Pensioni, una bomba ad orologeria
di José Piñera
Ideazione di novembre-dicembre 2005

La popolazione europea è in declino ed è sempre più vecchia. Una tendenza che avrebbe potuto benissimo essere gestita con un po' di lungimiranza, potrebbe trasformarsi in una catastrofe, visto il debito in crescita costante accumulato dal programma pensionistico pubblico basato sulle ritenute alla fonte. Questo programma ora costa più del 200 per cento del Pil francese e italiano e più del 150 per cento del Pil tedesco. Questa situazione è particolarmente difficile in un continente in cui questi diritti sono profondamente radicati in una cultura del welfare state.
La Commissione Europea ha recentemente dichiarato che: «Si corre il rischio di non poter più sostenere la spesa pubblica in circa la metà dei paesi dell'Ue. Belgio, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Italia, Austria e Portogallo sono su questa lista nera». Inoltre, l'ex commissario per gli affari monetari dell'Unione Europea, ha aggiunto: «A questi paesi sono rimaste poche opportunità per riordinare le loro finanze, prima che l'impatto dell'invecchiamento della popolazione sul budget determini un collasso, cosa che dovrebbe verificarsi nel 2010» (EUobserver, 21 maggio 2003).

Così, il sistema pensionistico basato sulle ritenute alla fonte potrebbe rivelarsi una delle minacce più serie alla moneta unica europea. Come sostenevano Niall Ferguson e Larry Kotlikoff (2000): «Il nocciolo della questione è che lo squilibrio generazionale nella zona euro minaccia seriamente la sostenibilità a medio termine della moneta unica. […] I paesi che presentano uno squilibrio generazionale più grave potrebbero cercare di fare pressione sulla Banca centrale europea perché allenti la politica monetaria. Per la maggior parte del Ventesimo secolo, dopotutto, stampare carta moneta era l'ultima risorsa dei governi in difficoltà fiscali. […] La storia, perciò, suggerisce che problemi fiscali asimmetrici – spesso conseguenti a guerre – causano lo scioglimento di unioni monetarie tra Stati fiscalmente indipendenti. I problemi fiscali causati da ipertrofici sistemi di assistenza sociale e pensionistici possono avere un simile effetto centrifugo sulla moneta unica, con il welfare state che sostituisce la guerra quale fattore di scioglimento».

Riformare i parametri delle pensioni non è una soluzione
Alcuni paesi europei iniziano ad avvertire le conseguenze fiscali degli squilibri demografici. Ma disgraziatamente sembrano credere di poter risolvere la crisi cambiando qualche parametro-chiave del loro sistema pensionistico. Nel giugno del 2003, l'allora primo ministro francese Raffarin parlò chiaramente all'Assemblea Nazionale della necessità di una «lucidité demographique» e riuscì a eliminare alcuni dei privilegi più eclatanti del sistema pensionistico degli impiegati pubblici. Queste misure sono servite a correggere parzialmente gli abusi del sistema, ma non le sue radici malate. La recente riforma delle pensioni in Germania, che sostanzialmente consiste nella defiscalizzazione dei risparmi investiti nei fondi pensione, è fallita semplicemente perché, dopo aver pagato le tasse in busta paga, non restava più niente da risparmiare. L'ex cancelliere Schröder ha provato a lanciare la sua “Agenda 2010” che però, di fatto, attenuava ma non cambiava il sistema basato sulle trattenute alla fonte. L'Italia, il paese con il più basso tasso di fertilità in tutto il mondo, registra un'uscita annua per le pensioni che ammonta al 14,5 per cento del Pil. Gli italiani, che già pagano il 33 per cento della busta paga per il sistema pensionistico, dovrebbero arrivare al 48 per cento per pagare le pensioni promesse ai più anziani.

Anche se i leader europei sembrano credere che bastino le cosiddette riforme parametriche delle pensioni per risolvere la crisi, ci sono almeno tre ragioni per dubitarne. Prima di tutto, la praticabilità politica di alcune di queste riforme fra i membri dell'Unione Europea è chiaramente asimmetrica. Potrebbe, per esempio, essere possibile aumentare l'età pensionabile in un paese corporativista come la Germania, una volta diffuso il consenso fra i vertici. Ma la stessa cosa potrebbe rivelarsi impossibile in Francia, dove il recente tentativo di effettuare aggiustamenti marginali sulle pensioni degli impiegati pubblici ha causato lunghi e paralizzanti scioperi, anche con l'appoggio della maggioranza della popolazione.

In secondo luogo, è probabile che l'aggiustamento “parametrico” fondamentale – rimandare l'età in cui il lavoratore ha diritto a ricevere il massimo della pensione statale – abbia effetti indesiderati. Per esempio potrebbe cambiare il comportamento di quei lavoratori a cui si chiede di prolungare la vita lavorativa. In paesi dove il welfare è molto esteso e l'invalidità viene riconosciuta con facilità, ciò significherebbe semplicemente spostare la spesa statale da un programma all'altro, da un ministero all'altro. Bisogna tener presente che le rigide leggi del lavoro in Europa, non solo mantengono alti i tassi di disoccupazione, ma rendono particolarmente difficile che un anziano possa conservare il proprio lavoro o trovarne un altro, poiché i salari non possono essere abbassati in base alla minore produttività degli anziani.

Infine, misure come posporre l'età pensionabile, ridurre le pensioni, o aumentare le tasse in busta paga innescano una riduzione nel già basso “tasso di ritorno” di questi contributi, cosa che può provocare la ribellione dei lavoratori giovani, sia con proteste (scioperi, eccetera) che con fughe (lasciando il sistema, o addirittura il paese). Queste misure non fanno che diminuire il “tasso di ritorno”, rendendo il sistema basato sulle trattenute alla fonte molto meno appetibile rispetto a pensioni private alternative.
Dal momento che, entro trent'anni, in Germania ogni lavoratore dovrà mantenere un pensionato, si raggiungerà al grado di coercizione, descritto qui di seguito letterariamente: «Nel 2050, per risparmiare soldi e avere più lavoratori preziosi a disposizione, il Bundestag decreta di abolire la burocrazia del sistema pensionistico. Da ora in poi, a ogni pensionato sarà assegnato il suo schiavo o la sua schiava in età lavorativa, che gli consegnerà metà del suo stipendio» (Theil, 2003). Un vero scenario da incubo.

Europa con i fondi contro Europa senza fondi
Così emerge una divisione netta tra quella che può essere definita un'Europa “con i fondi” e quella “senza fondi”. Il primo gruppo comprende paesi con un grande sistema pensionistico privato (Gran Bretagna e Olanda), quelli che hanno introdotto recentemente un sistema a capitalizzazione e possono andare anche oltre (Svezia e Polonia) e quelli con un settore pubblico talmente ricco da potersi permettere di finanziare il sistema pensionistico statale con le entrate fiscali (Irlanda e Lussemburgo). Il secondo gruppo comprende i quattro grandi paesi in cui si concentra il grosso della popolazione dell'unione monetaria europea e il grosso del Pil – Francia, Germania, Italia e Spagna – più tutti gli altri che non hanno fondi per il sistema basato sulle trattenute alla fonte.

Sono già incominciate le prime schermaglie sulle regole di Maastricht. Mentre il primo ministro belga dichiarava che le regole sul deficit sono «la nostra Bibbia» (The Economist, 4 ottobre 2003), il primo ministro francese replicava: «Il mio dovere non è quello di risolvere problemi matematici per compiacere una burocrazia o un paese in particolare» (The Economist, 13 settembre 2003). I leader dell'“Europa senza fondi” potrebbero voler seguire la ricetta dell'America Latina – svalutare in modo che i successivi effetti dell'inflazione riducano il potere d'acquisto delle pensioni. Ma l'“Europa con i fondi” molto probabilmente si opporrà alla svalutazione dell'euro. Potrebbe verificarsi uno scontro nei centri decisionali europei, in particolar modo all'interno del gruppo dirigente della Banca centrale. Naturalmente, potrebbe essere per questa prospettiva che paesi “con i fondi”, come la Gran Bretagna, la Danimarca e la Svezia, non vogliono entrare nella zona euro.

Più che da nuovi scontri armati tra i paesi europei, come Martin Feldstein aveva previsto (1977), credo che il futuro sarà caratterizzato da un esacerbato, anche violento, scontro generazionale: i giovani che si ribellano alla confisca di una parte notevole dei loro salari duramente guadagnati; gli anziani che vivono nell'ansia perenne di veder aumentare i deficit di bilancio e di veder ridurre severamente le loro pensioni, sia direttamente, che per mezzo dell'inflazione.

Non si può negare che i lavoratori europei inseriti nel sistema pensionistico basato sulle trattenute alla fonte siano come i passeggeri del Titanic. Distruggendo il fondamentale rapporto fra lo sforzo lavorativo e il suo compenso, fra i contributi e le pensioni, questo sistema collettivista incoraggia ciò che Bastiat definiva “furto legalizzato”. E il fatto di rendere il finanziamento del sistema dipendente dai tassi di crescita demografica e dall'aspettativa di vita, lo ha relegato dalla parte sbagliata della mega-tendenza demografica europea del Ventunesimo secolo, che vede aumentare le popolazioni anziane.

Alcuni credono che l'immigrazione massiccia in Europa possa ritardare o addirittura risolvere il problema, ma non è così per diversi motivi. Prima di tutto, per una ragione economica: l'immigrazione massiccia di lavoratori sottopagati potrebbe aggravare il problema della disoccupazione e ridurre i salari, diminuendo la possibilità di raccogliere tasse dalle buste paga. Secondo, per un problema di calcolo: quei lavoratori pagheranno più tasse nel corso della loro vita lavorativa, ma vivranno abbastanza da avere le loro pensioni; così si ha solo un rinvio dello scoppio della bomba ad orologeria delle pensioni. Terzo: finché vi saranno grosse differenze di salario con il Nord Africa, è impossibile trascurare il problema dell'assimilazione e della tensione religiosa tra la maggioranza degli immigrati islamici e il resto della popolazione.

La via d'uscita è l'introduzione di un sistema a capitalizzazione con conti di risparmio individuali, che ristabilisca il nesso essenziale fra il lavoro e il compenso e vada verso un sistema pensionistico in cui i contributi e non i benefici sono ben definiti. Già 15 paesi hanno seguito questo percorso, compresi alcuni paesi importanti quali la Svezia e la Polonia (Piñera, 2001). William Shipman (2003) ribatte che: «i costi di transizione possono costituire una seria difficoltà», ma che: «è più economico andare verso un sistema di libero mercato che non mantenere l'attuale sistema». In effetti, egli pensa che: «è possibile delineare uno scenario di transizione che sia un gioco a somma positiva per tutte le generazioni». Una transizione graduale ed economicamente fattibile verso la privatizzazione è stata già studiata per la Spagna (Piñera, 1996).

Un sistema di conti di risparmio individuali aumenterebbe anche la mobilità del lavoro, un altro fattore chiave per il funzionamento dell'unione monetaria. E, se accompagnato da una riforma delle pensioni d'invalidità, potrebbe aumentare la disponibilità della forza lavoro e ridurre gli sprechi nella spesa governativa. Le prospettive dell'euro e del processo di integrazione europea, potrebbero migliorare molto se uno dei grandi paesi dell'euro iniziasse una riforma in questa direzione, spianando la strada agli altri (Piñera, 1996). Infine, se gli europei, o gli americani o i giapponesi non vogliono fare abbastanza figli, dovranno rassegnarsi ad accumulare abbastanza euro, dollari o yen nei loro conti di risparmio individuali.

Integrazione europea contro il welfare state bismarckiano
Uno dei personaggi più influenti degli ultimi duecento anni fu il “cancelliere di ferro” prussiano Otto von Bismarck. Egli fu artefice di due innovazioni politiche che tuttora influenzano profondamente la nostra civiltà. La prima fu l'unificazione della Germania con “il ferro e il fuoco”, per citare le sue parole. Le conseguenze di questa politica hanno plasmato il Ventesimo secolo nel modo che tutti conosciamo. La seconda fu l'istituzione di un sistema pensionistico statale obbligatorio. Egli dichiarò che, come i soldati di un esercito avevano diritto a una pensione per il servizio prestato allo Stato, così gli impiegati dovevano essere considerati come “soldati del lavoro” e aver diritto a una pensione statale, così sarebbero stati “più controllabili”, come egli stesso spiegò chiaramente, di quelli che maturavano pensioni private. Al giorno d'oggi lo Stato è andato ben oltre il ruolo di assicurazione obbligatoria per la vecchiaia. Lo Stato sociale ha grande visibilità, ed ogni politico tenta di vincere le elezioni sottraendo soldi a coloro che sono meno abili a difendere i loro salari guadagnati col duro lavoro, per trasferirli nelle mani di chi è più abile nel mobilitare i voti e le piazze.

A prescindere dai meriti della sua introduzione, l'euro è già un dato di fatto e la sua rinuncia può indebolire il nobile e lungimirante sforzo di uno spazio economico comune in Europa, che ha portato prosperità e assicurato la pace. Se gli europei vogliono conservare la loro moneta comune, devono abbandonare il paradigma pensionistico bismarckiano e, pur mantenendo una rete di sicurezza statale, iniziare a muoversi verso un sistema pensionistico basato sulla proprietà, sulla libertà individuale e sulla responsabilità personale.


Bibliografia
M. Feldstein, “EMU and International Conflict”, Foreign Affairs (novembre-dicembre 1997), pagg. 60-73.
N. Ferguson , L. Kotlikoff, “The degeneration of EMU”, Foreign Affairs, (marzo-aprile 2000), pagg. 110-21.
J. Piñera, “A Proposal for the Reform of the Pension System in Spain ”, Circulo de Empresarios , Madrid 1996.
J. Piñera, “A Way Out of Europe's Pension Crisis”, Wall Street Journal Europe, (25 giugno 1998).
J. Piñera, “Liberating Workers: The World Pension Revolution”, Cato Letter, n. 15, Washington 2001.
W. Shipman, “Retirement Finance Reform Issues Facing the European Union”, Social Security Paper, n. 28, Cato Institute, Washington 2003.
S. Theil, “A Heavy Burden”, Newsweek International, 30 giugno 2003.

 

Traduzione dall'inglese di Stefano Magni.

© José Piñera



José Piñera, Distinguished Senior Fellow al Cato Institute (e co-presidente del Project on Social Security Choice), fondatore e presidente dell'International Center for Pension Reform. Dopo gli studi ad Harvard, dal 1978 al 1981 è stato ministro del Lavoro nel Cile dove ha realizzato la riforma del sistema pensionistico e del mercato del lavoro. Oggi gira il mondo come consulente di molti governi per la riforma pensionistica.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuilleton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006