«Vi racconto la mia battaglia contro le tasse»
intervista a Grover G. Norquist di Tiziano Buzzacchera
Ideazione di novembre-dicembre 2006

La prima impressione che si ha di lui è che porti su di sé il fardello della sfida che combatte da anni. Lo si intuisce dallo sguardo, soprattutto. Ma non se la sente di fare a pugni col destino che gli ha riservato un onere ingrato eppure affascinante, quello di lanciare l’assalto contro il fisco rapace, quella mano visibile che Bastiat ritrasse così vividamente nei suoi scritti. E quando comincia ad affastellare cifre, a mettere in fila percentuali e a dar fuoco alla miccia degli ideali, si capisce che lui crede in quello che fa e che quella sfida è destinato a vincerla. Stiamo parlando di Grover Norquist, presidente di Americans for Tax Reform (atr), associazione che, fondata anche grazie alla spinta di Ronald Reagan, ha fatto dell’azione politica in tema di riforma fiscale un baluardo della difesa dei diritti individuali degli americani. Norquist è arrivato in Italia in occasione del Seminario Mises e lo abbiamo intervistato per Ideazione.

Ci parli di Americans for Tax Reform. La vostra storia si intreccia con quella del Partito Repubblicano.
Occorre anzitutto ricordare che il Partito Repubblicano è diventato il partito anti-tasse solo di recente. Prima e dopo la guerra civile americana, al Nord prevalevano i Repubblicani, che erano sostenitori delle tasse e del governo interventista, ed al Sud i Democratici. Per fare un altro esempio, Goldwater, nel 1964, si oppose al taglio delle aliquote fiscali di John F. Kennedy. Poi, negli anni Ottanta, giunse Reagan, ed i suoi tagli alle tasse contribuirono a far ripartire l’economia americana e ad accelerare la crescita. All’inizio degli anni Novanta, George Bush Senior incentrò la campagna elettorale sul famoso slogan anti-fiscale “Read my lips”, basta tasse. La sua amministrazione fece bene in svariati campi, fra cui quello della politica estera, ma tradì le promesse in tema fiscale, aumentando le tasse, cosa che l’atr sottolineò ripetutamente e che ci portò a criticare il governo. Negli anni successivi abbiamo lanciato il Taxpayer Protection Pledge: un impegno, sottoscritto dai candidati alle varie cariche pubbliche, a non firmare, approvare o proporre qualsiasi sorta di provvedimento che vada ad aumentare l’imposizione fiscale. Attualmente, la Pledge è sottoscritta da 223 membri della Camera dei Rappresentanti, 47 membri del Senato e dal presidente George W. Bush Jr. Fra questi firmatari vi sono anche quattro Democratici. La Pledge si è in seguito estesa ad altre tematiche nel Contract with America del 1994. Queste iniziative hanno contribuito a rendere più ideologiche le elezioni, a polarizzarle.

Cosa intende dire?
Che oggi le elezioni presidenziali non sono più solo una sfida fra candidati, ma anche uno scontro fra due modi di pensare la società: da un lato abbiamo “coloro-che-prendono”, quelli che credono che il fine della politica sia sostanzialmente quello di redistribuire sussidi e sovvenzioni e di ficcare il naso nella vita della gente; dall’altro c’è la coalizione di “coloro-che-vogliono-essere-lasciati-in-pace”: degli uomini d’affari che non vogliono che i loro affari siano tassati; dei proprietari di armi che non vogliono che il governo li disarmi; degli homeschoolers che vogliono educare i loro figli a casa e che chiedono solo che lo Stato non si impicci di questo. La nostra responsabilità, quella dei gruppi single-issue, è di educare l’opinione pubblica, di accendere l’impegno politico, di spostare voti sui temi che contano. I nostri incontri della “Center-Right Coalition” hanno il fine di riunire coloro che condividono il principio del “lasciateci-in-pace”. È improbabile che coloro che partecipano ai meeting si troveranno in sintonia con gli altri partecipanti su ogni tema, ma ha poca importanza: ciò che conta è che siano d’accordo sul fatto che il diritto degli altri partecipanti ad essere “lasciati-in-pace” debba essere protetto. A sinistra questo non si può fare: su quel fronte, si riuniscono dipendenti pubblici che vogliono i soldi statali, ambientalisti che chiedono più finanziamenti per l’ambiente e così via. Sono solo parassiti che concorrono per ottenere più fondi dal governo centrale. Ma i soldi, prima o poi, finiscono.

Può approfondire la portata ed il funzionamento dei meeting della “Center-Right Coalition”?
Oggi si tengono 53 incontri in 43 Stati. Questi incontri sono fondamentalmente diversi fra loro, in quanto vi partecipano gruppi diversi, e diverso è il grado con cui essi rappresentano fedelmente il centro-destra. Queste differenze emergono anche dal fatto che diverse sono le caratteristiche degli Stati, quindi una coalizione conservatrice in Stati liberal come le Hawaii o il Vermont affronta sfide diverse rispetto a quelle presentate da altri Stati più a destra come la Virginia o l’Oklahoma. Proprio per questo, non esiste uno standard di ampiezza della partecipazione: i gruppi piccoli sono tanto importanti ed efficaci quanto quelli più grandi. Il fine principale dei nostri incontri non è quello di costringere le persone ad aderire ad agende politiche che non ritengono rispecchiare le loro idee: in realtà, la partecipazione serve per far conoscere agli altri ciò che si sta facendo, per apprendere ciò che gli altri fanno e per condividere strategie. Ecco perché si cerca di far parlare tutti i presenti per alcuni minuti sulle attività dell’organizzazione che rappresentano. Naturalmente, quando il numero di partecipanti cresce, diventa più complicato far parlare tutti, quindi occorre una miglior gestione del tempo. Al di là delle questioni organizzative, la cosa più importante è che questi incontri devono essere propositivi: non è il momento di lamentarsi del passato, ma bisogna guardare al futuro. Questo deve essere l’atteggiamento da tenere anche nei confronti di esponenti politici che siano presenti agli incontri: è inutile criticare ciò che essi hanno o non hanno fatto. Bisogna aiutarli a fare in modo che non commettano più gli stessi errori.

Qual è la ragione fondamentale dell’eccezionalità americana? Perché negli Stati Uniti esiste e prospera una maggior sensibilità nei confronti della protesta fiscale?
Vi sono diversi motivi a monte di questo fenomeno. Anzitutto, gli Stati Uniti sono stati, fin dalla loro origine, una società di proprietari: circa l’80 per cento dei coloni possedeva una proprietà e questo ha incentivato l’antipatia nei confronti delle tasse. Fondamentalmente, gli americani hanno conosciuto, nel corso della loro storia, solo le tasse sul commercio, mentre quelle sul reddito sono un evento relativamente recente. Inoltre, abbiamo costruito un sistema politico fondato su una stabile divisione dei poteri e sulla rule of law che ha minato le possibilità del socialismo di imporsi nella nostra nazione. Abbiamo al massimo sperimentato una forma blanda di socialismo come il New Deal, ma non ci siamo spinti oltre. Infine, anche l’assenza di invidia ha contribuito a rendere ognuno più sicuro nei propri possessi.

Capitolo amministrazione Bush. Qual è la sua opinione in proposito? Negli Stati Uniti, gli analisti conservatori sono divisi fra l’apprezzamento per i tagli fiscali e l’esplosione della spesa pubblica, tanto da costringere alcuni commentatori a parlare del Partito Repubblicano come emblema del “Big government”.
Bush Jr. ha contribuito molto più di Reagan alla lotta contro lo statalismo e la tassazione. Reagan propose e mise in atto tagli fiscali, ma solo perché era convinto che così si potesse finanziare la spesa pubblica più facilmente, aumentando il gettito. Per Reagan, le spese pubbliche erano ancora una buona cosa. Bush invece, in campagna elettorale, ha sostenuto fermamente di voler tagliare le tasse per diminuire la spesa pubblica, per affamare la bestia. Ha invertito la tendenza, affermando che la spesa del governo è un male. Ed in effetti, ogni anno, ha tagliato le aliquote fiscali: 2001 (taglio di 700 miliardi di dollari), 2002, 2003 e 2004. Per quel che concerne la spesa, invece, bisogna tenere conto che, prima dell’11 settembre, aveva già cominciato a crescere perché, se la Camera dei Rappresentanti era in mano ai Repubblicani, il Senato era controllato a maggioranza dai Democratici, i quali hanno promosso delle misure che hanno aumentato la spesa. Dopo l’11 settembre, però, il governo ha cominciato a spendere di più sia in politica interna, sia per la sicurezza nazionale, fino all’aumento spropositato causato dalla guerra in Iraq.

Le presidenziali del 2008 si avvicinano, la corsa per la candidatura alla Presidenza prosegue. Un suo giudizio?
Penso che i Repubblicani vinceranno perché gli americani sono in maggioranza conservatori e perché la squadra repubblicana è più forte ed organizzata. Inoltre, negli Stati Uniti abbiamo una grandissima maggioranza di governatori di destra. Sui candidati, George Allen è in buoni rapporti con le associazioni di contribuenti, con gli attivisti per la famiglia e con i proprietari di armi. Mitt Romney ha due vantaggi: anzitutto, governa in uno Stato in cui esiste una televisione che copre il territorio del primo Stato delle primarie, vale a dire il New Hampshire e, in secondo luogo, sarà più facile conquistare quest’ultimo con volontari che faranno campagna elettorale nello Stato in cui vivono e che potranno spostarsi in macchina senza il bisogno di volare per il paese, parlare con accenti regionali e pagare i conti degli hotel. Inoltre, Romney gode di un altro punto di forza: la sua fede di mormone. La posizione della destra religiosa in tema di opposizione ai matrimoni omosessuali, condivisa da cristiani e mormoni, potrebbe coagulare consenso attorno a lui, la cui candidatura batte esplicitamente sul tasto delle politiche pro-famiglia. Bill Frist, invece, ha irritato i “social conservative” con la sua decisione di sostenere la posizione di Hatch sulla sperimentazione di cellule staminali.

Quanto a McCain, credo che sarà molto difficile per lui vincere, anche a causa della sua età, e soprattutto per le sue scelte politiche: ha più volte preso posizioni contrarie all’amministrazione Bush, ha cambiato idea sulle tasse e sulle armi. Ha sostenuto che l’America debba rallentare la propria economia per applicare il protocollo di Kyoto. McCain, però, sa che non può continuare con questo comportamento e che dovrà decidere se presentarsi come il senatore preferito dalla cbs oppure come il reaganiano che fu.

Rick Santorum si presenta con ottime credenziali: cattolico, membro della leadership repubblicana al Senato, senatore di un grande Stato. La frode elettorale a Filadelfia nel 2006 potrebbe tuttavia costargli molto cara nella corsa alla nomination repubblicana del 2008. In merito a Giuliani, le sue posizioni in tema di aborto e di matrimonio gay non gli hanno impedito di fare fund-raising per una candidatura presidenziale o minato le sue credenziali. Infine, abbiamo Jeb Bush. Dal 1998 governatore della Florida, ha tagliato del 5 per cento l’occupazione negli enti statali, ha limato le tasse, ha permesso maggiore libertà di scelta nel campo della scuola ed ha fatto approvare il “Castle Act”, un provvedimento che consente ai cittadini di difendersi dai criminali senza l’obbligo di trovarsi direttamente di fronte ad un pericolo. Attualmente, ha rigettato l’idea per evitare che si cominciasse a discutere di “Dinastia Bush”, ma non è da escludersi che possa rientrare in gioco.

Come vede il futuro della battaglia degli Americans for Tax Reform?
Sono ottimista. Siamo consapevoli che molto resta da fare. Dobbiamo fare in modo che la maggioranza al Congresso si adegui alle richieste della maggioranza del popolo americano, che è più a destra del Parlamento. Il guaio di oggi, infatti, è che abbiamo una maggioranza repubblicana, ma non conservatrice. La nostra battaglia deve essere una marcia all’interno delle istituzioni, come suggeriva Gramsci. E ce la faremo, non oggi, non domani, non fra cinque anni, forse fra dieci. Teniamo sempre a mente che l’opinione del popolo americano si identifica in gran parte con quella di gruppi come l’Americans for Tax Reform e con il conservatorismo.

Lei è intervenuto al Seminario Mises per discutere di una strategia per la libertà. Qualche suggerimento?
Si può cominciare semplicemente con un’organizzazione composta da pochi membri. Non occorre pensare di avviare una rivoluzione domani: anche per evitare che nei cittadini affiori lo scoramento qualora l’iniziativa non produca risultati sul breve periodo, è necessario concentrarsi su obiettivi anche solo minimi. Ad esempio, lavorare in vista della cancellazione delle tasse sulla benzina, che vengono percepite dai cittadini come imposte ingiuste ed inutili.

Ciò che conta davvero, però, è soprattutto attirare l’interesse dell’opinione pubblica e farsi ascoltare dai politici.

 

 

 

Grover G. Norquist, presidente di Americans for Tax Reform.

Tiziano Buzzacchera, studia Scienze politiche e Relazioni internazionali all’Università di Padova.

(c) Ideazione.com (2006)
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