Egitto, è vera democrazia?
di Marco Vicenzino
Ideazione di novembre-dicembre 2005

Le recenti elezioni presidenziali in Egitto potrebbero segnare l'inizio di un lungo processo di cambiamento che potrebbe sfociare in una forma più rappresentativa di governo. La consultazione elettorale ha probabilmente rotto il ghiaccio, ma il processo sarà lento, tutt'altro che irreversibile, potrà subire sospensioni arbitrarie in qualsiasi momento e non vi sono garanzie che possa essere completato.
Da una prospettiva immediata, le elezioni sono state un semplice espediente cosmetico nel governo rappresentativo e sono state manipolate per garantire la vittoria di Mubarak. Ma anche se si sono verificate alcune violazioni durante il recente svolgimento elettorale, queste non sono state di entità tale da invalidare la votazione. I meccanismi tesi a impedire risultati imparziali sono stati messi in moto sin dall'inizio, e andavano dal controllo governativo dell'etere al vaglio governativo di tutti i candidati che potessero rappresentare un pericolo. Le reazioni sono state, ovviamente, il cinismo e il disinteresse. Per molti partecipare alle elezioni significava legittimare un sistema autocratico illegale. Solo il 23 per cento dei 23 milioni di aventi diritto sono andati a votare. Mubarak ha raccolto l'88 per cento dei voti, e il resto è stato ripartito tra gli altri candidati.
Da una prospettiva più a lungo termine, potrebbe aver avuto inizio un processo di cambiamento. Forse è stato qualcosa di più di una semplice elezione truccata. Questo processo ha introdotto nel dibattito pubblico argomenti tradizionalmente considerati tabù, anche se ampiamente discussi nei circoli privati e diffusi attraverso le moderne tecnologie, prime fra tutte televisione satellitare e Internet.

Sono molteplici i fattori che determineranno se, come e quando avrà luogo questo cambiamento. Prima di tutto ci sono gli affari interni, capire soprattutto se il governo vuole davvero fare le riforme, se il pubblico recepirà i cambiamenti e deciderà di prendervi parte. Semplici cambiamenti di facciata continueranno a lasciare il pubblico indifferente e disilluso. Le prossime elezioni parlamentari saranno probabilmente contestate con vigore e potrebbero far emergere una visione più chiara della velocità, della forma e del grado di impegno del governo in questo processo. Ma se emergerà un'intenzione di cambiare concreta e autentica le aspettative del pubblico cresceranno. I cambiamenti diventeranno un diritto acquisito e nel tempo diventerà più difficile invertire arbitrariamente questo processo. L'assenza di violenza a sfondo politico nelle recenti elezioni ha incoraggiato molti e sarà un altro fattore determinante per la successione degli eventi. Tuttavia, se il governo decidesse di invertire questo corso e di chiudere tutti i canali di dibattito, discussione, dialogo ed espressione, potrebbe scatenarsi un ritorno alla violenza, che fermerebbe lo sviluppo, ripristinando uno status quo vecchio di decenni.
Durante questo possibile processo di cambiamento, Mubarak continuerà a trasformare la struttura del suo governo e del suo Partito nazional democratico (Pnd) per attirare un pubblico più vasto e assicurarsi la sopravvivenza nell'immediato e nel lungo termine. L'anno scorso alcuni giovani tecnocrati sono stati promossi nei ranghi più alti dei ministeri governativi. A parte le prossime elezioni parlamentari, l'obiettivo è quello di preparare Gamal Mubarak, leader del Pnd e figlio del presidente, come candidato presidenziale del Pnd per elezioni più aperte fra sei anni. Nel 2011, e salute permettendo, Hosni Mubarak sarà ottuagenario, pronto a lasciare le redini del potere al figlio e desideroso di lasciare una eredità storica dopo trent'anni di potere. Vorrà essere ricordato come il grande leader riformatore che salvò l'Egitto dall'estremismo e ne consolidò la democrazia, assicurandogli il ruolo di nazione modello e leader della regione e che garantì al paese una posizione di rispetto sul palcoscenico mondiale.

Un altro fattore determinante per il possibile cambiamento dell'Egitto è il ruolo degli Stati Uniti. L'Egitto, il secondo beneficiario degli aiuti statunitensi dopo Israele, riceve più di due miliardi di dollari all'anno. Quando il governo Mubarak ha cercato di impedire al quarantunenne Ayman Nour di partecipare alle elezioni sulla base di una discutibile questione tecnica, il segretario di Stato Rice è intervenuto risolvendo velocemente la questione. Durante una visita pre-elettorale in Egitto, la Rice aveva incontrato Nour, che poi è arrivato secondo alle presidenziali col 7 per cento dei voti.
Però non ha incontrato rappresentanti delle altre fazioni politiche, soprattutto della Fratellanza Musulmana, fuorilegge, che vanta un larghissimo e radicato supporto come movimento sociale e che assicura servizi di base agli egiziani poveri che sono la maggioranza della popolazione. Per molti in Egitto e in Medio Oriente, questo è frutto del doppio metro di giudizio utilizzato dagli occidentali, che ignorano e scoraggiano i partiti politici che non si richiamano ad una ideologia secolare occidentale. L'Occidente teme che in Egitto, o in altri Stati della regione, partiti estremisti possano vincere elezioni aperte e leali, prendere controllo e distruggere gli stessi strumenti democratici che li hanno portati al potere. L'esempio di Hamas a Gaza, e la probabilità della sua vittoria nelle elezioni parlamentari palestinesi di gennaio, è regolarmente citato.

Nello sforzo di promuovere una maggiore democrazia nella regione, gli Stati Uniti non devono sottovalutare l'importanza della religione, il suo ruolo nella politica e nella società in generale. È necessario che gli addetti alla politica estera statunitense comprendano meglio questo problema e le sue sfumature, se vogliono continuare ad avere un ruolo nella regione. Tanto più che l'Egitto, garantendo la sicurezza ai confini con Gaza, limitando l'influenza di Hamas e addestrando le forze di sicurezza palestinesi, continua a giocare un ruolo inestimabile e indispensabile nella vicenda israelo-palestinese. Da questo dipenderà anche la misura in cui gli Usa riusciranno a influenzare gli eventi in Egitto e la pressione che potranno esercitare su Mubarak.
Peraltro, la questione del terrorismo incombe sul dibattito sulla svolta in Egitto e nell'intera regione. Negli anni Novanta, il jihad islamico egiziano ha dimostrato con una serie di attacchi spettacolari di rappresentare una formidabile minaccia allo Stato egiziano. Il massacro di Luxor del 1997 ha coinvolto dozzine di turisti stranieri con conseguenze disastrose per il turismo, una delle fonti principali di reddito nazionale. La mano del jihad egiziano ha superato i confini nazionali tentando di assassinare Mubarak durante una sua visita in Etiopia, dimostrando un alto livello di sofisticazione e grande capacità operazionale. L'organizzazione fu in ogni caso sopraffatta dallo Stato egiziano e i suoi leader, il più conosciuto è Ayman Al-Zawahiri, fuggirono in esilio per unire le forze con Osama bin Laden in Afghanistan, formare al Qaeda e cominciare una battaglia globale. Pur lontano dai livelli degli anni Novanta, il terrorismo, col suo potenziale destabilizzante, continuerà a giocare un ruolo significativo nel dibattito sulle riforme. Gli attacchi di Taba e Sharm El Sheik ne sono stati brutali promemoria e bisogna ancora stabilire se si sia trattato di attacchi individuali, isolati e limitati alla penisola del Sinai, o se siano parte di un piano più vasto che prepara attentati in tutto il paese. Per ora sembra che gli ultimi attacchi terroristici non abbiano provocato cambiamenti drastici nella politica del governo. Tuttavia, se la violenza terroristica crescesse, rimane la paura che il governo potrebbe usarla come pretesto per reprimere ogni forma di opposizione e dissenso.

Osservando il Medio Oriente nel suo complesso e il Nord Africa, non c'è dubbio che nella regione sia in atto un cambiamento, anche se il ritmo e il modello non sono ancora ben delineati. Le ragioni vanno dall'intervento straniero diretto alle specifiche dinamiche dei singoli Stati, al cambio generazionale delle leadership (soprattutto in Siria, Giordania, Marocco). I casi di Afghanistan e Iraq sono chiaramente dovuti all'intervento diretto degli Stati Uniti ma altre situazioni sembrano essere più frutto delle circostanze che dell'influenza Usa. Gli attacchi terroristici in Arabia Saudita dal maggio del 2003 in poi, hanno portato alle recenti elezioni municipali e hanno introdotto il dibattito su ulteriori cambiamenti. La morte di Arafat ha certamente mutato il corso degli eventi nel quadro israelo-palestinese.
La Giordania continua a sperimentare riforme ma gli effetti del problema israelo-palestinese, soprattutto l'instabilità, e la possibilità che si riversino nel vicino Iraq, rimangono minacce reali e motivo di preoccupazione per Re Abdullah. La transizione in Libano è stata innescata dall'inettitudine diplomatica siriana, endemica dalla morte di Hefez El Assad, che ha causato la risoluzione Onu 1559 ed è culminata nell'assassinio di Rafik Hariri, sfruttato dagli Usa e dalla Francia per fare pressioni sul ritiro della Siria e garantire le prime elezioni libanesi senza la presenza siriana dall'inizio della guerra civile nel 1975. È improbabile che il cambiamento nella politica estera della Libia, principalmente nelle relazioni con gli Usa e la rinuncia alle armi di distruzione di massa, si traduca in riforme interne a breve termine. L'Algeria si sta appena riprendendo da decenni di guerra civile contro i ribelli islamisti che è costata più di 150.000 morti. L'approccio governativo illuminato di re Muhammad VI in Marocco è cominciato solo dopo la morte di suo padre, il repressivo re Hassan. Nel lungo termine, l'accordo bilaterale di libero scambio commerciale con gli Stati Uniti potrebbe portare ulteriori benefici all'economia marocchina. Il governo laico autocratico della Tunisia mantiene uno stretto controllo, offrendo in cambio standard di vita e stabilità relativamente alti, se comparati agli altri Stati della regione. L'instabilità e la turbolenza della vicina Algeria hanno permesso al governo tunisino di consolidare anche di più il suo controllo.
Gli stranieri che sostengono le riforme in Egitto e nel Medio Oriente, devono porre più enfasi sulla necessità di maggiore responsabilità e trasparenza e di investire risorse per sviluppare strutture e istituzioni della società civile, che possano crescere nel tempo. Le elezioni possono giocare un ruolo importante nel processo riformatore, ma non costituiscono l'intero processo. L'entità del supporto dovrebbe essere determinata in base alla ricettività di ogni singola società. Il successo dipenderà dalla volontà delle popolazioni della regione di perseguire ed accettare il cambiamento nel contesto delle loro esperienze storiche e culture politiche. Ogni tentativo di fare altrimenti potrebbe rivelarsi controproducente, innescare una reazione estremista e incarnarsi in qualcosa di drasticamente diverso da quello che i sostenitori delle riforme speravano.

Traduzione dall'inglese di Marta Brachini

Marco Vicenzino, è corrispondente di Ideazione da Washington. Direttore del Global Strategy Project, è stato Deputy Executive Director dell'International Institute for Strategic Studies e docente di Diritto internazionale alla School of International Service dell'American University di Washington.

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