Oltre il partito unico, la missione di Berlusconi
di Domenico Mennitti
Ideazione di novembre-dicembre 2006

Gli ultimi echi della campagna elettorale di primavera si sono spenti nel caldo torrido dell’estate. Berlusconi si è fatta una ragione: si perde anche per ventimila voti e si perde, quando il risultato è stato proclamato, anche se i conti delle schede non dovessero quadrare. In Parlamento vige la legge del fatto compiuto; è difficile che i ricorsi vengano seriamente valutati e, se fondati, accolti. Chi arriva al Palazzo, ci resta; chi rimane fuori, aspetta. Magari per un lustro, se la legislatura riesce ad arrivare sino in fondo.

Peraltro a settembre, a settembre di ogni anno da quando nel 1978 fu varata la riforma della contabilità dello Stato, va in scena la legge finanziaria. Da diversi anni si ascoltano voci di dissenso sulla opportunità di tenere in vita un provvedimento così complesso ed onnicomprensivo; però le voci contrarie durano qualche giorno, la legge resta il più difficile passaggio parlamentare che tutti i governi debbono affrontare. Alla Camera e al Senato la Finanziaria è paragonata alle forche caudine: è impossibile citare a mente i governi che non hanno superato la prova, ma sono stati tanti. Il numero enorme delle votazioni, molte a scrutinio segreto, rende il campo accidentato e spiega il sempre più ricorrente ricorso ai voti di fiducia. Ma non sempre sono risolutivi perché stanare il franco tiratore non è la soluzione del dissenso, semmai lo rende più rancoroso e forte. Insomma è il clima politico che conta e questo, francamente, non dà l’idea di potersi orientare al bello.
I primi mesi di governo si sono svolti all’insegna della precarietà. È venuto in evidenza uno stato diffuso d’incertezza con una rapidità che neppure la congrega dei menagramo aveva valutato così immediato. Basta quel gruppetto di senatori border line, come si definiscono, a tenere Prodi sulla graticola. Ad ogni votazione, senza preavviso ma soprattutto senza ragione, possono mandare, come si dice in gergo, il governo sotto. È un bel pasticcio: non solo perché così governare diventa impossibile, ma anche perché l’instabilità è il tarlo che corrode le coalizioni.
Questi rilievi sono sotto gli occhi di tutti ed hanno dato vita a due schieramenti: il primo spera, il secondo dispera. Nessuno però riesce a produrre impulsi politici rilevanti. È una partita che si gioca per prendere o, piuttosto, per perdere tempo: il rischio è che nessuno punti a vincerla per paura del dopo, quando bisognerà definire una soluzione alternativa.

Esplicitiamo il dilemma: l’Unione è in difficoltà, non ha i numeri e spera di tirarla per le lunghe; la Casa delle Libertà ritiene che lo sbocco della crisi di governo non determinerebbe elezioni immediatamente anticipate, teme che dopo Prodi le soluzioni ipotizzabili possano incrementare piuttosto che ridurre l’interesse verso tentazioni di avventure solitarie, considera azzardato pertanto assumere una iniziativa dirompente subito. Così si produce uno stato di paralisi istituzionale che, a sua volta, rende evidente la crisi della politica, che notoriamente non gode di ottima salute. Il rischio vero emerso dalle elezioni di primavera è che l’Italia divisa in due diventi una gran palude, una specie di ritiro termale dove gli uni e gli altri curano i muscoli senza sapere se, quando e perché dovranno usarli. Nell’ozio prevale la cura di se stessi, non della generalità dei cittadini. Si diffonde la preoccupazione di poter tornare ai primi anni Novanta, quando la crisi delle istituzioni si trascinò dietro la caduta dei politici ed il protagonismo degli esponenti di altri poteri.

La fuga in avanti del partito unico del centrodestra
Siamo dentro il tatticismo esasperato. La politica si svolge attraverso i comunicati che i mezzi di informazione enfatizzano: ogni giorno sembra che tutto precipiti e tutto invece resta dov’è. Prodi percorre la stessa strada di Berlusconi. Lamenta persino da parte di giornali e tv comportamenti ostili, ma così funziona la comunicazione politica quando mancano i grandi progetti: diventa importante quel che fa più clamore e vanno in prima pagina le notizie che più sollecitano la curiosità dei lettori frettolosi e superficiali. Non è un caso che, alla resa dei conti, i giornali non riescano più ad orientare i comportamenti elettorali di chi pure li legge ogni giorno.
Che cosa fare? La risposta è semplice, addirittura chiara ed univoca, tuttavia di realizzazione difficile: recuperare il senso della politica, il suo ruolo, la sua funzione. I grandi temi fanno fatica ad affermarsi: il partito unico è aspirazione della destra, ci pensa pure la sinistra ma, ogni volta che si convoca una riunione, in convento o al ristorante, l’obiettivo sembra allontanarsi. E il giorno successivo gli schieramenti appaiono nelle rispettive coalizioni più frantumati di prima, più concorrenti.

Dedicheremo anche noi approfondimenti ed analisi al partito democratico al quale stanno lavorando, con spirito diverso, ds e Margherita e contro il quale remano i cosiddetti movimenti della sinistra radicale; è buona regola però guardare prima in casa propria, dove in verità i problemi non mancano e dove un processo di accelerazione degli eventi è auspicabile. La Casa delle Libertà comincia ad essere stretta per tutti e bisogna fare qualcosa prima che scatti un caso irresolubile di emergenza abitativa.
Quando si chiuse la competizione, Giovanni Sartori scrisse sul Corriere della Sera che non si poteva obiettivamente celebrare un solo vincitore: Berlusconi aveva vinto la campagna elettorale, però Prodi aveva vinto le elezioni. Conclusa la laboriosa fase della scelta dei più alti vertici istituzionali, il giudizio acquisì un nuovo elemento: l’Unione aveva fatto cappotto, accaparrandosi il presidente della Repubblica e quelli delle due Camere; la Casa delle Libertà, impegnata a dirimere le controversie interne, si è ritrovata ad affrontare la legislatura senza aver piazzato un solo esponente proprio nei ruoli-chiave del sistema costituzionale. Questa condizione influisce sul ritmo del percorso parlamentare, sull’esito dei provvedimenti, sulle prospettive di resistenza del governo e perciò è urgente che il centrodestra adotti una strategia chiara a tutti, innanzitutto a se stessa e poi ai suoi elettori.

Il tema ancora al centro del confronto si intitola partito unico. Lo invoca a gran voce Forza Italia, si esprime con meno diffidenza an, non è più pregiudizialmente contraria la Lega, risponde sempre negativamente l’udc. Rivive lo schema delle diversità paralizzanti, che ormai sono la espressione più evidente del malessere che attanaglia la Casa delle Libertà e non le consente più di cogliere una delle occasioni propizie. È evidente che da questa condizione d’impotenza occorre uscire, perché in politica ci sono i momenti della mediazione e quelli della decisione e guai a sbagliarne il tempo.
Si va facendo largo l’ipotesi di fondare in Italia il partito popolare europeo. Il riferimento è suggestivo, ma politicamente ed elettoralmente senza senso. Il ppe è una entità priva di organizzazione, estranea alle linee che ogni movimento politico aderente adotta nelle singole nazioni. A Bruxelles il partito è ospitato in un palazzotto poco vissuto, riunisce il suo bureau con scadenze lunghe registrando frequentazioni poco entusiaste e poco entusiasmanti, si affida da anni alla gestione burocratica di un presidente, Wilfried Martens, che è un padre nobile sulla via del pensionamento. Il suo vero ruolo è di tenere insieme formazioni politiche di vari paesi e uomini di non omogenea estrazione che riconoscono sacro il principio della libertà e di costituire con essi il più grande gruppo presente nel Parlamento europeo. A Bruxelles e a Strasburgo il partito popolare esprime il più alto valore di coesione politica, nei singoli paesi è considerato il gruppo nel quale convergono gli eletti. Il ppe raccoglie le truppe da tutta Europa, la direzione strategica ha sede nel cuore dell’Unione. La forza elettorale si costituisce in ogni paese, dove ogni partito schiera i propri uomini, presenta i programmi, raccoglie i consensi.

È pensabile che la Casa della Libertà possa risolvere i problemi dell’assenza di compattezza sulle vertenze nazionali soltanto fregiandosi dell’aggettivo “europeo”? È ragionevole che si trovi l’unità dove la tensione è più diluita, lontano dal luogo dello scontro aperto, immediato, duro? E, ammesso che questa operazione sia possibile, quali tempi si dovrebbero ipotizzare per portarla a compimento, atteso che an e Lega ancora sono fuori dalla aggregazione ed ancora al loro interno discutono sulla opportunità di renderla operante? Francamente questa non sembra una soluzione possibile, piuttosto una fuga in avanti. Magari c’è anche buona fede in chi la sostiene, ma pure una dose eccessiva di ingenuità.

Completare la rivoluzione politica degli anni Novanta
Alla fantasia non si debbono mai tarpare le ali, ma la politica insegue sogni realizzabili, si alimenta di utopie che travolgono la prudenza dei pensieri e delle azioni ordinarie.
Intanto c’è un dato che merita d’essere ribadito dopo i risultati elettorali e sulla scorta dei sondaggi in circolazione: non è vero che l’Italia guarda a sinistra. Questo lo abbiamo temuto noi, quella parte di noi che ha ceduto alla tentazione di arrendersi senza combattere, dando un brutto segnale di mancanza di consapevolezza della reale forza elettorale e politica. Occorre dirlo con onestà intellettuale: c’è stato un solo uomo che si è rifiutato sino all’ultimo di alzare bandiera bianca, di dare per scontato ciò che appariva evidente ed invece – è dimostrato – si poteva evitare. Si chiama Silvio Berlusconi e va dato merito a lui, ma pure a quei milioni di elettori che hanno confermato il rifiuto a cercare nei programmi e negli uomini di sinistra la soluzione ai loro problemi. E questo per un fatto semplice, che non abbiamo saputo leggere: la sinistra ormai da circa tre lustri, perduto il riferimento alla ideologia falsa e tuttavia fascinosa del comunismo, non ha più una politica, non produce idee, non apre prospettive.
A questi cittadini abbiamo il dovere di fornire una risposta chiara e forte. Debbono farlo tutti i partiti che gravitano nell’area di centrodestra, ma è fuor di dubbio che spetta a Forza Italia il compito di essere il motore dell’iniziativa politica. Perché è stato il movimento di Berlusconi ad infrangere i vecchi schemi organizzativi, ad allentare i vincoli delle vecchie rigide appartenenze, a mettere fuori uso i meccanismi di una democrazia vissuta nel progressivo trionfo della partitocrazia impegnata ad usurpare i poteri delle istituzioni. Nei confronti di Forza Italia si sono detti e si continuano a sostenere banali luoghi comuni, a cominciare da quello stolido del partito di plastica: la materia del contenitore non dovrebbe molto intrigare gli studiosi di politologia, che però dovrebbero aver opportunamente valutato l’alta potenzialità esplosiva del contenuto, che ha generato una autentica rivoluzione culturale e politica. Sì, anche culturale: perché miti che sembravano solidissimi sono crollati e si sono diffuse dottrine che hanno stravolto atteggiamenti di acquiescenza ai vecchi canoni, hanno introdotto nuovi filoni culturali e ispirato nuovi stili di vita.

Il primo a rendersene conto, ad elezioni celebrate nel 1994, fu un analista intelligente che si chiama Massimo Cacciari; poi ci arrivò l’altro Massimo, D’Alema, che proprio sulla insufficiente analisi politica chiuse l’avventura di Occhetto, innovatore bloccato in mezzo al guado, dove era finita impantanata la sua inutile macchina da guerra. Forza Italia vinse perché erano accaduti eventi straordinari che avevano trascinato via, con la forza di un ciclone, partiti, istituzioni e almeno tre generazioni di classe dirigente; ma vinse soprattutto perché andò ad incrociare le grandi esigenze di quegli anni: la libertà, in primo luogo, in un paese che sulla libertà dei comportamenti s’era stravaccato sino a perdere il senso del suo valore. Libertà in politica e dalla politica intesa come setta, come mero esercizio del potere; libertà in economia contro l’invadenza di quel pessimo imprenditore che è lo Stato; libertà nella cultura, finalmente sciolta dai vincoli di appartenenza alle ideologie dominanti (quella cattolica e quella comunista), di origini contrapposte e però unite nella trasversale gestione delle casematte. Il fervore di quei mesi oggi lo abbiamo sepolto persino nel ricordo, adusi come siamo a coltivare recriminazioni piuttosto che speranze. Ma, se è vero che la delusione purtroppo corre più dell’entusiasmo, è su quest’ultimo che si deve fare affidamento per continuare a credere nel futuro migliore.
Forza Italia farebbe bene a non impiegare il suo tempo nell’impossibile tentativo di mettere ordine in un partito che non funzionerà mai come quelli che hanno segnato il dopoguerra e dei quali talvolta avvertiamo inopportuna nostalgia. Gli elettori, quando sono delusi, richiedono sbrigativamente “pulizia”: è una domanda antica, in circolazione da sempre anche negli ambienti politici, ma non è una espressione di dialogo, di confronto oppure di scontro: esprime l’interesse punitivo di una parte a danno di un’altra. Però la politica non si costruisce sulle divisioni, sulle emarginazioni, sulle espulsioni, insomma sulla mediocrità che spinge fuori il diverso; si sviluppa aggregando, allargando la partecipazione, facendo interagire culture diverse per la definizione di un progetto unitario. In un clima di generoso slancio anche i prudenti diventano coraggiosi, gli equivoci diventano schietti. Questa fu la grande spinta di Forza Italia quando irruppe sulla scena politica e mandò il frantumi il falso presupposto che il paese guardava a sinistra, che la cultura fosse di sinistra, che la vittoria fosse destinata alla sinistra.

Quel che occorre ora è una nuova poderosa spinta in questa direzione. Sino a quando l’esito della grande aggregazione conservatrice e liberale sarà affidato alla mediazione degli inquilini della Casa, il nodo non si scioglierà e l’iniziativa politica languirà. Berlusconi è chiamato a questa nuova, grande prova per compiere il processo avviato dodici anni fa. Allora lasciò intravedere un ruolo attivo della borghesia italiana, rivalutandola come la classe capace di elaborare e realizzare un progetto di sviluppo. L’esercito delle partite iva si disse, volendo intendere un gruppo compatto di produttori di beni. In questi anni – a cavallo dei due ultimi papati e per impulso di entrambi – si è compreso che, oltre ai beni, occorre produrre valori per dare all’uomo una dimensione equilibrata fra bisogni materiali e dello spirito. Alla formazione dell’alleanza si deve lavorare, restituendo alla politica un ruolo rilevante nella formazione delle coscienze. Per far esplodere questa miscela non serve un partito con regole disciplinari e gerarchie fasulle, serve un grande movimento di popolo che trascini le rassegnate schiere delle organizzazioni oggi in campo. È una sfida nuova per rompere l’assedio. Non puntiamo a sopravvivere, vogliamo vincere.

Domenico Mennitti, sindaco di Brindisi, presidente della Fondazione Ideazione.

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