«Tre domande, signor presidente! Uno: lei sapeva di aver 162 testate
nucleari installate sul suo territorio? Due: avrebbe permesso che chi le
aveva piazzate le avrebbe usate contro di noi? Tre: avrebbe accettato come
prezzo che la sua patria fosse distrutta dalla nostra reazione?».
«Sapevo di aver 162 testate nucleari di cui 90 tattiche; avevo già
autorizzato Kruschev a usarle; avrei accettato la distruzione di Cuba».
Non è difficile riconoscere Fidel Castro nella figura che risponde
alle domande; più arduo riconoscere in chi lo interroga Robert Strange
McNamara, il presidente della Ford nominato nel 1961 da J. F. Kennedy segretario
alla Difesa americana – carica tenuta per sette anni di Guerra Fredda e
guerra del Vietnam – e successivamente presidente per tredici anni della
World Bank.
Le memorie di McNamara sono decisive per capire il Vietnam, e infatti nel
2004 sono diventate, con The Fog of War, premio Oscar come miglior film
documentario per la regia di Errol Morris. La nebbia della guerra è
un'espressione adatta per descrivere quella terra di nessuno compresa tra
la realpolitik e la diplomazia, una nebbia che non ha mai abbandonato McNamara
e gli si è parata davanti, ancora una volta, a Cuba quando Castro
nel 1992 gli ha rivelato a posteriori il suo potere e le sue possibili intenzioni.
Per quanto determinato egli fosse all'epoca della crisi missilistica e per
quanto determinato fosse J.F.K. (un nastro d'epoca ci permette di ascoltarne
la voce mentre è riunito con il suo staff in quelle drammatiche ore
del 27 ottobre 1962: «Non riusciremo comunque a tirare fuori quelle
armi da Cuba trattando»), McNamara è sgomento di fronte alla
possibilità che un capo di Stato – nella fattispecie Castro – preferisca,
per extrema ratio, far crollare il Tempio che difende sulla propria testa.
Uno sgomento, anzi un décalage, che coglie tuttavia anche lo spettatore,
se pensa al McNamara “falco” conosciuto o studiato nelle vesti di capo civile
della difesa americana, e quello “colomba” della presidenza progressista
della Banca mondiale.
Giunto a 85 anni, egli ha deciso di raccontare a un regista solido e capace
le sue azioni e finanche di giudicarle; per tenere fede alla sua fama di
grande intelligenza metodica, ha sintetizzato sulla pellicola “11 lezioni”
che dovrebbero servire ai diplomatici e agli uomini politici di oggi per
discernere meglio tra le nebbie del presente. La prima lezione, Empathize
with your enemy (Identificati con il tuo nemico), gli viene proprio dalla
vicenda dei missili sovietici installati a Cuba. A consigliare Kennedy in
quelle ore cruciali, oltre a lui, c'erano il generale Curtis LeMay, già
superiore di McNamara per tre anni durante la seconda guerra mondiale, e
l'ex ambasciatore a Mosca Tommy Thompson. È tra la linea estrema
del primo e quella ragionata del secondo che si svela, appunto, la nebbia.
Thompson non condivide la sfiducia di Kennedy verso il negoziato – «I
don't agree Mr. President» – e lo convince: mettiamoci nei panni di
Kruschev, ha bisogno di apparire come l'uomo che ha scongiurato l'invasione
di Cuba; se noi permettiamo che il mondo creda questo, lui avrà una
via onorevole per togliere i missili e noi avremo evitato la guerra. Così
finì quella crisi. Con l'empatia verso il nemico; un Kennedy provato
confesserà poi a McNamara: abbiamo vinto, anche se siamo i soli a
saperlo.
A capo di un Pentagono che all'inizio degli anni Sessanta assorbiva da solo
il 10 per cento delle entrate del paese e più di metà di ogni
singolo dollaro di tasse, McNamara impersonificò il modello meritocratico,
quello di un irlandese forgiatosi a Harvard per gli incarichi nel grande
capitale, e infine approdato all'Amministrazione Kennedy. Nondimeno, alla
fine di una lunga carriera – ed è questa la sua seconda “lezione”
– la Ragione al potere non sembra essere una garanzia sufficiente per garantire
la pace se è vero che Rationality will not save us. Tre volte vicino
a un conflitto nucleare in sette anni al Pentagono, McNamara rimane convinto
della straordinaria propensione all'errore nell'essere umano e denuncia
le 7.500 testate nucleari esistenti oggi al mondo, di cui 2.500 con un margine
di allerta di soli 15 minuti prima di essere lanciate. Colpisce certo questa
saggezza senile, anche se l'uomo conserva ancora una vitalità di
espressione e giudizio davvero straordinarie, a confronto con la risolutezza
degli anni Sessanta, quando l'America vedeva in lui l'alfiere di una politica
militare tecnocratica e finanche cinica, nella sua logica di adottare in
Vietnam, per fronteggiare l'incertezza e la confusione militare e diplomatica,
quelle “iniziative più decise” che erano musica per uno come Curtis
Le May, all'epoca a capo dell'aviazione.
Il film è un documento straordinario da ogni punto di vista; incisiva
e carismatica la regia, tramite uno stilizzato amalgama visivo dei documenti
sonori dell'Amministrazione e del Pentagono che restituiscono i toni, il
colore di voci, che troppo spesso si sono potute solo leggere su carta;
una cosa è scorrere una dichiarazione di Lyndon Johnson, un'altra
sentirlo telefonare in prima persona a McNamara il 25 febbraio del 1964
per dirgli a chiare lettere: «I always thought it was foolish for
you to make any statements about withdrawing, but you and the President
thought otherwise and I just sat silent. […] How the hell does Mc Namara
think, when he is loosing the war he can pull man out of there?» («Ho
sempre considerato folle la vostra dichiarazione di ritirare le truppe,
ma tu e il Presidente la pensavate diversamente ed io sono stato zitto.
[...] Come diavolo può pensare Mc Namara, quando sta perdendo la
guerra, di poter ritirare gli uomini?»).
Documento di eccellenza perché McNamara, come ha scritto Stanley
Karnow nella sua storia della guerra in Vietnam: «forse fece più
di chiunque altro per dare corpo alla politica americana in Vietnam. Ma
alla fine del 1967 perse ogni fiducia e si trovò sull'orlo di un
crollo emotivo. Da allora ha sempre taciuto sull'argomento». Ne parla
dunque in questo documentario, e questo basterebbe a rendere onore al progetto;
se poi esso è arricchito e pervaso dalle sonorità di Philip
Glass e da un ritmo drammaturgico che rispetta gli argomenti, da loro il
tempo di porsi e di venire soppesati, per poi incalzare subito con l'evidenza
dei drammi che scuotono le coscienze e che non possono essere risolti con
uno slogan, allora il riconoscimento dell'Academy appare sacrosanto.
McNamara impersonificò l'America tecnologica che applica i principi
di efficienza a tutti i settori della società: istruzione, industria
e, all'occorrenza, guerra. Quello che gli riuscì alla Ford – dove
peraltro guadagnava ottocentomila dollari all'anno più le stock options
e ai quali rinunciò per la direzione del Pentagono che Kennedy gli
offrì per un netto di venticinquemila dollari annui –, ovvero ottimizzare
l'efficacia del lavoro in rapporto agli sforzi, non gli riuscì in
Vietnam. Gli Stati Uniti non tennero in considerazione, ma in fin dei conti
come avrebbero potuto, le motivazioni dei guerriglieri Vietcong e credettero,
Pentagono in testa, che una forza adeguata – di terra, di mare, e soprattutto
dal cielo – avrebbe piegato il Vietnam del Nord e lo avrebbe portato al
tavolo della trattativa in posizione sfavorevole. Se alla fine della guerra
sulla Regione fu sganciato un numero di bombe tre volte maggiore rispetto
a tutte quelle sganciate su Europa, Africa e Asia nel corso della seconda
guerra mondiale, e quel bombardamento non influì sulle sorti del
conflitto, ecco che la disciplina tecnocratica degli investimenti adeguati
ai quali corrispondono risultati adeguati si scioglie come neve al sole.
Durante “Rolling Thunder”, l'operazione che durò dal marzo 1965 al
novembre 1968 (McNamara era andato via da un anno), fatta di incursioni
aeree quotidiane sul Vietnam del Nord, l'aviazione sganciò un milione
di tonnellate di esplosivo, tra bombe, razzi e missili. Ma i vietcong non
si arresero. Oggi McNamara suggerisce che There's something beyond one's
self (esiste altro al di là di se stessi). E lo imparò a duro
prezzo.
Suo malgrado aveva assistito a una spietata variante di questo principio
durante la seconda guerra mondiale, quando studiava nell'aviazione l'efficienza
dei bombardamenti sul Giappone. L'America si era appena dotata dei bombardieri
B-29, che potevano operare da 23.000 piedi di altezza, con un rischio minimo
per gli equipaggi ma scarsa capacità di produrre i risultati voluti.
Dopo un suo studio i bombardieri scesero a operare a 5.000 piedi, aumentarono
i rischi per gli equipaggi, ma salì in maniera esponenziale la capacità
di distruzione dei bombardamenti. Maximize efficiency (massimizzare l'efficienza)
è la “lezione” numero quattro, ma stride con la quinta, che dice:
proportionality should be a guideline in war (la proporzionalità
dovrebbe guidare le azioni in guerra). Le due atomiche americane sul Giappone
arrivarono quando, grazie all'efficienza dei B-29, 80 chilometri quadrati
di Tokio erano andati distrutti in una notte, così come il 58 per
cento di Yokohama che corrispondeva al 58 per cento di Cleveland, il 40
per cento di Nagoya che equivaleva al 40 per cento Los Angeles, il 99 per
cento di Toyama che valeva il 99 per cento di Chattanooga, il 51 per cento
di Tokio, che appunto era grande quanto New York. 67 città, come
Boston, come Philadelphia, come Kansans City, mutilate e carbonizzate con
bombe incendiarie. La nebbia della guerra è forse questa, gli Stati
Uniti senza proporzionalità vinsero nel Pacifico, con proporzionalità
persero nel Sud-est Asiatico. Cosa scegliere dunque? Che la proporzionalità,
ammesso che possa essere un principio convenzionale sul quale aprire un
confronto, sia stata usata in Vietnam non è una provocazione; è
vero che il volume di bombe fu spaventevole, ma esso risparmiò volutamente
le dighe lungo il Fiume Rosso la cui distruzione, ha osservato Stanley Kurnow:
«Avrebbe provocato l'inondazione della valle e ucciso centinaia di
migliaia di abitanti. E le città del Vietnam del Nord non furono
sottoposte a quei “bombardamenti a tappeto” che letteralmente cancellarono
Dresda e Tokio». Le bombe devastarono l'area sopra il diciassettesimo
parallelo, dov'era il grosso delle truppe vietcong, ma scalfirono appena
Hanoi e Haiphong. Quindi la proporzionalità ispirò McNamara,
che ne pagò il prezzo umano e politico, quando in una seduta a porte
chiuse della Commissione senatoriale per i servizi armati, affermò
che: «Sulla base di tutte le informazioni a mia disposizione, i nostri
bombardamenti non possono bloccare le operazioni nemiche al Sud; l'unico
modo sarebbe quello di annientare letteralmente tutto il popolo del Vietnam
del Nord». Di lì a poco, Johnson lo solleverà dall'incarico.
Quando McNamara lascia il Pentagono nel 1967 l'escalation in Vietnam è
già molto progredita, e 25.000 soldati americani sono morti; alla
fine del conflitto, saranno 58.000. Ma Saigon non gli fu mai così
presente di fronte agli occhi come nel 1965, nonostante i suoi tanti viaggi
esplorativi precedenti (dai quali tornava con una versione ottimista per
la stampa e una realista per il presidente, fosse Kennedy o Johnson), quando,
come i monaci buddhisti perseguitati nel Sud Vietnam, il quacchero Norman
Morrison si diede fuoco di fronte al suo ufficio per protestare contro la
guerra. Morrison aveva in braccio sua figlia, i presenti lo scongiurarono
di lasciare andare la bambina, e lui la lasciò, prima di essere divorato
dalle fiamme. Per McNamara quell'azione disperata equivale a tante sue azioni
di real politik – forse come il consiglio dato a Johnson di impiegare anche
la riserva nazionale per risolvere il conflitto – che egli vuole ricondurre
al principio in order to do good, you may have to engage in evil (per fare
del bene a volte bisogna compiere del male). Duplice come il suo presidente
texano, tirato per la giacca nel pantano del Vietnam quando avrebbe voluto
dedicarsi solo alla costruzione della Grande Società – un'America
più giusta e più attenta alle minoranze – ma in difficoltà
rispetto ai temi sollevati da Goldwater nella campagna presidenziale della
sua trionfale rielezione, Johnson come McNamara appaiono uomini politici
dediti alla nazione e catapultati dall'assassinio di Kennedy agli onori
e agli oneri della prima linea; McNamara ricorda ancora J.F.K. sconvolto,
nello studio ovale, quando lo raggiunge la notizia del colpo di Stato nel
Vietnam del Sud che ha prima deposto e poi assassinato Diem. In quella reazione
emotiva non c'è tanto il presagio della sua propria sorte, anche
se a quel punto Dallas è lontana solo tre settimane, ma il senso
della coscienza dell'uomo di Stato che dispone operazioni – come sfiduciare
Diem e avallare l'azione della Cia per un colpo di Stato – che poi non può
controllare fino in fondo; è disincantata infatti l'ultima delle
“lezioni” di McNamara: you can't change human nature (non puoi cambiare
la natura umana).
Pochi conflitti come il Vietnam hanno polarizzato così acutamente
le discussioni nell'opinione pubblica mondiale; poche volte la Verità
si è fatta permeare così inesorabilmente dall'ideologia. Da
una parte, la diplomazia americana era miope nel continuare a seguire la
teoria dell'effetto domino, secondo la quale la vittoria Vietcong in Vietnam
era un riflesso della vittoria di Mao in Cina e avrebbe dato l'impulso a
un'espansione del comunismo in tutta l'Asia. Miope perché non vedeva
e accettava che il comunismo russo, cinese, vietnamita e cambogiano altro
non erano che movimenti nazionali uniti da uno strato superficiale di ideologia
marxista, ma divisi nel profondo da conflitti arcaici (come quello sino-vietnamita)
su base territoriale, etnica, religiosa e anche razziale. Sul versante opposto,
l'antiamericanismo degli intellettuali occidentali fu parossistico nell'esaltare
le virtù Vietcong e auspicare un Vietnam unito sotto il controllo
di Hanoi. Alla fine della guerra è invece emersa la vera natura di
quel regime che – peraltro confermando una pratica comune ai totalitarismi
ortodossi – piegò la società, la dissidenza e la libertà
con una spietata repressione. La verità, che dovrebbe permeare il
reale e guidarne il cammino, fu invece intrisa di letture ideologiche che
la sacrificarono dopo aver sacrificato 3.400.000 vietnamiti, di cui molti
contadini analfabeti, sui quali le potenze della guerra fredda hanno combattuto
un conflitto che è finito senza vincitori.
Proporzionalità e coscienza, responsabilità e libertà.
Temi gravosi per i quali si dovrebbe diffidare da chi ha risposte pronte
all'uso, e McNamara non ne ha; anzi, ha cercato nella sua stessa memoria
i nodi gordiani da sciogliere e si è esposto come poche volte un
uomo di Stato ha saputo fare. La mancata proporzionalità non evitò
le due atomiche sul Giappone, ma come ha osservato Michael Howard nel suo
The Invention of Peace «con i bombardamenti delle città nell'estate
del 1945 gli americani avevano già ucciso più giapponesi di
quelli che dovevano morire a Hiroshima e Nagasaki. Se le armi nucleari non
fossero state inventate e se il governo giapponese non avesse chiesto la
resa, essi indubbiamente ne avrebbero uccisi molti di più».
Questo dilemma McNamara se lo è portato dal tempo della guerra al
Giappone, alla crisi con Cuba, al Vietnam e oggi ne offre a noi lo scomodo
testimone; per il Vietnam, cambiarono le cose quando un immigrato europeo
della prima generazione, Henry Kissinger (nonché uno storico della
diplomazia europea), si portò dal Vecchio Continente un atteggiamento
che poco si addiceva all'idealismo che sino a quel momento aveva guidato
la politica estera statunitense. McNamara offre il suo testimone a tutti,
quindi anche all'Europa, occorre adesso che qualcuno raccolga anche da noi
il fardello delle nuove responsabilità mondiali. McNamara ha cercato
un'epigrafe per le sue azioni, per la sua vita, e l'ha trovata in T.S. Eliot;
sono parole che meritano attenzione: «Non possiamo smettere di esplorare,
e alla fine della nostra esplorazione ritorneremo da dove eravamo partiti
e conosceremo quel posto per la prima volta»).
Alessandro
Turci, regista, editorialista de Il Domenicale, e docente di Regia presso
il Centro Sperimentale di Cinematografia.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006