La via per Lisbona non passa da Kyoto
di Carlo Stagnaro
Ideazione di novembre-dicembre 2005

La strategia di Lisbona deve coniugarsi col tentativo dell'Unione Europea di “dare il buon esempio” per quel che riguarda la riduzione delle emissioni di gas serra. In effetti, il Consiglio Europeo del 2000 formulava l'auspicio di promuovere la competitività del Vecchio Continente anche attraverso l'adozione di politiche ambientali virtuose. Tuttavia, l'approccio tipicamente europeo alle politiche ambientali in generale (command and control) e climatiche in particolare (targets and timetables) è difficilmente compatibile col tentativo di rendere un'economia più dinamica e stimolarne la crescita.
È vero, per esempio, che l'innovazione è un passaggio chiave della competitività: ma questo vale solo se e quando l'innovazione è frutto di una domanda presente sul mercato, quando cioè mira a soddisfare bisogni reali. Se però essa segue incentivi pubblici (cioè sussidi o riduzioni fiscali ad hoc), allora v'è il rischio che sia orientata secondo un'agenda politica e che soddisfi più i desideri dei gruppi di pressione che quelli dei consumatori.

Il tentativo di portare a regime le emissioni rischia di entrare in cortocircuito col processo di liberalizzazione dei mercati energetici. “Liberalizzare” significa non solo aprire il mercato ad attori diversi dal monopolista pubblico. Vuol dire anche consentire ai produttori di cercare risposte diverse alla domanda di energia. Non può esservi progresso o innovazione se alcune strade sono sbarrate, altre ostacolate, in seguito a decisioni strettamente politiche. Competere nella produzione di energia implica la possibilità di sfruttare fonti diverse, valorizzando le risorse materiali e il know how di cui si dispone per fornire un servizio migliore. Difficilmente si può competere ad armi pari se chi si affida a fonti “alternative” gode di sussidi e agevolazioni legislative, mentre chi punta sui combustibili fossili è costretto a far funzionare i propri impianti a ritmi rallentati per ridurre le emissioni, oppure a pagare multe per le emissioni in eccesso. La fonte nucleare è addirittura proibita in Italia, e ovunque è soggetta a un tale calvario burocratico che i tempi di apertura di una centrale diventano talmente lunghi, e l'esito della procedura di autorizzazione tanto incerto, che pochi o nessuno sono disposti a investire in questa tecnologia (paradossalmente l'unica che può generare, allo stato attuale delle conoscenze, energia in quantità abbondante, a un prezzo relativamente contenuto, senza emissioni di gas serra).

I limiti alle emissioni hanno anche un altro effetto distorsivo. A causa del clima di incertezza che creano riguardo al futuro (quali scelte compirà l'Europa dopo il 2012?) scoraggiano ogni investimento nelle fonti fossili. L'impegno europeo sul clima è talmente carico di implicazioni simboliche da disincentivare scommesse imprenditoriali. Le politiche climatiche europee non favoriscono la competitività del Vecchio Continente e, dunque, la loro inclusione nell'ambito della strategia di Lisbona sembra ideologica e autocontraddittoria.

L'Italia: né Kyoto né Lisbona
Secondo la European Environment Agency le emissioni del paese, espresse in milioni di tonnellate di CO2 equivalente, sono salite da 508,0 nel 1990 a 553,8 nel 2002 (+9,0 per cento), mentre l'obbligo da perseguire entro il 2008-2012 è una riduzione del 6,5 per cento rispetto all'anno di riferimento, cioè 487,1. La riduzione effettiva da affrontare, quindi, è di 66,7 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, pari al 12 per cento delle emissioni del 2002 (Figura 1).
L'Italia è – a causa del suo sistema produttivo, delle già alte tasse dell'energia e quindi del costo elevato della riduzione unitaria delle emissioni, e del rifiuto di produrre energia nucleare – uno dei paesi più colpiti, da un punto di vista economico, dal protocollo di Kyoto. Il piano d'azione stabilito per perseguire tale fine individua due strategie: una serie di programmi e di misure da intraprendere a livello economico per ottenere modeste riduzioni di emissioni di gas serra in vari settori, e un acquisto massiccio di crediti di emissione1. Il Piano nazionale di allocazione delle quote è stato approvato dalla Commissione Europea dopo un lungo braccio di ferro. Bruxelles però chiede ulteriori tagli che l'industria italiana giudica inaccettabili. L'applicazione di queste misure può costare, nel solo 2006, circa 400 milioni di euro2.

Secondo uno studio dell'International Council for Capital Formation, nel 2010 l'Italia dovrà spendere tra 1,1 e 5,3 miliardi di euro all'anno nell'acquisto di crediti, a seconda del costo dei crediti stessi. Le risorse necessarie a questa operazione dovranno essere trovate attraverso l'aumento delle imposte, e ciò comporterà una crescita dei costi di beni e servizi, che a sua volta influenzerà sia il reddito reale disponibile, sia la propensione al consumo. Nella peggiore delle ipotesi, il Pil effettivo potrebbe ridursi dello 0,5 per cento all'anno sotto i livelli di base, e l'occupazione potrebbe diminuire di 51.000 posti all'anno3.
La situazione è resa più grave dal fatto che già oggi l'Italia è uno dei paesi europei dove i combustibili fossili sono più tassati: l'introduzione di ulteriori limiti al loro impiego potrebbe amplificare problemi strutturali che già oggi danneggiano l'economia. Le Figure 2 e 3 riportano il costo medio della benzina e dell'energia elettrica per grandi utenti industriali negli Stati membri dell'Unione Europea.

L'Italia fornisce un ambiente economicamente confortevole per i piccoli utilizzatori, ma perde di attrattiva nei confronti dei grossi impianti industriali (e anche dei grossi utenti domestici). Paradossalmente, questo può essere al tempo stesso causa e conseguenza di quello che è stato definito “nanismo industriale” italiano. Poiché l'economia si regge su un'ossatura di piccole e medie imprese, e poiché esse hanno un peso elettorale significativo, le tariffe (la cui definizione è frutto almeno in parte di una decisione politica) vengono fissate con un occhio di riguardo per loro. Per far tornare i conti, il costo dell'elettricità deve necessariamente salire per i grossi utenti. Questo crea da un lato un incentivo a non crescere per le aziende medie e piccole, dall'altro un incentivo a migrare per le grosse imprese italiane e a non investire in Italia per quelle straniere, specie se si basano su processi produttivi ad uso intensivo dell'energia. Del resto la criticità della politica energetica italiana – ben evidenziata nel Book Energia Gas pubblicato annualmente dall'agenzia specializzata Reporter diretta da Renata Negri – rendono particolarmente arduo per il nostro paese muoversi allo stesso tempo verso una maggiore competitività e un minore livello di emissioni.

Non è un caso se l'Italia, tradizionalmente caratterizzata da alti livelli di tassazione e da una forte dipendenza dagli idrocarburi, si trova impreparata sia di fronte agli obblighi di Kyoto, sia di fronte alla scommessa di Lisbona. A causa della sua arretratezza, qualunque scelta in una direzione la allontanerà dall'altra. Secondo gli 88 indicatori strutturali individuati dalla Commissione Europea per “misurare” la sintonia con Lisbona, l'Italia è lo Stato membro che, complessivamente, realizza la performance peggiore (Figura 4).
La situazione riverbera in un poco consolante quarantasettesimo posto nella classifica della competitività stilata dal World Economic Forum (contro il quarantunesimo del 2003). Per quel che riguarda la libertà economica, la Heritage Foundation assegna al paese la ventiseiesima posizione, stabile rispetto all'anno precedente; ma se si guarda al solo aspetto fiscale, l'Italia precipita al centotrentatreesimo posto (su 161).

Confindustria suggerisce quattro politiche per rendere Kyoto compatibile con Lisbona:
«Nel settore dell'energia creare nuovi sistemi a ciclo combinato e nuove vie d'importazione di gas ed elettricità dall'estero per incoraggiare l'ingresso di nuovi operatori, migliorare l'efficienza energetica e creare il clima essenziale a ridurre i prezzi dell'elettricità e del gas come parte della politica di liberalizzazione dei mercati dell'energia». La liberalizzazione favorisce gli investimenti e lo sviluppo e, quindi, anche l'efficienza energetica.
«L'integrazione e la gestione ambientale per sfruttare le energie rinnovabili attraverso la creazione e la gestione efficiente dei processi industriali integrati con particolare riferimento all'energia eolica, la gestione dei rifiuti e lo sfruttamento delle biomasse». Le fonti rinnovabili, pur interessanti sul piano teorico, non possono nel breve termine costituire una valida alternativa alle altre fonti a parità di prezzo (Figura 5).
«Nel settore dei trasporti, portare a termine miglioramenti infrastrutturali per incoraggiare l'uso del mare e della rotaia in luogo della gomma e ridurre così l'inquinamento». L'inquinamento dovuto ai trasporti è in via di naturale diminuzione grazie al turnover dei veicoli. Inoltre, una parte significativa delle emissioni dovute agli autotrasporti deriva dall'inefficienza infrastrutturale che costringe milioni di macchine a passare ore in coda ogni giorno.
«L'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione per rendere la catena logistica più lineare ed efficiente, che porterà benefici in termini di un ridotto impatto ambientale».

Per le sue specificità, l'Italia incarna in maniera evidente tutte le contraddizioni esistenti tra Kyoto e Lisbona – contraddizioni che deflagrano allorché si guarda ai dubbi benefici ambientali connessi all'implementazione del protocollo. L'effetto di Kyoto – che esso venga declinato attraverso un limite ai consumi o una sostituzione di tecnologie basate sul carbonio con alternative “pulite” – sarà equivalente a quello di una tassa sull'energia. Non solo ciò implica uno shock transitorio legato al divario tra i prezzi (o i consumi) attuali e gli obiettivi per il 2008-2012. Gli impatti di lungo termine possono essere ancora più pesanti, in quanto v'è sempre un rischio connesso alla decisione politica di ri-orientare un settore produttivo in base a criteri non economici. «Ci sarà uno spostamento di risorse produttive da un settore ad un altro – chiarisce Franco Debenedetti – dunque le risorse saranno impiegate con minore produttività... Il raggiungimento degli obbiettivi di Lisbona diventa ancora più improbabile, e spostato avanti nel tempo»4. Il rischio, allora, è che la strategia di Lisbona resti soffocata dal peso di regolamentazioni e traguardi politicamente importanti, ma indifferenti dal punto di vista ambientale e dannosi da quello economico. In fondo, se in Italia la liberalizzazione del mercato energetico va a rilento, altri Stati membri sono gelosi della loro sovranità e non intendono aprire le frontiere e creare un mercato autenticamente integrato, cioè competitivo. «L'Europa di Lisbona – denuncia Renato Brunetta – che dà degli obiettivi, ma non ha gli strumenti, si ricopre di ipocrisia»5.

Kyoto o Lisbona
La politica europea rischia di essere vittima di un'incomprensione di fondo. Da un lato l'Ue ha l'ambizioso obiettivo di “farsi i muscoli”, essere più competitiva sui mercati globali. Questo anche per ragioni simboliche: la scommessa di Bruxelles passa anche per una performance economica che sia almeno paragonabile a quella del rivale americano. D'altro canto, forse per convinzione sincera, forse per calcolo politico i rappresentanti dell'Ue hanno dato ampio spazio alla retorica e alla regolamentazione ambientale, facendone una sorta di stigma dell'Unione e – ancora una volta – un segno di distinzione rispetto agli Stati Uniti. Il protocollo di Kyoto e la lotta ai mutamenti del clima rappresentano l'apice di questo scontro, che è non solo confronto politico ma anche gara d'immagine.

Purtroppo in un mondo dominato dalla scarsità, ogni decisione implica un trade off. Ridurre le emissioni di gas serra ha un costo economico e, quindi, può incidere negativamente sulla competitività del Vecchio Continente. È importante non perdere mai di vista questo aspetto. È possibile salvare la capra del clima e i cavoli della competitività: ma certo occorre una seria revisione delle politiche ambientali europee, alla luce in particolare di un approccio seriamente globale ai problemi connessi all'aumento delle temperature. In questo senso la strategia di Lisbona non può contenere il protocollo di Kyoto. I due si escludono reciprocamente o, almeno, presentano degli attriti di cui bisogna tenere conto.

A causa delle sue debolezze strutturali, un paese come l'Italia è particolarmente sensibile agli effetti economici di Kyoto, e al tempo stesso si trova in particolare difficoltà di fronte ai traguardi di Lisbona. L'esistenza di una pesante fiscalità e di una regolamentazione invasiva e confusa, una politica energetica ostile ai combustibili fossili e di chiusura totale nei confronti dell'energia nucleare, le rigidità del mercato energetico fanno dell'Italia un caso scuola. Un tentativo serio di tagliare le emissioni potrebbe avere conseguenze economiche devastanti, nonostante l'eccellente performance del paese in termini di intensità carbonica.

Questo non significa che l'Europa sia oggi, come l'asino di Buridano, incapace di scegliere tra economia ed ecologia. La scelta è ingannevole. Vi è infatti una chiara correlazione tra qualità ambientale, sviluppo e libertà economica. Il riscaldamento globale è un fenomeno che, ammesso che sia influenzato dalle emissioni antropogeniche, manifesterà i propri effetti nel lungo periodo. Anche la soluzione, quindi, deve guardare lontano: non può limitarsi alla fissazione di obiettivi e tabelle di marcia che hanno l'effetto di bruciare oggi risorse che potrebbero essere importanti domani.

 

Note
1. Ministero dell'Ambiente, “Piano nazionale di riduzione delle emissioni di gas serra”, 8 ottobre 2002, www.minambiente.it/Sito/comunicati/2002/02_10_08_1.asp.
2. Federico Rendina, “Il piano Kyoto presenta un conto da 400 milioni”, Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2005.
3. Mary H. Novak (a cura di), “L'impatto economico in Italia dell'adozione del protocollo di Kyoto e delle ulteriori riduzioni di emissioni di gas ad effetto serra previste dopo il 2012”, International Council for Capital Formation, 1 dicembre 2003, www.iccfglobal.org/GI Eco Final082803.PDF, p. 10. Si veda anche Margo M. Thorning, “L'impatto delle politiche europee del clima sulla competitività economica”, IBL Briefing Paper n. 5, 15 aprile 2004, brunoleoni.servingfreedom.net/BP/IBL_BP_5_Kyoto_It.PDF.
4. Franco Debenedetti, “Kyoto rincorre i giganti emergenti,” Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2004.
5. Renato Brunetta, “Il ritardo della politica nell'interpretare il mondo che cambia”, in Luigi Paganetto (ed.), La questione energetica, Roma, Donzelli Editore, 2004, p. 79.

 

Carlo Stagnaro, direttore del dipartimento Ecologia di mercato dell'Istituto Bruno Leoni, collabora con la rivista statunitense Tech Central Station.

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