previsione di budget e dei piani di sviluppo: una gestione di tipo aziendale, perché è di un mercato che si parla. Di fatto, la nostra autonomia si estende già alla didattica: abbiamo abbracciato la figura del tutor, molto efficace soprattutto nella scuola primaria, e ci occupiamo del reclutamento dei docenti. Nelle nostre scuole viene già realizzato quanto auspicato poco fa: i genitori vengono coinvolti nel processo educativo, ma la responsabilità ultima della gestione resta in capo alla scuola. Ben venga la valutazione da parte di un sistema simile a quello inglese, in cui la libertà di scelta degli utenti del servizio scolastico si fonda su un’informazione fatta di dati oggettivi, forniti dallo Stato; per raggiungere lo stesso obiettivo in Italia, sarebbe necessaria una maggiore possibilità di intervento dell’invalsi nelle scuole, ma temo che quest’ente avrà vita breve. Il vero ostacolo alla libertà di scelta resta quello economico, risolvibile solo con un sistema come quello dei vouchers: adottati persino dalla Svezia, che dovrebbe esserci di esempio.

Giuseppe Bertagna – Parlando di autonomia, vorrei a questo punto richiamare l’attenzione solo su due derive interpretative che possono essere pericolose: l’una istituzionalistica, l’altra saintsimoniana.

Nel primo caso, siamo all’interpretazione burocratica dell’autonomia. Come se esistesse davvero un ente amministrativo non personale che si chiama scuola, comune, provincia, città metropolitana, regione e Stato, in cui un servizio che non può essere svolto senza rischi di differenziazione e di inadeguatezza al livello inferiore viene immediatamente avocato a sé dall’ente di livello superiore. Quasi fosse una questione di strutture da gestire, e non di persone che, a livelli diversi di organizzazione, appunto la scuola, il comune, eccetera, cercano e creano una “compagnia reale” di altre persone per risolvere insieme e al meglio qualcosa che, affrontato in solitudine e in ordine sparso, sentono di svolgere peggio.

Nel secondo caso, siamo a un’idea purtroppo molto diffusa: quella che vi sia un gruppo di tecnici intelligenti, esperti e capaci, distinti da una massa inconsapevole, il popolo, che ha bisogno della guida “illuminata” e “sostitutiva” dei primi. Fino al paradosso percorso dall’attuale politica ministeriale che, in nome dell’autonomia delle scuole, insegna filantropicamente alle scuole come la devono esercitare. Come se gli insegnanti, i rinati provveditorati, il ministero fossero gli unici a poter decidere sul progetto educativo e sulla sua qualità della formazione, perché “tecnici”, perché depositari di un sapere esperto, mentre la “plebe” periferica non sarebbe in grado, per sé, di esercitare la libertà e la responsabilità dell’educazione, ma avrebbe solo il compito di essere grata ai “tecnici” che provvedono ad insegnargli come esercitare l’una e l’altra. Chi la pensa in questo modo dovrebbe proprio rileggere il Kant di Che cos’è l’Illuminismo.

L’autonomia, per essere reale, ha bisogno di superare queste due derive, e di non dimenticare mai la consapevolezza pedagogica che la deve animare a tutti i livelli della sua estrinsecazione: ogni persona, nessuna esclusa, è libera e responsabile dei suoi atti, e solo il dialogo e l’incontro tra persone libere e responsabili suscita educazione.

Vorrei tornare sul concetto dell’uniformità educativa. Se lo Stato emana una serie di “norme generali”, queste riguardano solo i contenuti dell’educazione – le competenze di base indicate dall’Europa, di cui si parlava prima – o anche i valori civili e morali?
Mi sembra che, quando arriviamo alla questione valoriale, la domanda sulla libertà di educazione si complichi notevolmente. La libertà può spingersi fino a mettere in discussione non sono solo le conoscenze, ma la stessa identità su cui si fonda la nostra convivenza? Tra le possibilità di scelta, contempliamo anche quella che i genitori – attori educativi a tutti gli effetti – neghino un’istruzione pubblica ai loro figli? Oppure, ancora, che una comunità decida di dare vita, in totale autonomia, a una scuola fondata su valori e principi radicalmente diversi rispetto a quelli tra i quali viviamo? E che fine fa a questo punto l’uniformità garantita dallo Stato?

Valentina Aprea – L’uniformità non è necessariamente un valore per la scuola. Nel caso di via Quaranta a Milano, il nome “scuola” non è appropriato: più che della palestra di educazione, di istruzione, di cittadinanza che abbiamo presente, si tratta di una palestra di fondamentalismo, centro di educazione privata che non ha nulla a che vedere con la cittadinanza attiva, con l’occupabilità, con l’educazione permanente.

Per la scuola propriamente detta i veri valori consistono nell’efficacia, nell’offerta di opportunità, nella praticabilità dell’istruzione che prevede un ruolo attivo del soggetto. L’imitazione delle scuole statali da parte delle paritarie vorrebbe dire invece la negazione del principio di libertà: condivido il pensiero del cardinal Scola, che indica una serie di requisiti minimi da rispettare per tutte le scuole: un rigoroso accreditamento, il rispetto della Costituzione, l’apertura a tutti, la gratuità e la qualità. Fermi restando questi punti, nulla impedisce di riconoscere anche scuole islamiche che li osservino: purché l’educazione sia improntata agli obiettivi che ho già descritto.

Mi sembra, in ogni caso che, con riferimento alla necessità di garantire il pluralismo educativo, attraverso la libertà di scelta educativa e la fiscalità generale, valgano sempre le riflessioni di Don Milani del 9 marzo 1961: «Non si può esaltare l’idea della scuola di Stato senza descriverne la realtà, così come non si può denigrare la realtà della scuola dei preti senza citarne l’idea […] . Certo che oggi lo scandalo più grosso non è che pochi ebrei o protestanti come contribuenti siano costretti ad aiutare anche qualche scuola di preti, ma piuttosto che milioni di contribuenti cristiani e poveri siano costretti come contribuenti a finanziare una scuola di Stato profondamente anticristiana».

Giovanni Cominelli – Mi sembra che occorra discutere della concezione della convivenza di diverse culture nella società civile, prima ancora che di istruzione. Se la nostra scuola non è in grado di trasmettere i valori basilari della nostra tradizione culturale ai nostri figli, sarà impossibile che riesca a inculcarli a ragazzi provenienti da altre culture e religioni. Assistiamo oggi a un conflitto aperto tra almeno tre tavole di valori: quelli cristiani, quelli della secolarizzazione e quelli islamici. La convivenza civile si muove in un difficile equilibrio: la Carta costituzionale, che è basata sul primato della persona e delle libertà, resta il quadro in cui risolvere eventuali conflitti. Questi principi devono restare premesse indispensabili. Ogni attività formativa che li violi deve essere bloccata. In altre parole, i valori non sono un oggetto di insegnamento, ma la precondizione dell’insegnamento stesso: solo i progetti educativi di quale che sia orientamento culturale o religioso che ne tengano conto, possono essere ammessi e incoraggiati.

Vincenzo Silvano – L’integrazione è possibile dove c’è il rispetto delle culture. Sono completamente d’accordo sul fatto che chiunque debba poter fondare scuole, nel rispetto di alcuni vincoli, il principale dei quali è la nostra Carta costituzionale. Una volta rispettate le regole basilari, citate dal cardinal Scola, vi sia poi la più piena libertà su contenuti e metodi. Ad esempio, nella Federazione delle Opere Educative sono presenti anche realtà non cattoliche – come la scuola ebraica di Milano – e i nostri istituti ospitano immigrati di religioni diverse: questo in virtù del principio di libertà, che ci è caro. Il vero problema è il metodo da adottare, in una scuola che non propone più nulla – ne ha parlato Don Giussani ne Il rischio educativo – per insegnare quella tradizione che è alla base dell’educazione dei nostri ragazzi.

Giuseppe Bertagna – Condivido quanto si è già detto. Per questo mi concentrerei su un aspetto: non darei per scontato che i contenuti e i valori dell’educazione che scaturiscono dalle “norme generali” dettate dalla Repubblica a fondamento dell’autonomia delle singole istituzioni scolastiche siano due cose diverse e separate. I contenuti, infatti, si scelgono perché hanno valore e i valori non possono non essere indicati anche come contenuti. Da questo legame non si può uscire. L’idea di “norme generali” neutre assiologicamente è una frode ideologica. Pensiamo, ad esempio, al concetto di persona che, come è noto, è cosa ben diversa da quello di individuo e di soggetto. È senza dubbio per la nostra tradizione, da Severino Boezio a Kant e Rosmini, il valore “sussistente”. Potremmo dire, perciò, il più grande. Eppure questo valore per noi massimo, e che, ad esempio, la legge n. 53/03 e i suoi decreti attuativi hanno posto al centro del sistema di istruzione e di formazione, non appartiene, come concetto, come contenuto, a molte altre “culture” antropologiche esistenti. Per esempio, non si ritrova, con le referenze che la contraddistinguono, nella cultura musulmana o buddista o cinese/confuciana. Se questo valore non è neppure concepito, come si può pensare che si possa trasmetterlo come contenuto?

Se ammettessimo, d’altra parte, che esiste un metodo educativo avalutativo, valido per tutte le culture e per tutte le biografie personali, indifferente ai contenuti, dovremmo concludere che si potrebbe anche insegnare il Corano alla maniera con cui Tommaso insegnava la Bibbia, e viceversa. Sappiamo bene, però, che non è così: nelle scuole coraniche, ad esempio, l’apprendimento a memoria del testo sacro (metodo) non è soltanto un contenuto fondamentale dell’insegnamento, ma è anche il valore educativo più importante che il fedele musulmano è chiamato ad interiorizzare. Si è disposti a duplicare questo atteggiamento per la Bibbia? La nostra tradizione non è di sicuro questa. Il metodo stesso, quello ermeneutico, di chi scava senza sosta e mai in maniera definitiva nelle pagine del testo sacro per incontrarne l’ispirazione più profonda, mai data una volta per tutte, è allo stesso tempo un contenuto e un valore.

Se esiste, dunque, un plesso indistinguibile e integrato tra metodi, contenuti e valori dell’insegnamento, non possiamo immaginare che le “norme generali” sull’istruzione, a loro volta integrate con le “norme” primarie e secondarie che reggono l’intero della Repubblica, siano neutre e adiafore. Si schierano per il fatto stesso di esserci. E sono quelle nelle quali tutti, avendo scelto il metodo democratico per definirle, dobbiamo riconoscerci e alle quali deve riferirsi l’azione di ogni cittadino. Per questo chiunque sia cittadino italiano e viva nelle nostre leggi, sia ebreo o musulmano o ateo, è tenuto a rispettarle. Il discorso vale anche per le scuole promosse da ebrei, musulmani, atei o cattolici: se esse educano rispettando in forma e sostanza la Costituzione e le norme generali sull’istruzione stipulate dalla Repubblica italiana, hanno tutte anche il diritto all’equipollenza, alla parità con le scuole statali. E io spero presto anche alla piena parità economica. Hanno questo diritto perché sono tutte occasioni per allargare ed esaltare gli spazi democratici di libertà e di responsabilità della nostra Repubblica. In questa prospettiva, non mi scandalizza nemmeno l’istruzione paterna: la possibilità che un genitore istruisca da sé il figlio, o la affidi a un precettore o faccia, come in America, home schooling. Purché questo avvenga, appunto, nel rispetto delle norme costituzionali e di legge, a tutela del diritto all’educazione di ciascuno, rispetto che la Repubblica deve naturalmente verificare. Perché nel nostro paese non ci deve essere la libertà anche di non mandare i figli a scuola, magari solo a quella statale, per istruirsi e per educarsi come esigono le norme della Repubblica e come la Repubblica ha poi il dovere di controllare che accada? La libertà responsabile non è sempre meglio dei divieti, perfino di quelli “illuminati”?

 

La tavola rotonda “L’educazione tra libertà e responsabilità”, di cui sono qui riportati gli atti, si è svolta a Roma il 15 settembre nella sede della Fondazione Ideazione. È stata condotta da Paola Liberace, direttore generale della Fondazione Ideazione.



Valentina Aprea, parlamentare di Forza Italia, fa parte della commissione Cultura della Camera dei deputati.

Giuseppe Bertagna, direttore del dipartimento di Scienze della persona dell’Università degli Studi di Bergamo.

Giovanni Cominelli, responsabile delle politiche educative della Compagnia delle Opere.

Vincenzo Silvano, presidente della Federazione Opere Educative.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuilleton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006