La crisi dell'Europa illustrata con la crisi del liberalismo
di Marcello Pera
Ideazione di novembre-dicembre 2005

In questo intervento avanzerò un'interpretazione della crisi culturale e spirituale che, secondo me, sta attraversando l'Europa nei termini della crisi del liberalismo. Anche se molto di ciò che ho da dire riguarda tutto l'Occidente, parlerò dell'Europa, perché in Europa il problema è più serio e perché sono europeo. E parlerò di liberalismo, perché esso è la concezione che sta alla base dei regimi democratici europei, e perché mi accade di essere un ammiratore di questa grande tradizione di pensiero.
Il titolo che ho scelto fa eco a quello di una piccola opera di Kant del 1766, I sogni di un visionario illustrati con i sogni della metafisica. L'analogia con il mio tema sta in ciò. Come per Kant era importante risolvere la crisi della metafisica, perché alimentava lo scetticismo sulle risposte da dare ai problemi fondamentali degli uomini, così per me è importante risolvere la crisi del liberalismo perché essa alimenta quel relativismo che ritengo essere il fattore culturale principale della crisi dell'Europa.

Come è noto, il rischio più insidioso del liberalismo sono sempre state le libertà “di”, o le “libertà positive”, per usare la celebre terminologia di Isaiah Berlin. Si tratta delle libertà di disporre e, di conseguenza, di allocare risorse tramite il potere politico al fine di realizzare l'uguaglianza economica e la giustizia sociale. Inglobando sempre più queste libertà, i regimi liberali sono diventati degli “ibridi”, solitamente chiamati “democrazie liberali”, i quali però, per nostra fortuna, funzionano molto bene. Parallelamente alla evoluzione dei regimi liberali, anche la dottrina liberale è oggi diventata un “ibrido”. Nella sua versione recente, essa assume la forma di “pluralismo dei valori” o “pluralismo liberale”. E questa, purtroppo, non funziona altrettanto bene.
Il pluralismo liberale parte dal riconoscimento di un fatto: gli stili di vita e le concezioni del bene sono molte e possono essere incompatibili fra loro. Il problema che il pluralismo liberale deve risolvere è come combinare questo fatto, che riguarda singoli individui o gruppi, con il valore dell'identità e della stabilità, che riguarda tutta la società, nazionale o, in linea di principio, umana. In particolare, soprattutto oggi che viviamo un'epoca di radicalismo, fanatismo e terrorismo, la domanda più urgente è: che cosa fare quando il pluralismo dei valori genera conflitti e i conflitti fra valori si trasformano in scontri fra culture? La cultura europea non sembra in grado di dare una risposta soddisfacente a questa domanda. Alcuni, come il filosofo post-liberale John Gray, sostengono che i regimi liberali «sono solo un tipo di politiche legittime e la pratica liberale non ha alcuna autorità speciale o universale». Altri, come lo scomparso “decostruttivista” Jacques Derrida, sostengono che i regimi liberali sono di fatto illiberali, come gli Stati che sono tutti Stati-canaglia. Altri ancora, come Jürgen Habermas, ritengono che i regimi liberali non abbiano bisogno di basi etiche. Ma se è così, rischiamo di essere come i visionari di Kant che di giorno non possono dare fondamenti credibili alle loro visioni notturne. Questo è il mio timore e cerco di spiegare perché.

La crisi dell'Europa
Di Europa si parla in due modi: come Unione Europea e come civiltà europea. Esaminiamoli separatamente. Dopo il rifiuto della ratifica della Costituzione da parte della Francia e dell'Olanda e le riserve di molti altri paesi, l'Unione Europea attraversa oggi una crisi politica difficile. Secondo la mia opinione, la ragione di questo stato di cose deriva dal fatto che l'Unione Europea non ha imboccato nessuna delle due strade che aveva – e ancora ha – davanti a sé. La prima strada era quella di diventare un'unica grande area economica internazionale con minime istituzioni sufficienti allo scopo. L'Agenda europea di Lisbona 2000 prometteva che l'Unione sarebbe diventata «la società basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di crescita economica con più e migliori posti di lavoro e più coesione economica».
Appena cinque anni dopo, il 23 giugno scorso, il premier inglese Tony Blair ha detto al Parlamento europeo: «Ditemi, che tipo di modello sociale è mai questo che ha 20 milioni di disoccupati in Europa, tassi di produttività inferiori a quelli degli Stati Uniti, e che consente più laureati in scienze in India che in Europa?». La mia risposta è: l'Europa non ha fatto le riforme che aveva promesso. La conseguenza è che oggi i paesi europei sono tornati ad agire in termini di interesse economico nazionale. Le discussioni sulla riforma del Trattato di Maastricht ne sono una spia. Il caso recente della Francia, che ha escluso la concorrenza finanziaria su certe sue imprese considerate “strategiche”, è solo l'ultimo esempio di questa marcia indietro rispetto all'interesse comune europeo.

L'Unione Europea non ha imboccato neppure la seconda strada, complementare alla prima, che è quella di diventare una grande potenza geopolitica. Una potenza geopolitica assume su di sé, da sola o assieme ad altre, responsabilità politiche mondiali. È un protagonista che non aspetta che i problemi del mondo o passino o siano risolti da altri. Questo è invece ciò che ha fatto l'Europa con la guerra in Iraq, con Israele, col Medio Oriente, l'Iran e tutte quelle crisi, compresa, fino all'ultimo, quella domestica dei Balcani, in cui l'Europa non ha fatto valere e sentire la propria voce. Come se potesse delegare all'America – salvo poi criticare l'unilateralismo americano – le proprie responsabilità.
Perché l'Unione Europea è oggi così debole e divisa? Una risposta viene dallo stato attuale dell'Europa nel secondo senso che ho richiamato, quello di civiltà europea. La civiltà europea – questa è la mia opinione – è oggi afflitta da una crisi di identità, di rifiuto della propria tradizione, di depressione morale e spirituale. Cito il caso più emblematico, quello che a me sembra il sintomo più indicativo e più serio della depressione attuale della civiltà europea: le discussioni sul fondamentalismo e le reazioni dei circoli intellettuali europei e di alcuni leader politici al terrorismo islamico. Queste discussioni hanno fatto emergere una sorta di “sindrome di colpevolezza”. Se i terroristi ci hanno dichiarato una jihad – così molti ragionano –, allora hanno un risentimento contro di noi. Se hanno un risentimento, allora è provocato da squilibri sociali e economici. Se esistono questi squilibri, allora li ha provocati l'Occidente e soprattutto l'America, con la sua potenza economica, il suo imperialismo, la sua arroganza culturale. E alla fine, se l'Occidente è colpevole di tutto ciò – e lo è, perché vuole esportare il proprio stile di vita come se fosse valido per tutti e ovunque –, allora si merita ciò che gli accade. La conclusione è: è tutta colpa nostra. Più esattamente: è tutta colpa dell'America. Io non sono d'accordo, ma la domanda che mi pongo è: perché questo stato d'animo e questo modo di pensare sono tanto diffusi in Europa? È tempo di affrontare la crisi della dottrina liberale.

La crisi del liberalismo
Partiamo dal fatto – perché è un fatto – che gli stili di vita e le concezioni del bene sono molti. Questo fatto ha delle conseguenze: «Se – come scrisse Isaiah Berlin – i fini degli uomini sono molteplici e non tutti sono in linea di principio compatibili l'uno con l'altro, allora non si potrà mai eliminare del tutto la possibilità del conflitto, e della tragedia, dalla vita umana, sia personale sia sociale».
Berlin aveva pienamente ragione. Consideriamo la vita personale. Spesso ci troviamo di fronte a dilemmi morali. Ad esempio, quando parliamo e prendiamo posizione sull'aborto, dobbiamo preferire il valore morale della vita e della dignità del feto o il valore morale della salute della madre e della libera scelta della donna? Prendiamo le relazioni internazionali. Talvolta dobbiamo affrontare dilemmi strategici. Di fronte ad un dittatore che conculchi i diritti dei suoi sudditi, metta in prigione gli oppositori, li torturi, dobbiamo preferire il valore della sovranità degli Stati o il valore della integrità degli individui?

Desidero far osservare che quando dilemmi come questi si presentano, siccome i valori in conflitto non sono compossibili, qualunque scelta che verrà fatta comporterà sempre una perdita morale oggettiva. I dilemmi morali non sono questioni di gusto come, poniamo, la scelta fra scegliere di indossare una cravatta o un papillon ad un party. Le questioni di gusto danno origine, al più, a litigi, i dilemmi morali a scontri e guerre.
Il problema perciò è: esiste un modo, se non per evitare, almeno per ridurre, questi conflitti, sì che le perdite morali che essi necessariamente comportano siano le minori possibili?
I pluralisti liberali hanno tentato soprattutto due mosse per risolvere questo problema.
La prima è quella di identificare un numero ristretto di beni primari che non dovrebbero mai essere perduti. Secondo un noto studioso americano, William A. Galston, «alcuni beni sono di base, nel senso che fanno parte di ogni concezione della vita umana degna di essere scelta: essere privati di tali beni significa essere obbligati a sopportare i grandi mali dell'esistenza. Tutti i regimi decenti si sforzano di minimizzare la frequenza e l'ampiezza di queste privazioni». Più o meno allo stesso modo, il filosofo europeo John Gray, sostiene che «tutti i regimi legittimi ragionevoli richiedono uno Stato di diritto e la capacità di mantenere la pace, istituzioni rappresentative efficienti, e un governo che i cittadini possano sostituire senza ricorrere alla violenza».

L'idea che esistano bisogni di base – ad esempio, i bisogni di un tetto sotto cui ripararsi, di un'alimentazione adeguata, della sicurezza fisica, di una vita affettiva, di una professione di fede, eccetera – è, a mio avviso, promettente perché ci consente di mettere tali bisogni in corrispondenza di altrettanti diritti primari e di usare questi come un metro con cui valutare i regimi politici. Ma questa idea – che è la stessa sulla quale si basano le carte internazionali dei diritti umani – non risolve completamente il problema. Se questo metro esiste e se, rispetto ad esso, esistono “regimi decenti” o “regimi legittimi”, allora esistono anche regimi che non sono né decenti né legittimi. E siccome tra regimi decenti e legittimi e regimi non decenti e illegittimi non può essere trovato alcun modus vivendi, la questione di come risolvere i possibili conflitti rimane. La seconda mossa dei pluralisti liberali per eliminare o ridurre i conflitti di valore è altrettanto promettente, se non altro perché è all'opera da secoli nei nostri regimi liberali. Essa consiste nel distinguere tra “sfera pubblica” e “sfera privata” e nel relegare i valori che possono generare i conflitti in quest'ultima. Robert Nozick, ad esempio, distingue fra la “cornice” generale (equivalente del suo “Stato minimo”), caratterizzata da diritti razionali e naturali, e le “singole comunità” le quali «possono avere qualunque carattere compatibile con il funzionamento della cornice». Nella cornice generale non possono esservi conflitti, perché deve essere accettata da ogni essere razionale; nelle singole comunità ugualmente non c'è conflitto, perché ognuno può sceglierle liberamente.

Purtroppo la storia mostra che questa soluzione non sempre funziona. In primo luogo, dal punto di vista teorico, non esiste alcun accordo su quale sia la concezione migliore per la sfera pubblica (la Utopia di Nozick, la teoria della giustizia di Rawls, o altre) e neppure esiste un accordo se possa esistere una sola concezione migliore di tutte le altre: di fatto, se Berlin aveva ragione, essa non esiste. In secondo luogo, dal punto di vista politico, la mossa è difficile e anche rischiosa.
Consideriamo il caso oggi molto discusso in Europa, come già in America, dei valori religiosi. La distinzione fra Stato e chiese e quella fra religione e politica è certamente una conquista irrinunciabile della nostra civiltà. Ma questa distinzione non può essere tracciata una volta per tutte: la linea di demarcazione è continuamente soggetta a ridefinizioni, ed è proprio durante queste ridefinizioni che possono nascere conflitti. Inoltre, i valori religiosi tracimano nella vita pubblica, ed è giusto che sia così: come potrebbe un legislatore democratico prendere decisioni su questioni delicate come, ad esempio, quelle di bioetica se, nella sua “sfera pubblica”, non avesse come punti di riferimento i valori morali e religiosi condivisi dalla maggioranza dei cittadini nelle loro “sfere private”? A che cosa ci conducono le due mosse del pluralismo liberale per eliminare o ridurre i conflitti?

La prima mossa ha portato di fatto al relativismo, anche se non è necessariamente relativistica. Se – come dice John Gray – è vero che «non può esistere una teoria dei diritti», e che «non esiste alcuna procedura per risolvere i conflitti [di valore] la quale sia universalmente desiderabile», dacché «ciascuna procedura può essere difesa nel contesto di tradizioni particolari e di circostanze storiche», allora dovremmo considerare le nostre democrazie liberali come uno stile di vita legittimo e buono come qualunque altro. Ma se il liberalismo non ha pretese universali e ha solo validità locale, cioè vale solo per una cultura – la nostra – allora è etnocentrico. E l'etnocentrismo alla fine non è dissimile, anzi è equivalente, al relativismo.
La seconda mossa ci ha portato all'indebolimento, se non alla perdita, della nostra identità. Se la società deve essere completamente secolarizzata, e i valori religiosi ed etici devono essere confinati nella sola sfera privata dei cittadini, allora non può nascere né un'identità comune unica né un senso collettivo condiviso. Credo che questo sia ciò che sta accadendo in Occidente e in particolare in Europa, a causa della crisi dei fondamenti del liberalismo. E di un altro male ancora ad essa connesso, a cui ora volgo la mia attenzione.

Dalla società libera alla società buona
C'è un problema che tradizionalmente e tipicamente i liberali hanno trascurato, che è quello della “società buona”.
Quando non siamo soli – cioè mai – e quando viviamo assieme ad altri – cioè sempre – noi non vogliamo solo la nostra singola libertà, la nostra singola autonomia, l'uguaglianza di ciascuno di noi a ciascun altro, eccetera. Come membri di un demos, noi non vogliamo solo una società libera, vogliamo anche una società virtuosa. Non vogliamo soltanto una società aperta, vogliamo anche una società buona. Non vogliamo soltanto una società plurale, vogliamo anche una società identitaria. È vero che questi tipi di società hanno in comune molti elementi costitutivi. È anche vero che non sono concettualmente incompatibili: dopo tutto, una società buona non può che essere composta di persone libere. Ma nella realtà le due forme di società non sono necessariamente sovrapponibili, e possono anche entrare in conflitto.

Il fenomeno delle immigrazioni massicce in Europa di individui provenienti da altre tradizioni, in prevalenza islamiche, è bastato per creare l'attrito fra di esse. L'immigrazione richiede integrazione, ma che tipo di integrazione? Ed entro che cosa? Queste domande non sono difficili solo dal punto di vista intellettuale. Possono essere drammatiche e tragiche dal punto di vista politico, come mostra il fenomeno del terrorismo. Ad esse le democrazie liberali europee hanno dato due risposte.
La prima risposta è quella del multiculturalismo. Secondo i teorici del multiculturalismo sono le comunità che plasmano gli individui e forniscono ad essi la propria identità. Se un individuo fosse sottratto alla comunità cui appartiene, esso sarebbe privo di riferimenti, diventerebbe anonimo, senza radici. Le comunità perciò devono essere protette. Esse hanno diritti collettivi sopra i diritti degli individui. A mio modo di vedere, il multiculturalismo sbaglia a considerare le comunità come entità statiche e immutabili. Al contrario, esse cambiano, alcune si rafforzano, altre si indeboliscono, altre ancora scompaiono. Supponiamo che gli individui di una comunità A decidano di trasferirsi nella comunità B, perché lì, secondo loro, si vive una vita migliore. Se esistesse un diritto alla sopravvivenza e alla tutela delle comunità, dovremmo impedirglielo e perciò costringerli ad una vita peggiore. Se questo lo rifiutiamo, e giustamente, ciò significa che il diritto delle comunità non prevale sul diritto degli individui, e perciò il multiculturalismo cade. In Europa il multiculturalismo ha prodotto, nel migliore dei casi, comunità che si ignorano e, nel peggiore, si osteggiano. Esso non ci ha salvato dai terroristi islamici di seconda generazione.

La seconda risposta delle democrazie europee è quella (liberale) della tolleranza. Questa soluzione è migliore della precedente, ma non è ancora adeguata. Io credo che, per integrare gli altri, ci sia bisogno di più della tolleranza. Abbiamo bisogno del rispetto. La tolleranza è una virtù passiva, il rispetto è attivo. La tolleranza può essere – e spesso è – indifferenza. Il rispetto è invece riconoscimento dell'altro. La tolleranza convive con la disuguaglianza. Il rispetto no. E però una cosa dovrebbe essere chiara: il rispetto comincia da casa nostra. Non possiamo chiedere rispetto, e nessuno ci rispetterà, se non cominciamo a rispettare noi stessi. Ma “noi” chi? Quale “casa nostra”? Con ciò torniamo al tema: l'Europa crede ancora che la nostra sia una buona casa, e una società buona? Questo è il mio ultimo punto.

La nostra tradizione
Ha scritto il cardinale Ratzinger, ora Papa Benedetto XVI: «Si diffonde l'impressione che il sistema di valori dell'Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e sia anzi già uscito di scena».

Le discussioni relative alla Costituzione europea mi sembrano emblematiche di questa situazione. Quando ai capi di Stato e di governo fu chiesto di definire l'identità europea risposero redigendo due preamboli alla Costituzione dell'Unione, uno più vago dell'altro. Il preambolo alla seconda parte – il Bill of rights europeo – parla genericamente di «patrimonio spirituale e morale» dell'Europa. Il preambolo generale richiama non meno genericamente la sua «eredità culturale, religiosa e umanistica». Formule entrambe chiaramente e volutamente generiche. Dire che abbiamo in comune una eredità culturale e religiosa è tanto illuminante quanto dire che siamo figli dei nostri genitori.

Perché omettere che le nostre radici sono precisamente giudaico-cristiane e greco-romane? Perché negare un fatto che è visibile nelle nostre piazze, nelle nostre basiliche, nei nostri monumenti, nella nostra arte, nelle nostre assemblee, nei nostri codici, nei nostri comportamenti individuali e collettivi? Senza le leggi di Mosè e senza la crocifissione di Cristo, non avremmo quel sentimento morale che ci fa sentire tutti – credenti e non – fratelli, uguali, compassionevoli. Senza la ragione dei Greci e senza il diritto delle genti dei Romani, non avremmo quelle forme di pensiero che sorreggono le nostre istituzioni pubbliche. Qui sta la nostra fonte battesimale, sia spirituale che civile e politica, della nostra tradizione. Questa, per noi, è la base principale della società buona. Perché non dirlo e non affermarlo nella Costituzione?
Temo che ci sia una ragione per cui l'Europa oggi non vuole dirlo. Perché, se riconoscesse le sue radici, dovrebbe difenderle. Ma l'Europa ha perso la fede nella validità universale dei suoi princìpi e ha smarrito il senso della sua tradizione. La conseguenza è che l'Europa non è pronta a definire la sua identità e a difenderla. Persino il concetto di rispetto le sembra gravoso.

Ecco un esempio. Ha detto di recente un eminente cardinale italiano: «Una persona che viene nel nostro paese ha la sua identità, la sua cultura, la sua religione. So che tutto questo implicherebbe un discorso di reciprocità: ma non possiamo metterci al livello di quelli che non ti fanno esporre un crocifisso, ti impediscono di girare con una Bibbia o ti incarcerano se ti sorprendono a pregare. Noi questo non possiamo permettercelo». Io credo invece che dovremmo permettercelo. Credo anche che se non ce lo permettiamo, se non offriamo e chiediamo rispetto agli altri, la nostra crisi si aggraverà. A titolo di conclusione, riassumo la mia veduta. Siamo nel mezzo di una crisi. Per superarla, abbiamo bisogno e della società libera e della società buona. La società libera ci viene da Locke, Kant, Mill, Hayek, Popper, Rawls, e tanti altri. Possiamo fondarla, come ho detto, sostenendo che i bisogni di base o primari di tutti gli uomini sono il nucleo di una tavola dei diritti umani. Questo è sufficiente per confutare il relativismo etico. La società buona ci viene da Mosè e da Gesù Cristo, da Aristotele e da San Tommaso, e da tanti altri. Possiamo fondarla, come già ho ricordato, sostenendo che anche coloro che non sono credenti apprezzano tuttavia i valori secolari che discendono dalla Bibbia e dal Vangelo. Questo è sufficiente per confutare l'agnosticismo morale.

Ma questo non basta ancora. La società libera e la società buona sono due tradizioni. La storia europea le ha rese compatibili, ma non combaciano necessariamente, perché le gerarchie di valore che provengono dalla fede giudaico-cristiana non sono sempre le stesse di quelle richieste dalla evoluzione della società civile, e perché esistono altre fedi con altre gerarchie. Abbiamo perciò bisogno di “compromessi ragionati”. Dopotutto, il compromesso è proprio ciò che l'Europa ricerca continuamente. Ma noi non siamo nella posizione migliore per raggiungerli, perché nessun compromesso ragionato potrà essere individuato se continuiamo a indebolire la tradizione critica del liberalismo e la tradizione religiosa dei nostri padri.

In Europa oggi il relativismo ha indebolito la tradizione critica liberale e la secolarizzazione ha indebolito la tradizione religiosa. Chi ama l'Europa e considera l'unificazione politica europea una grande occasione storica, dovrebbe rifiutare questo stato di cose. E chi è stato educato ai princìpi liberali ed è imbevuto dei valori giudaico-cristiani dovrebbe sforzarsi per superarlo. Per superare la crisi dell'Europa c'è bisogno di una revisione del liberalismo e di una rinascita dei valori religiosi. Questa è la mia opinione. Spero che non sia solo un sogno, come quello dei visionari di Kant.

 

Questo articolo è la trascrizione della lezione tenuta dal presidente del Senato Marcello Pera all'Università di Yale negli Stati Uniti, in occasione della sua visita di Stato nel mese di settembre 2005. Si ringrazia la Fondazione Magna Carta per la concessione.


Marcello Pera, presidente del Senato della Repubblica, è uno degli esponenti di spicco di Forza Italia. È presidente onorario della Fondazione Magna Carta.

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