Le recenti elezioni presidenziali in Egitto
potrebbero segnare l'inizio di un lungo processo di cambiamento che potrebbe
sfociare in una forma più rappresentativa di governo. La consultazione
elettorale ha probabilmente rotto il ghiaccio, ma il processo sarà
lento, tutt'altro che irreversibile, potrà subire sospensioni arbitrarie
in qualsiasi momento e non vi sono garanzie che possa essere completato.
Da una prospettiva immediata, le elezioni sono state un semplice espediente
cosmetico nel governo rappresentativo e sono state manipolate per garantire
la vittoria di Mubarak. Ma anche se si sono verificate alcune violazioni
durante il recente svolgimento elettorale, queste non sono state di entità
tale da invalidare la votazione. I meccanismi tesi a impedire risultati
imparziali sono stati messi in moto sin dall'inizio, e andavano dal controllo
governativo dell'etere al vaglio governativo di tutti i candidati che potessero
rappresentare un pericolo. Le reazioni sono state, ovviamente, il cinismo
e il disinteresse. Per molti partecipare alle elezioni significava legittimare
un sistema autocratico illegale. Solo il 23 per cento dei 23 milioni di
aventi diritto sono andati a votare. Mubarak ha raccolto l'88 per cento
dei voti, e il resto è stato ripartito tra gli altri candidati.
Da una prospettiva più a lungo termine, potrebbe aver avuto inizio
un processo di cambiamento. Forse è stato qualcosa di più
di una semplice elezione truccata. Questo processo ha introdotto nel dibattito
pubblico argomenti tradizionalmente considerati tabù, anche se ampiamente
discussi nei circoli privati e diffusi attraverso le moderne tecnologie,
prime fra tutte televisione satellitare e Internet.
Sono molteplici i fattori che determineranno se, come e quando avrà
luogo questo cambiamento. Prima di tutto ci sono gli affari interni, capire
soprattutto se il governo vuole davvero fare le riforme, se il pubblico
recepirà i cambiamenti e deciderà di prendervi parte. Semplici
cambiamenti di facciata continueranno a lasciare il pubblico indifferente
e disilluso. Le prossime elezioni parlamentari saranno probabilmente contestate
con vigore e potrebbero far emergere una visione più chiara della
velocità, della forma e del grado di impegno del governo in questo
processo. Ma se emergerà un'intenzione di cambiare concreta e autentica
le aspettative del pubblico cresceranno. I cambiamenti diventeranno un diritto
acquisito e nel tempo diventerà più difficile invertire arbitrariamente
questo processo. L'assenza di violenza a sfondo politico nelle recenti elezioni
ha incoraggiato molti e sarà un altro fattore determinante per la
successione degli eventi. Tuttavia, se il governo decidesse di invertire
questo corso e di chiudere tutti i canali di dibattito, discussione, dialogo
ed espressione, potrebbe scatenarsi un ritorno alla violenza, che fermerebbe
lo sviluppo, ripristinando uno status quo vecchio di decenni.
Durante questo possibile processo di cambiamento, Mubarak continuerà
a trasformare la struttura del suo governo e del suo Partito nazional democratico
(Pnd) per attirare un pubblico più vasto e assicurarsi la sopravvivenza
nell'immediato e nel lungo termine. L'anno scorso alcuni giovani tecnocrati
sono stati promossi nei ranghi più alti dei ministeri governativi.
A parte le prossime elezioni parlamentari, l'obiettivo è quello di
preparare Gamal Mubarak, leader del Pnd e figlio del presidente, come candidato
presidenziale del Pnd per elezioni più aperte fra sei anni. Nel 2011,
e salute permettendo, Hosni Mubarak sarà ottuagenario, pronto a lasciare
le redini del potere al figlio e desideroso di lasciare una eredità
storica dopo trent'anni di potere. Vorrà essere ricordato come il
grande leader riformatore che salvò l'Egitto dall'estremismo e ne
consolidò la democrazia, assicurandogli il ruolo di nazione modello
e leader della regione e che garantì al paese una posizione di rispetto
sul palcoscenico mondiale.
Un altro fattore determinante per il possibile cambiamento dell'Egitto è
il ruolo degli Stati Uniti. L'Egitto, il secondo beneficiario degli aiuti
statunitensi dopo Israele, riceve più di due miliardi di dollari
all'anno. Quando il governo Mubarak ha cercato di impedire al quarantunenne
Ayman Nour di partecipare alle elezioni sulla base di una discutibile questione
tecnica, il segretario di Stato Rice è intervenuto risolvendo velocemente
la questione. Durante una visita pre-elettorale in Egitto, la Rice aveva
incontrato Nour, che poi è arrivato secondo alle presidenziali col
7 per cento dei voti.
Però non ha incontrato rappresentanti delle altre fazioni politiche,
soprattutto della Fratellanza Musulmana, fuorilegge, che vanta un larghissimo
e radicato supporto come movimento sociale e che assicura servizi di base
agli egiziani poveri che sono la maggioranza della popolazione. Per molti
in Egitto e in Medio Oriente, questo è frutto del doppio metro di
giudizio utilizzato dagli occidentali, che ignorano e scoraggiano i partiti
politici che non si richiamano ad una ideologia secolare occidentale. L'Occidente
teme che in Egitto, o in altri Stati della regione, partiti estremisti possano
vincere elezioni aperte e leali, prendere controllo e distruggere gli stessi
strumenti democratici che li hanno portati al potere. L'esempio di Hamas
a Gaza, e la probabilità della sua vittoria nelle elezioni parlamentari
palestinesi di gennaio, è regolarmente citato.
Nello sforzo di promuovere una maggiore democrazia nella regione, gli Stati
Uniti non devono sottovalutare l'importanza della religione, il suo ruolo
nella politica e nella società in generale. È necessario che
gli addetti alla politica estera statunitense comprendano meglio questo
problema e le sue sfumature, se vogliono continuare ad avere un ruolo nella
regione. Tanto più che l'Egitto, garantendo la sicurezza ai confini
con Gaza, limitando l'influenza di Hamas e addestrando le forze di sicurezza
palestinesi, continua a giocare un ruolo inestimabile e indispensabile nella
vicenda israelo-palestinese. Da questo dipenderà anche la misura
in cui gli Usa riusciranno a influenzare gli eventi in Egitto e la pressione
che potranno esercitare su Mubarak.
Peraltro, la questione del terrorismo incombe sul dibattito sulla svolta
in Egitto e nell'intera regione. Negli anni Novanta, il jihad islamico egiziano
ha dimostrato con una serie di attacchi spettacolari di rappresentare una
formidabile minaccia allo Stato egiziano. Il massacro di Luxor del 1997
ha coinvolto dozzine di turisti stranieri con conseguenze disastrose per
il turismo, una delle fonti principali di reddito nazionale. La mano del
jihad egiziano ha superato i confini nazionali tentando di assassinare Mubarak
durante una sua visita in Etiopia, dimostrando un alto livello di sofisticazione
e grande capacità operazionale. L'organizzazione fu in ogni caso
sopraffatta dallo Stato egiziano e i suoi leader, il più conosciuto
è Ayman Al-Zawahiri, fuggirono in esilio per unire le forze con Osama
bin Laden in Afghanistan, formare al Qaeda e cominciare una battaglia globale.
Pur lontano dai livelli degli anni Novanta, il terrorismo, col suo potenziale
destabilizzante, continuerà a giocare un ruolo significativo nel
dibattito sulle riforme. Gli attacchi di Taba e Sharm El Sheik ne sono stati
brutali promemoria e bisogna ancora stabilire se si sia trattato di attacchi
individuali, isolati e limitati alla penisola del Sinai, o se siano parte
di un piano più vasto che prepara attentati in tutto il paese. Per
ora sembra che gli ultimi attacchi terroristici non abbiano provocato cambiamenti
drastici nella politica del governo. Tuttavia, se la violenza terroristica
crescesse, rimane la paura che il governo potrebbe usarla come pretesto
per reprimere ogni forma di opposizione e dissenso.
Osservando il Medio Oriente nel suo complesso e il Nord Africa, non c'è
dubbio che nella regione sia in atto un cambiamento, anche se il ritmo e
il modello non sono ancora ben delineati. Le ragioni vanno dall'intervento
straniero diretto alle specifiche dinamiche dei singoli Stati, al cambio
generazionale delle leadership (soprattutto in Siria, Giordania, Marocco).
I casi di Afghanistan e Iraq sono chiaramente dovuti all'intervento diretto
degli Stati Uniti ma altre situazioni sembrano essere più frutto
delle circostanze che dell'influenza Usa. Gli attacchi terroristici in Arabia
Saudita dal maggio del 2003 in poi, hanno portato alle recenti elezioni
municipali e hanno introdotto il dibattito su ulteriori cambiamenti. La
morte di Arafat ha certamente mutato il corso degli eventi nel quadro israelo-palestinese.
La Giordania continua a sperimentare riforme ma gli effetti del problema
israelo-palestinese, soprattutto l'instabilità, e la possibilità
che si riversino nel vicino Iraq, rimangono minacce reali e motivo di preoccupazione
per Re Abdullah. La transizione in Libano è stata innescata dall'inettitudine
diplomatica siriana, endemica dalla morte di Hefez El Assad, che ha causato
la risoluzione Onu 1559 ed è culminata nell'assassinio di Rafik Hariri,
sfruttato dagli Usa e dalla Francia per fare pressioni sul ritiro della
Siria e garantire le prime elezioni libanesi senza la presenza siriana dall'inizio
della guerra civile nel 1975. È improbabile che il cambiamento nella
politica estera della Libia, principalmente nelle relazioni con gli Usa
e la rinuncia alle armi di distruzione di massa, si traduca in riforme interne
a breve termine. L'Algeria si sta appena riprendendo da decenni di guerra
civile contro i ribelli islamisti che è costata più di 150.000
morti. L'approccio governativo illuminato di re Muhammad VI in Marocco è
cominciato solo dopo la morte di suo padre, il repressivo re Hassan. Nel
lungo termine, l'accordo bilaterale di libero scambio commerciale con gli
Stati Uniti potrebbe portare ulteriori benefici all'economia marocchina.
Il governo laico autocratico della Tunisia mantiene uno stretto controllo,
offrendo in cambio standard di vita e stabilità relativamente alti,
se comparati agli altri Stati della regione. L'instabilità e la turbolenza
della vicina Algeria hanno permesso al governo tunisino di consolidare anche
di più il suo controllo.
Gli stranieri che sostengono le riforme in Egitto e nel Medio Oriente, devono
porre più enfasi sulla necessità di maggiore responsabilità
e trasparenza e di investire risorse per sviluppare strutture e istituzioni
della società civile, che possano crescere nel tempo. Le elezioni
possono giocare un ruolo importante nel processo riformatore, ma non costituiscono
l'intero processo. L'entità del supporto dovrebbe essere determinata
in base alla ricettività di ogni singola società. Il successo
dipenderà dalla volontà delle popolazioni della regione di
perseguire ed accettare il cambiamento nel contesto delle loro esperienze
storiche e culture politiche. Ogni tentativo di fare altrimenti potrebbe
rivelarsi controproducente, innescare una reazione estremista e incarnarsi
in qualcosa di drasticamente diverso da quello che i sostenitori delle riforme
speravano.
Traduzione
dall'inglese di Marta Brachini
Marco
Vicenzino, è corrispondente di Ideazione da Washington. Direttore
del Global Strategy Project, è stato Deputy Executive Director dell'International
Institute for Strategic Studies e docente di Diritto internazionale alla
School of International Service dell'American University di Washington.
(c)
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