Se le riforme le fanno le imprese
di Giuseppe Pennisi
Ideazione di novembre-dicembre 2005

Il 26 ed il 27 ottobre, nel magnifico Palazzo di Hampton Court nel Surrey si è svolto quello che era stato concepito come il momento più alto del semestre di presidenza europeo della Gran Bretagna: un vertice straordinario e informale (quello ufficiale è in programma a Bruxelles pochi giorni prima di Natale) dei capi di Stato e di governo dei 25 membri dell'Ue. L'ordine del giorno del vertice mirava a valutare i progressi verso gli obiettivi definiti nel marzo 2000 a Lisbona (in breve, fare diventare l'Europa l'area più dinamica dell'economia internazionale) e verso la pertinente strategia di riforme. Ciò avrebbe dato corpo ai contenuti del discorso pronunciato il 23 giugno dal primo ministro Tony Blair al Parlamento europeo. Questo articolo è stato scritto circa due settimane prima del vertice, quando non erano stati ancora diramati i documenti in corso di preparazione da parte degli Stati dell'Ue1. E tuttavia, dopo l'esito contraddittorio delle elezioni in Germania che ha dato vita a un governo di compromesso, i forti conflitti sociali che travagliano la Francia e l'Italia, specialmente nel settore dei servizi pubblici e la difficile transizione di molti Stati dell'Europa centrale ed orientale, vi è la sensazione che, al di là dell'ottimismo di maniera dei comunicati ufficiali, l'assise del 27-28 ottobre sia stata un ennesimo passaggio a vuoto.

Gli ultimi anni non sono stati incoraggianti per l'Ue e specialmente per l'area dell'euro; il tasso di crescita dell'area oscilla attorno all'1,5 per cento l'anno (mentre la crescita del Pil mondiale viaggia sul 4 per cento) ed il saggio di disoccupazione ha raggiunto il 9 per cento della forza lavoro; e sarebbe stato ancora più alto se non ci fosse stato un aumento significativo degli occupati in Italia e Spagna, giacché in Germania supera l'11 per cento e in Francia il 10. In un saggio fresco di stampa due economisti italiani, Daniele Archibugi e Alberto Coco, mostrano, sulla scorta di una vasta batteria di indicatori, come l'Ue sia rimasta indietro proprio in quelle riforme che più possono promuovere la trasformazione tecnologica e il potenziamento di produttività e competitività2.

Le ragioni sono molteplici e vengono approfondite in molte delle ricerche citate nelle note che corredano questo articolo. Qui ci limiteremo a esaminare, in primo luogo, le implicazioni del freno alle riforme nel cuore stesso dell'Ue: Germania, Francia ed Italia. Quindi spiegheremo perché, nonostante gli esiti insoddisfacenti delle riforme politiche, quelle economiche vengano comunque realizzate. Infine, proveremo a delineare qualche suggerimento per ridurre questo divario.

L'Europa politica che non riforma
I singoli casi paese vengono affrontati nei successivi articoli di questo numero di Ideazione. Qui poniamo l'accento unicamente sulle implicazioni europee. Dalla riunificazione, la Repubblica Federale Tedesca ha assunto, nel quadro europeo, una posizione analoga a quella del Reich di Bismarck: il paradosso di essere, al tempo stesso, troppo forte ma non forte abbastanza. Da un lato, è così grande (circa 100 milioni di persone, comprese quelle di etnie a cultura tedesca che vivono in altri Stati dell'Ue) e così importante economicamente (oltre un quarto del Pil dell'Unione a 25) che qualsiasi sua azione o reazione si riverbera sull'intera Ue. Da un altro, però, non è né sufficientemente vasta né adeguatamente robusta da potersi prendere carico dei problemi dell'intera Ue, o anche solamente di quelli dell'area dell'euro. Neanche di pilotarli verso soluzioni condivise ma da lei guidate. Lo si è visto in politica estera, durante le crisi balcaniche esplose ai propri confini; per affrontarle, si è dovuto fare ricorso alla Nato, ossia agli Stati Uniti ed alla loro capacità e potenza militare. In politica economica, l'Europa della moneta unica non riuscirà a raggiungere gli obiettivi di Lisbona se la Germania non ritroverà vitalità e slancio, qualità che sembra mantenere ed anzi accentuare sui mercati internazionali ma non in termini di crescita interna della produzione, del reddito e dei consumi.

All'ultima conta (1 ottobre 2005), i 20 maggiori istituti econometrici internazionali, due dei quali tedeschi, prevedono per la Repubblica Federale una crescita reale estremamente modesta sia nell'anno in corso (tra lo 0,3 e l'1,1 per cento) che nel prossimo (tra l'1 e l'1,6 per cento), un andamento dei prezzi al consumo contenuto al di sotto del 2 per cento l'anno, una crescita del saldo attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti ed un tasso di disoccupazione attorno al 12 per cento. Ciò conferma che il problema chiave di breve periodo della Germania è come risvegliare la domanda interna. Altrimenti, non solo la Repubblica Federale ma l'intera area dell'euro resterà al palo. E nell'area dell'euro vi resta soprattutto l'Italia, la cui domanda, per la componente internazionale, dipende in larga misura dal ciclo economico tedesco.

Non che in Germania non si avverta la Wechselstimmung (la voglia di cambiamento). La sentono e l'hanno fatta propria principalmente le imprese che hanno sostenuto, forse in maniera troppo palese, la campagna elettorale della coalizione guidata da Angela Merkel. E l'avvertono anche i 5 milioni di disoccupati (1 milione e mezzo in più rispetto a tre anni fa) e tutti coloro che si considerano “socialmente esclusi” (nonostante le tutele del welfare ancora esistenti) e hanno contribuito all'affermazione del Linkspartei, il partito della sinistra radicale. La Wechselstimmung non è ancora però abbastanza interiorizzata da indurre a cambiare obiettivi e rotta. Ha conquistato economisti (specialmente quelli dell'Istituto di economia internazionale di Amburgo) e intellettuali, ma non ha scosso la quercia ben radicata della società tedesca (il cui welfare dalla culla alla bara risale all'epoca di Bismarck). In linguaggio finanziario si può dire che gli elettori si sono mostrati disposti ad acquistare, per così dire, soltanto l'opzione call: comprare un cambiamento da valorizzare domani, dopo averne approfondito e sperimentato tutte le possibili conseguenze. Hanno, quindi, preso un “derivato” (la Grosse Koalition) per tener conto dell'incertezza del futuro e della volatilità delle stesse forze politiche e sociali.

La Germania costituisce, per molti aspetti, un test di laboratorio delle difficoltà della politica di attuare una strategia di riforme. Gerhard Schröder ha provato a fare le riforme quasi di nascosto, o meglio di soppiatto; tre anni fa la parte economico-sociale del suo manifesto elettorale era all'insegna del “non si cambia nulla” ma, sotto la spinta della stagnazione e dell'integrazione internazionale, l'ex cancelliere ha modificato in maniera piuttosto drastica le regole del mercato del lavoro e più timidamente quelle delle pensioni. Schröder aveva meditato a lungo su un saggio del 1995 in cui si analizzava come Ronald Reagan e Margaret Thatcher avevano realizzato i loro programmi di riforma3. Ambedue avevano effettuato, per lo più riforme di soppiatto, tramite un grande numero di piccoli interventi a margine, ciascuno nascosto nei commi a grafia minuta di articolati molto complessi, sovente approvati da Parlamenti distratti. Margaret Thatcher scoprì le carte quando, da un lato l'ondata patriottica della guerra nelle Falklands e dall'altro i disagi provocati dai lunghi scioperi, le fecero toccare con mano quanto la grande maggioranza della popolazione fosse con lei. Nonostante la tattica delle riforme di soppiatto, Schröder si è dovuto dimettere quando ha constatato che anche nei Länder occidentali esiste un blocco sociale solido e compatto contro il cambiamento, seppure graduale. Differente la strategia e la tattica adottate da Angela Merkel: un programma decisamente radicale di riforme liberal-liberiste, che non nascondeva i costi di breve periodo ma enfatizzava i benefici nei tempi medi e lunghi, soprattutto per quanti sono senza lavoro ed in condizioni di disagio. Ciò, però, le ha alienato parte dell'elettorato tradizionale del suo stesso schieramento.

In Francia ed in Italia il quadro non è molto differente. Nicolas Bavarez, storico dell'economia ed allievo di Raymond Aron, cita i due paesi come esempi emblematici del Continente Vecchio. Nella République transalpina i governi di centro-destra che si sono succeduti nell'ultimo lustro hanno tentato di attuare un programma graduale di riforme interne (adeguamento del sistema previdenziale per il pubblico impiego a quello del resto del lavoro dipendente, timide liberalizzazioni sul mercato del lavoro, inizio di riassetto dell'assicurazione obbligatoria per la sanità) temperandole con misure destinate, sul piano internazionale, a mettere in risalto la grandeur francese – posizione critica nei confronti della politica estera Usa (soprattutto in tema di Medio Oriente), eccezione francese in tema di politica culturale e commerciale, strategia industriale imperniata su campioni nazionali come elemento per creare campioni europei. L'esito non è stato dei migliori: il governo ha subito una clamorosa sconfitta al referendum per la ratifica del trattato costituzionale europeo in favore del quale erano scesi in campo l'Eliseo ed i ministri tutti; dall'autunno il paese è paralizzato da scioperi contro l'Europa, vista come madre di tutti i tentativi di americanizzare la République riducendo l'intervento pubblico.

In Italia, la politica ha annunciato un vasto e profondo programma di riforme nel patto con gli italiani del marzo 2001. È riuscita ad incidere in alcuni comparti importanti – mercato del lavoro, scuola, sanità, previdenza – nonché a produrre un buon numero di testi unici, essenziali per semplificare la giungla normativa. È, però, rimasta ingessata in materia di politica dell'offerta, soprattutto in campo industriale, a ragione dell'ingorgo di competenze tra Stato e Regioni creato con il nuovo Titolo Quinto della Costituzione varato nell'ultimo scorcio della precedente legislatura. Non è riuscita a varare le tanto necessarie grandi riforme istituzionali: assetto dello Stato, ordinamento giudiziario, devoluzione-federalismo. Ed è comunque alle prese con un significativo disagio sociale. Un paradosso poco notato ma eloquente: con il nuovo Titolo Quinto della Costituzione una parte consistente delle competenze per liberalizzazioni e privatizzazioni nei settori di pubblica utilità è stata trasferita alle Regioni, dove oggi governa in larga parte lo schieramento di centrosinistra contrario a dette liberalizzazioni e privatizzazioni, e favorevole a trasformazioni più graduali4.

L'esperienza dell'Europa centrale e orientale – si nota al Max Planck Institute ed al Centro Heiter per lo studio della governance – è analoga: i rapporti Ocse e Banca mondiale che lodano le riforme dei paesi in transizione dal socialismo reale al mercato non dicono che tutti i governi riformatori hanno avuto un solo mandato. L'unica eccezione è la Slovacchia dove nel 2002 gli elettori temevano il ritorno di Vladimir Meciar e del regime che rischiava di impedire alla repubblica di accedere all'Ue e alla Nato. In Polonia il recente doppio turno elettorale parlamentare e presidenziale ha confermato questa tendenza, bocciando i socialisti al governo e premiando le destre. Il politologo Jean Pisani Ferry, direttore del centro studi di Bruxelles “Bruegel” è apodittico: a suo parere, nei paesi europei di grandi dimensioni, la fase delle riforme è morta e sepolta a ragione della tutela di chi fruisce di rapporti di lavoro a lungo termine o di chi sta per avere trattamenti previdenziali relativamente elevati. Uno studio recente dell'Università di Washington5 dimostra come le tutele occupazionali e previdenziali possano bloccare, non solo frenare, il cambiamento tecnologico.

La politica ha, però, pilotato riforme in Irlanda, Portogallo e Spagna. Questa eccezione, rispetto alla prassi nel resto del Continente, ha radici nella storia istituzionale dei tre paesi: la voglia matta di uscire da situazioni considerate arretrate e di effettuare un salto quantitativo e qualitativo per essere a pieno titolo membri dell'Ue. Tale voglia matta è stata agevolata da una demografia giovane6.

L'Europa delle imprese che riforma
Accanto ad un'Europa politica che non riforma, o che non riforma abbastanza speditamente, c'è un'Europa delle imprese e delle banche in piena febbre di ristrutturazione e riassetto. In Italia, ad esempio, la Fiat si è riorganizzata e si sta rimettendo in piedi; Parmalat è in pieno rilancio; Luxottica è diventata una multinazionale di medie dimensioni e con una testa di ponte importante nel mercato cinese; i distretti industriali, specialmente quelli della sponda adriatica, operano da anni su una strategia di delocalizzazione verso aree a costi più bassi, mantenendo in Italia la progettazione e la direzione. Molto più drastica la riorganizzazione del settore manifatturiero tedesco che ha interessato colossi come la Siemens e la Daimler-Benz e che ha comportato un aumento della disoccupazione per l'espulsione di esuberi causati dalle riorganizzazioni rese possibili dalle nuove tecnologie. La Germania però, grazie a questa cura da cavallo imprenditoriale, ha ritrovato il suo posto tra i maggiori esportatori mondiali. E anche in Francia, una grande impresa che pochi anni fa sembrava in serie difficoltà strutturali, la Vivendi-Universal, è in fase di rilancio. In breve, il mondo industriale europeo ha compreso meglio delle coalizioni politiche, sia quelle al governo che quelle all'opposizione, il messaggio di fondo dell'ultimo libro di Thomas Friedman7: dopo la globalizzazione finanziaria già in atto negli anni Settanta, e dopo la globalizzazione mercantile ed industriale degli anni Ottanta e Novanta, siamo arrivati alla globalizzazione degli individui. Chi sa coglierne meglio le opportunità cresce. Chi non sa farlo, resta indietro. Cogliere le opportunità in un mondo in cui l'individuo stesso è globalizzato, significa operare riforme profonde di sistemi economici e sociali sino ad ora basati su una visione nazionale o di cooperazione regionale.

Un'indicazione eloquente di come il mondo delle imprese stia cogliendo le opportunità si ricava dagli indici di Borsa. In una Francia pur in fase di decelerazione economica e di tensioni sociali, l'indice di Borsa Cac-40 ha generato 41 miliardi di valorizzazioni aggiuntive nei primi sei mesi del 2005. Dall'inizio dell'anno, inoltre, le Borse vanno particolarmente bene anche in paesi dove la politica sembra dormire in materia di riforme: aumenti degli indici del 35,5 per cento (Francia), del 31 per cento (Danimarca), del 18,5 per cento (Svezia), del 18,3 per cento (Spagna), del 17 per cento (Germania), dell'11,5 per cento (Italia) per una media dell'area-euro attorno al 15 per cento (a seconda degli indici specifici che si prendono in considerazione). In Italia, la quota dei profitti resta elevata anche per numerose determinanti strutturali8 e quest'anno sono stati distribuiti dividendi per 30 miliardi di euro. Tanto l'andamento degli indici di Borsa quanto il dato sui dividendi rispecchiano ristrutturazioni aziendali; in Italia, dove una delle poche riforme effettuate riguarda il mercato del lavoro, ciò non ha comportato un aumento della disoccupazione9, ma negli altri paesi o sono aumentati i disoccupati o sono stati annullati i successi attesi da politiche attive del lavoro.

Ci sono altri segnali interessanti delle ristrutturazioni. Uno studio di duemila imprese nel periodo 1988-2002 in quattro paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna e Polonia) mostra una marcata convergenza verso una riduzione dell'indebitamento, segnatamente nei tre paesi più sviluppati e, di conseguenza, una maggiore capacità nel perseguire obiettivi aziendali di miglioramento di produttività e di competitività10. Un'analisi comparata nel periodo 1973-2001 rivela come, nonostante rallentamenti e ritardi in materia di riforme del mercato finanziario, nelle maggiori economie europee si sia messo in moto un acceleratore finanziario11. È cronaca dei quotidiani il risiko bancario ormai europeo, giocato in modo da abbattere le ultime paratie tra le banche commerciali, le banche d'investimento, le merchant banks, le compagnie di assicurazioni, le società di gestione di risparmio e di promozione finanziaria. Insomma, nel dormiveglia della politica, in Europa le riforme si fanno lo stesso, principalmente per iniziativa delle aziende.

I pericoli del percorso delle riforme senza politica
Ci si può accontentare di rimanere sul tracciato delle riforme economiche senza politica che ha contrassegnato questi ultimi anni? È un percorso pericoloso. Le riforme senza politica raramente tengono conto degli obiettivi di lungo termine di una società o cercano di spalmare i costi ed i benefici sui vari gruppi sociali in maniera equa. Le riforme senza politica tolgono al Principe il suo scettro principale, lo delegittimano pure agli occhi di chi lo ha eletto in quanto rinuncia al suo diritto-dovere ed al suo ruolo più pregnante. Innescano, quindi, un clima di sfiducia che, a sua volta, mette in atto un circolo vizioso che allontana i cittadini dalla partecipazione.

Come superare il nodo? Circa tre lustri fa, un socio-economista americano (laureato però a Trieste e cognato di due grandi riformatori italiani, Eugenio Colorni e Altiero Spinelli), Albert Hirschman, ha pubblicato un libro su “Come far passare le riforme”12, già uscito, con successo, alcuni anni prima negli Stati Uniti e basato su esperienze di riforme in vari paesi negli anni Settanta ed Ottanta. Hirschman, nato in Renania, cresciuto a Trieste e con prime esperienze professionali in Gran Bretagna, conosce bene l'Europa ed i suoi problemi. Il libro contiene una teoria socio-economica su cui costruire quello che possiamo chiamare il breviario del riformatore: il punto saliente è il messaggio secondo cui i reform monger (coloro che vogliono fare le riforme) devono trovare un grimaldello per rompere i muri di gomma e superare le sabbie mobili che ostacolano il rinnovamento e l'innovazione. Il grimaldello deve servire, tramite valutazioni condivise, a superare i trabocchetti anti-riforme.

La tesi della perversità, secondo cui le riforme finirebbero con il suscitare risultati opposti a quelli che ci si è prefissati: dunque, è meglio temporeggiare sino a quando si è tutti d'accordo su cosa fare. La tesi della futilità, secondo cui le riforme non raggiungerebbero i loro reali obiettivi e gli strati sociali che dovrebbero esserne i principali beneficiari; di conseguenza, richiederebbero energie, sforzi e risorse che alla fin fine sarebbero irrilevanti. La tesi della messa a repentaglio, ossia quella secondo cui qualsiasi riforma comporta una minaccia rispetto ad obiettivi ancora più alti della società. Questi trabocchetti si basano su quelle che i traduttori di Hirschman hanno chiamato «le retoriche dell'intransigenza». Più eloquentemente, lo stesso Hirschman aveva intitolato il proprio saggio The rethoric of reaction (La retorica della reazione), la retorica che guarda all'esistente (o ancora peggio all'eterno passato) e si annida in tutte le sedi in cui si avvertono anche modesti spiragli riformatori.

Visto in questi termini, il nodo non è tanto la mancanza di leadership in Europa, come sostiene un altro americano che conosce a fondo il Continente Vecchio13, ma quali strumenti individuare per uscire dalla retorica della reazione. In un recente lavoro con Pasquale Lucio Scandizzo, ho delineato alcune tecniche di analisi economica; le abbiamo sperimentate anche su programmi italiani di riforma quali la transizione dalla televisione analogica alla televisione digitale terrestre14. Si tratta di tecniche che innovano rispetto all'analisi economica dell'intervento pubblico e delle riforme quale era prassi negli anni in cui Hirschman scriveva Come far passare le riforme. L'innovazione principale consiste nel considerare la politica economica, e quindi la politica di riforme economiche, non come una strada per giungere ad obiettivi predefiniti ma come una struttura di opportunità. Valutando le opportunità con strumenti in gran parte mutuati dalla finanza, quindi dall'economia d'impresa, si può giungere oggi meglio di ieri a quelle valutazioni condivise che già nel volume di Hirschman del 1990 venivano viste come un veicolo per superare la retorica della reazione. O quanto meno per mostrare che di reazione, non di difesa del progresso, si tratta. E lo si può fare senza tornare al consociativismo od alle varie forme di concertazione di un tempo. Questa è la sfida vera per i riformatori europei.

 

Note
1. Quello dell'Italia viene messo a punto da un Comitato di sei ministri guidati dal ministro per le Politiche Comunitarie, Giorgio La Malfa.
2. D. Archibugi, A. Coco, “Is Europe becoming the most dynamic knowledge economy in the world?” in Journal of Common Market Studies, Settembre, 2005. Vol. 43, N. 3 pp. 433-459.
3. P. Pierson, Dismantling the welfate state? Reagan, Thatcher and the policy of retrenchment, Cambridge University Press, Cambridge, 1994.
4. V. Termini (a cura di), Dai Municipi all'Europa: la trasformazione dei servizi pubblici locali, il Mulino, Bologna, 2004.
5. R. Sameniego, Employment Protection and the Rate of Technical Change, University of Washington working papers, Frebruary 2005.
6. A. Bosco, Da Franco a Zapatero. La Spagna dalla periferia al cuore dell'Europa, il Mulino, Bologna, 2005.
7. Th. Friedman, The world is flat - A brief history of the 21st century, Farrar, Strauss and Giroux, New York, 2005.
8. R. Torrini, “Quota dei profitti e redditività del capitale in Italia: un tentativo d'interpretazione” in Banca d'Italia, Temi di discussione del servizio studi, n. 551, giugno 2005.
9. Al contrario, negli ultimi quattro anni, il tasso di disoccupazione dell'Italia è diminuito di due punti percentuali – la diminuzione più forte segnata nei grandi paesi dell'Ue.
10. W. Frackowiak, S. Gryglewicz, P. Stobiecki, M. Stradomsky, A. Szyszka, Derminants of Corporate Long-Term Capital Policy. Poland vs. France, Germany, and Great Britain. Comparative Approach and Panel Analysis, Pozam University 2005.
11. A. Mody, L. Sarno, M. P. Taylor, A Cross-Country Financial Accelerator: Evidence from North America and Europe, Cepr discussion paper, May 2005.
12. A. Hirschman, Come far passare le riforme, il Mulino, Bologna, 1990.
13. S. Serfaty, The vital parternship: power and order, Rowman & Littlefield Publishers, New York, Inc. Serfaty è stato direttore del Bologna Center della School for Advanced International Studies dell'Università Johns Hopkins .
14. G. Pennisi, P. L. Scandizzo, Valutare l'incertezza – L'analisi costi benefici nel XXI secolo, Giappichelli, Torino, 2003.



Giuseppe Pennisi, docente stabile alla Scuola superiore della pubblica amministrazione.

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