La lezione di McNamara
di Alessandro Turci
Ideazione di novembre-dicembre 2005

«Tre domande, signor presidente! Uno: lei sapeva di aver 162 testate nucleari installate sul suo territorio? Due: avrebbe permesso che chi le aveva piazzate le avrebbe usate contro di noi? Tre: avrebbe accettato come prezzo che la sua patria fosse distrutta dalla nostra reazione?». «Sapevo di aver 162 testate nucleari di cui 90 tattiche; avevo già autorizzato Kruschev a usarle; avrei accettato la distruzione di Cuba». Non è difficile riconoscere Fidel Castro nella figura che risponde alle domande; più arduo riconoscere in chi lo interroga Robert Strange McNamara, il presidente della Ford nominato nel 1961 da J. F. Kennedy segretario alla Difesa americana – carica tenuta per sette anni di Guerra Fredda e guerra del Vietnam – e successivamente presidente per tredici anni della World Bank.

Le memorie di McNamara sono decisive per capire il Vietnam, e infatti nel 2004 sono diventate, con The Fog of War, premio Oscar come miglior film documentario per la regia di Errol Morris. La nebbia della guerra è un'espressione adatta per descrivere quella terra di nessuno compresa tra la realpolitik e la diplomazia, una nebbia che non ha mai abbandonato McNamara e gli si è parata davanti, ancora una volta, a Cuba quando Castro nel 1992 gli ha rivelato a posteriori il suo potere e le sue possibili intenzioni. Per quanto determinato egli fosse all'epoca della crisi missilistica e per quanto determinato fosse J.F.K. (un nastro d'epoca ci permette di ascoltarne la voce mentre è riunito con il suo staff in quelle drammatiche ore del 27 ottobre 1962: «Non riusciremo comunque a tirare fuori quelle armi da Cuba trattando»), McNamara è sgomento di fronte alla possibilità che un capo di Stato – nella fattispecie Castro – preferisca, per extrema ratio, far crollare il Tempio che difende sulla propria testa. Uno sgomento, anzi un décalage, che coglie tuttavia anche lo spettatore, se pensa al McNamara “falco” conosciuto o studiato nelle vesti di capo civile della difesa americana, e quello “colomba” della presidenza progressista della Banca mondiale.

Giunto a 85 anni, egli ha deciso di raccontare a un regista solido e capace le sue azioni e finanche di giudicarle; per tenere fede alla sua fama di grande intelligenza metodica, ha sintetizzato sulla pellicola “11 lezioni” che dovrebbero servire ai diplomatici e agli uomini politici di oggi per discernere meglio tra le nebbie del presente. La prima lezione, Empathize with your enemy (Identificati con il tuo nemico), gli viene proprio dalla vicenda dei missili sovietici installati a Cuba. A consigliare Kennedy in quelle ore cruciali, oltre a lui, c'erano il generale Curtis LeMay, già superiore di McNamara per tre anni durante la seconda guerra mondiale, e l'ex ambasciatore a Mosca Tommy Thompson. È tra la linea estrema del primo e quella ragionata del secondo che si svela, appunto, la nebbia. Thompson non condivide la sfiducia di Kennedy verso il negoziato – «I don't agree Mr. President» – e lo convince: mettiamoci nei panni di Kruschev, ha bisogno di apparire come l'uomo che ha scongiurato l'invasione di Cuba; se noi permettiamo che il mondo creda questo, lui avrà una via onorevole per togliere i missili e noi avremo evitato la guerra. Così finì quella crisi. Con l'empatia verso il nemico; un Kennedy provato confesserà poi a McNamara: abbiamo vinto, anche se siamo i soli a saperlo.

A capo di un Pentagono che all'inizio degli anni Sessanta assorbiva da solo il 10 per cento delle entrate del paese e più di metà di ogni singolo dollaro di tasse, McNamara impersonificò il modello meritocratico, quello di un irlandese forgiatosi a Harvard per gli incarichi nel grande capitale, e infine approdato all'Amministrazione Kennedy. Nondimeno, alla fine di una lunga carriera – ed è questa la sua seconda “lezione” – la Ragione al potere non sembra essere una garanzia sufficiente per garantire la pace se è vero che Rationality will not save us. Tre volte vicino a un conflitto nucleare in sette anni al Pentagono, McNamara rimane convinto della straordinaria propensione all'errore nell'essere umano e denuncia le 7.500 testate nucleari esistenti oggi al mondo, di cui 2.500 con un margine di allerta di soli 15 minuti prima di essere lanciate. Colpisce certo questa saggezza senile, anche se l'uomo conserva ancora una vitalità di espressione e giudizio davvero straordinarie, a confronto con la risolutezza degli anni Sessanta, quando l'America vedeva in lui l'alfiere di una politica militare tecnocratica e finanche cinica, nella sua logica di adottare in Vietnam, per fronteggiare l'incertezza e la confusione militare e diplomatica, quelle “iniziative più decise” che erano musica per uno come Curtis Le May, all'epoca a capo dell'aviazione.

Il film è un documento straordinario da ogni punto di vista; incisiva e carismatica la regia, tramite uno stilizzato amalgama visivo dei documenti sonori dell'Amministrazione e del Pentagono che restituiscono i toni, il colore di voci, che troppo spesso si sono potute solo leggere su carta; una cosa è scorrere una dichiarazione di Lyndon Johnson, un'altra sentirlo telefonare in prima persona a McNamara il 25 febbraio del 1964 per dirgli a chiare lettere: «I always thought it was foolish for you to make any statements about withdrawing, but you and the President thought otherwise and I just sat silent. […] How the hell does Mc Namara think, when he is loosing the war he can pull man out of there?» («Ho sempre considerato folle la vostra dichiarazione di ritirare le truppe, ma tu e il Presidente la pensavate diversamente ed io sono stato zitto. [...] Come diavolo può pensare Mc Namara, quando sta perdendo la guerra, di poter ritirare gli uomini?»).

Documento di eccellenza perché McNamara, come ha scritto Stanley Karnow nella sua storia della guerra in Vietnam: «forse fece più di chiunque altro per dare corpo alla politica americana in Vietnam. Ma alla fine del 1967 perse ogni fiducia e si trovò sull'orlo di un crollo emotivo. Da allora ha sempre taciuto sull'argomento». Ne parla dunque in questo documentario, e questo basterebbe a rendere onore al progetto; se poi esso è arricchito e pervaso dalle sonorità di Philip Glass e da un ritmo drammaturgico che rispetta gli argomenti, da loro il tempo di porsi e di venire soppesati, per poi incalzare subito con l'evidenza dei drammi che scuotono le coscienze e che non possono essere risolti con uno slogan, allora il riconoscimento dell'Academy appare sacrosanto.

McNamara impersonificò l'America tecnologica che applica i principi di efficienza a tutti i settori della società: istruzione, industria e, all'occorrenza, guerra. Quello che gli riuscì alla Ford – dove peraltro guadagnava ottocentomila dollari all'anno più le stock options e ai quali rinunciò per la direzione del Pentagono che Kennedy gli offrì per un netto di venticinquemila dollari annui –, ovvero ottimizzare l'efficacia del lavoro in rapporto agli sforzi, non gli riuscì in Vietnam. Gli Stati Uniti non tennero in considerazione, ma in fin dei conti come avrebbero potuto, le motivazioni dei guerriglieri Vietcong e credettero, Pentagono in testa, che una forza adeguata – di terra, di mare, e soprattutto dal cielo – avrebbe piegato il Vietnam del Nord e lo avrebbe portato al tavolo della trattativa in posizione sfavorevole. Se alla fine della guerra sulla Regione fu sganciato un numero di bombe tre volte maggiore rispetto a tutte quelle sganciate su Europa, Africa e Asia nel corso della seconda guerra mondiale, e quel bombardamento non influì sulle sorti del conflitto, ecco che la disciplina tecnocratica degli investimenti adeguati ai quali corrispondono risultati adeguati si scioglie come neve al sole. Durante “Rolling Thunder”, l'operazione che durò dal marzo 1965 al novembre 1968 (McNamara era andato via da un anno), fatta di incursioni aeree quotidiane sul Vietnam del Nord, l'aviazione sganciò un milione di tonnellate di esplosivo, tra bombe, razzi e missili. Ma i vietcong non si arresero. Oggi McNamara suggerisce che There's something beyond one's self (esiste altro al di là di se stessi). E lo imparò a duro prezzo.

Suo malgrado aveva assistito a una spietata variante di questo principio durante la seconda guerra mondiale, quando studiava nell'aviazione l'efficienza dei bombardamenti sul Giappone. L'America si era appena dotata dei bombardieri B-29, che potevano operare da 23.000 piedi di altezza, con un rischio minimo per gli equipaggi ma scarsa capacità di produrre i risultati voluti. Dopo un suo studio i bombardieri scesero a operare a 5.000 piedi, aumentarono i rischi per gli equipaggi, ma salì in maniera esponenziale la capacità di distruzione dei bombardamenti. Maximize efficiency (massimizzare l'efficienza) è la “lezione” numero quattro, ma stride con la quinta, che dice: proportionality should be a guideline in war (la proporzionalità dovrebbe guidare le azioni in guerra). Le due atomiche americane sul Giappone arrivarono quando, grazie all'efficienza dei B-29, 80 chilometri quadrati di Tokio erano andati distrutti in una notte, così come il 58 per cento di Yokohama che corrispondeva al 58 per cento di Cleveland, il 40 per cento di Nagoya che equivaleva al 40 per cento Los Angeles, il 99 per cento di Toyama che valeva il 99 per cento di Chattanooga, il 51 per cento di Tokio, che appunto era grande quanto New York. 67 città, come Boston, come Philadelphia, come Kansans City, mutilate e carbonizzate con bombe incendiarie. La nebbia della guerra è forse questa, gli Stati Uniti senza proporzionalità vinsero nel Pacifico, con proporzionalità persero nel Sud-est Asiatico. Cosa scegliere dunque? Che la proporzionalità, ammesso che possa essere un principio convenzionale sul quale aprire un confronto, sia stata usata in Vietnam non è una provocazione; è vero che il volume di bombe fu spaventevole, ma esso risparmiò volutamente le dighe lungo il Fiume Rosso la cui distruzione, ha osservato Stanley Kurnow: «Avrebbe provocato l'inondazione della valle e ucciso centinaia di migliaia di abitanti. E le città del Vietnam del Nord non furono sottoposte a quei “bombardamenti a tappeto” che letteralmente cancellarono Dresda e Tokio». Le bombe devastarono l'area sopra il diciassettesimo parallelo, dov'era il grosso delle truppe vietcong, ma scalfirono appena Hanoi e Haiphong. Quindi la proporzionalità ispirò McNamara, che ne pagò il prezzo umano e politico, quando in una seduta a porte chiuse della Commissione senatoriale per i servizi armati, affermò che: «Sulla base di tutte le informazioni a mia disposizione, i nostri bombardamenti non possono bloccare le operazioni nemiche al Sud; l'unico modo sarebbe quello di annientare letteralmente tutto il popolo del Vietnam del Nord». Di lì a poco, Johnson lo solleverà dall'incarico.

Quando McNamara lascia il Pentagono nel 1967 l'escalation in Vietnam è già molto progredita, e 25.000 soldati americani sono morti; alla fine del conflitto, saranno 58.000. Ma Saigon non gli fu mai così presente di fronte agli occhi come nel 1965, nonostante i suoi tanti viaggi esplorativi precedenti (dai quali tornava con una versione ottimista per la stampa e una realista per il presidente, fosse Kennedy o Johnson), quando, come i monaci buddhisti perseguitati nel Sud Vietnam, il quacchero Norman Morrison si diede fuoco di fronte al suo ufficio per protestare contro la guerra. Morrison aveva in braccio sua figlia, i presenti lo scongiurarono di lasciare andare la bambina, e lui la lasciò, prima di essere divorato dalle fiamme. Per McNamara quell'azione disperata equivale a tante sue azioni di real politik – forse come il consiglio dato a Johnson di impiegare anche la riserva nazionale per risolvere il conflitto – che egli vuole ricondurre al principio in order to do good, you may have to engage in evil (per fare del bene a volte bisogna compiere del male). Duplice come il suo presidente texano, tirato per la giacca nel pantano del Vietnam quando avrebbe voluto dedicarsi solo alla costruzione della Grande Società – un'America più giusta e più attenta alle minoranze – ma in difficoltà rispetto ai temi sollevati da Goldwater nella campagna presidenziale della sua trionfale rielezione, Johnson come McNamara appaiono uomini politici dediti alla nazione e catapultati dall'assassinio di Kennedy agli onori e agli oneri della prima linea; McNamara ricorda ancora J.F.K. sconvolto, nello studio ovale, quando lo raggiunge la notizia del colpo di Stato nel Vietnam del Sud che ha prima deposto e poi assassinato Diem. In quella reazione emotiva non c'è tanto il presagio della sua propria sorte, anche se a quel punto Dallas è lontana solo tre settimane, ma il senso della coscienza dell'uomo di Stato che dispone operazioni – come sfiduciare Diem e avallare l'azione della Cia per un colpo di Stato – che poi non può controllare fino in fondo; è disincantata infatti l'ultima delle “lezioni” di McNamara: you can't change human nature (non puoi cambiare la natura umana).

Pochi conflitti come il Vietnam hanno polarizzato così acutamente le discussioni nell'opinione pubblica mondiale; poche volte la Verità si è fatta permeare così inesorabilmente dall'ideologia. Da una parte, la diplomazia americana era miope nel continuare a seguire la teoria dell'effetto domino, secondo la quale la vittoria Vietcong in Vietnam era un riflesso della vittoria di Mao in Cina e avrebbe dato l'impulso a un'espansione del comunismo in tutta l'Asia. Miope perché non vedeva e accettava che il comunismo russo, cinese, vietnamita e cambogiano altro non erano che movimenti nazionali uniti da uno strato superficiale di ideologia marxista, ma divisi nel profondo da conflitti arcaici (come quello sino-vietnamita) su base territoriale, etnica, religiosa e anche razziale. Sul versante opposto, l'antiamericanismo degli intellettuali occidentali fu parossistico nell'esaltare le virtù Vietcong e auspicare un Vietnam unito sotto il controllo di Hanoi. Alla fine della guerra è invece emersa la vera natura di quel regime che – peraltro confermando una pratica comune ai totalitarismi ortodossi – piegò la società, la dissidenza e la libertà con una spietata repressione. La verità, che dovrebbe permeare il reale e guidarne il cammino, fu invece intrisa di letture ideologiche che la sacrificarono dopo aver sacrificato 3.400.000 vietnamiti, di cui molti contadini analfabeti, sui quali le potenze della guerra fredda hanno combattuto un conflitto che è finito senza vincitori.

Proporzionalità e coscienza, responsabilità e libertà. Temi gravosi per i quali si dovrebbe diffidare da chi ha risposte pronte all'uso, e McNamara non ne ha; anzi, ha cercato nella sua stessa memoria i nodi gordiani da sciogliere e si è esposto come poche volte un uomo di Stato ha saputo fare. La mancata proporzionalità non evitò le due atomiche sul Giappone, ma come ha osservato Michael Howard nel suo The Invention of Peace «con i bombardamenti delle città nell'estate del 1945 gli americani avevano già ucciso più giapponesi di quelli che dovevano morire a Hiroshima e Nagasaki. Se le armi nucleari non fossero state inventate e se il governo giapponese non avesse chiesto la resa, essi indubbiamente ne avrebbero uccisi molti di più». Questo dilemma McNamara se lo è portato dal tempo della guerra al Giappone, alla crisi con Cuba, al Vietnam e oggi ne offre a noi lo scomodo testimone; per il Vietnam, cambiarono le cose quando un immigrato europeo della prima generazione, Henry Kissinger (nonché uno storico della diplomazia europea), si portò dal Vecchio Continente un atteggiamento che poco si addiceva all'idealismo che sino a quel momento aveva guidato la politica estera statunitense. McNamara offre il suo testimone a tutti, quindi anche all'Europa, occorre adesso che qualcuno raccolga anche da noi il fardello delle nuove responsabilità mondiali. McNamara ha cercato un'epigrafe per le sue azioni, per la sua vita, e l'ha trovata in T.S. Eliot; sono parole che meritano attenzione: «Non possiamo smettere di esplorare, e alla fine della nostra esplorazione ritorneremo da dove eravamo partiti e conosceremo quel posto per la prima volta»).



Alessandro Turci, regista, editorialista de Il Domenicale, e docente di Regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia.

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