Il delfinario di Parigi
di Paola Peduzzi
Ideazione di novembre-dicembre 2005

Le sirene dell'ambulanza non si erano ancora spente che la campagna elettorale francese era già cominciata. Il presidente, Jacques Chirac, è stato ricoverato in ospedale all'inizio di settembre per un “piccolo incidente vascolare” che – con tutta probabilità – gli impedirà di candidarsi per la terza volta alla presidenza della Repubblica francese. Con Chirac considerato fuori gioco, è emersa in tutta la sua asprezza l'eterna lotta tra il premier, Dominique de Villepin, e il ministro dell'Interno e capo del partito di governo, l'Ump, Nicolas Sarkozy, delfino fedele il primo, ex delfino riottoso il secondo. Sarkò non ha perso tempo, non è nel suo stile: «Mi candido all'Eliseo», ha detto subito, quando ancora tutti stavano cercando di capire che cosa fosse successo a Chirac. L'hanno accusato di cinismo e cattivo gusto ma, al di là delle critiche fisiologiche, nessuno si è scomposto: l'ambizione presidenziale del leader dell'Ump è un'ossessione – lui stesso ha detto che pensa all'Eliseo ogni mattina facendosi la barba – e ha origini antiche, c'era già nel 1975 quando Nicolas aveva 20 anni e a una convention gaullista gli fu concessa la parola per cinque minuti: sforò di un quarto d'ora, lanciò un programma per i giovani proiettato fino al 2000, fece innervosire il dirigente del partito che gli aveva concesso di salire sul palco, che altri non era se non Chirac.

Villepin, parlando con i suoi collaboratori, ha confermato l'ossessione del rivale: «L'ho visto da solo tre volte da quando sono a Matignon (giugno 2005, ndr) e tutte e tre le volte mi ha detto: “Il gioco sarà tra me e te, lo sanno tutti. Che vinca il migliore”». Il migliore, secondo i sondaggi, è sempre stato Sarkozy, ma negli ultimi tempi Villepin ha guadagnato consensi, è cresciuto in popolarità, secondo alcuni ha superato il ministro dell'Interno. La battaglia tra i due si è giocata – e si gioca – quasi esclusivamente sull'economia e le riforme e, quando verrà il momento di tirare le somme dell'eredità di Chirac, gli si dovrà riconoscere questo merito: ha lasciato al suo partito due candidati credibili la cui competizione innesca circoli virtuosi, e nella “crisi da successione” che attanaglia quasi tutta l'Europa questo non è certo un dettaglio da nulla.

Economia: tema di confronto
Le riforme sono quindi il campo di combattimento, il nervo scoperto di un paese che si trova nel bel mezzo di una seduta di autocoscienza. «Il modello sociale francese non funziona», ha detto il direttore di Le Monde, Jean-Marie Colombani, cioè il guardiano di questo sistema, quello che prendetemi tutto ma lasciatemi il modello francese. La Francia ha ripreso a crescere da un anno a mezzo a un ritmo del 2 per cento – non una crescita strabiliante, ma comunque una crescita – ma ha un grave problema con il lavoro: il tasso di disoccupazione è al 10 per cento, il mercato del lavoro è rigido e la politica delle 35 ore «non ha funzionato, il 30 per cento dei francesi lavora per il restante 70 per cento», come ha ammesso un ex grande sostenitore della legge, Bernard Kouchner, il presidente di Medici senza frontiere, uno dei favoritissimi tra i candidati socialisti alla presidenza. Il 2005 è stato soprannominato “l'anno dei riconoscimenti” – in un bel commento di John Vinocur, columnist dell'Herald Tribune – anche perché è stato costellato da due eventi che hanno minato la credibilità politica della Francia: lo schiaffo del no al referendum sul Trattato europeo e la sconfitta di Parigi (inferta da Londra per di più) nella gara olimpica, un'umiliazione annunciata dai microfoni di tutti i luoghi pubblici, treni compresi, con tono da catastrofe.

Per uscire da questa impasse «è necessario guardare la Francia per quella che è, non per quella che sogniamo o vorremmo», ha detto Sarkò: è l'obiettivo imprescindibile di chi voglia avere qualche speranza nel 2007. Ma le modalità sono diverse. Villepin punta sulla “continuità”, Sarkozy sulla “rottura”. Su questa differenza cruciale si giocano tutto, e lo sanno. Il premier non smette di prendere in giro il suo ministro: «Rottura, rottura, rottura, non sa dire altro che rottura!», ha esclamato, con irritazione. Nella sua politica di continuità, invece, Villepin ha detto di voler garantire «una crescita economica orientata al sociale», che si sostanzia in una progressiva riduzione delle tasse ma nell'introduzione di nuove politiche di sussidio alla disoccupazione: alcuni economisti l'hanno accusato di avere una visione di corto respiro, costosa – 5,6 miliardi di euro in più sui bilanci statali – e rischiosa per il rispetto dei parametri del Patto di stabilità. Villepin continua a rispondere con il suo mantra – «Mi giudicherete in base ai risultati» – che ha un po' di sarkoziano, ma è la dimostrazione che il premier non ha intenzione di tirare a campare fino alle elezioni, che le sue carte le vuole giocare tutte nel suo governo. Secondo gli esperti, chi riuscirà a far diminuire la disoccupazione avrà le chances migliori. Sarkozy, intanto, non si limita a occuparsi di affari interni, anzi, ribatte colpo su colpo alle proposte di Villepin – che, per prendersi un po' di vantaggio, ha deciso di tenere conferenze stampa settimanali – tanto che ha già rivelato ogni dettaglio del suo programma economico. Gli obiettivi sono tre e molto chiari, li ha enunciati in un incontro di partito dal titolo “Un nuovo modello sociale”: «Cercare e raggiungere la piena occupazione entro dieci anni; fare della Francia uno dei contesti economici più favorevoli alla creazione e allo sviluppo delle imprese; rendere le finanze della nazione la base della crescita», ha detto Sarkozy. Le manovre per raggiungerli sono tante e vanno dalla razionalizzazione del mercato del lavoro – concedendo la possibilità “di affrancarsi dalla regola delle 35 ore” – all'armonizzazione del prelievo fiscale “alla media europea” – «Nessun francese dovrà più pagare tasse superiori al 50 per cento del suo reddito» – che ha anche qualche vaga somiglianza (ma non si può dire perché gli elettori si spaventano) con la flat tax, alla riduzione del deficit pubblico.

Sarkozy: il realista che non viene dall'Ena
Questo progetto rivela che la strategia di Sarkò tacciata di liberismo – che in Francia è quasi un insulto – è sì di rottura, ma di rottura moderata, perché, come ha stigmatizzato il finanziere intellettuale Alain Minc, il leader dell'Ump è un «liberal-bonapartista». Lui stesso evita di pronunciare la parola radicale, un po' perché è sintomo di eccesso, un po' perché Villepin gli ha già fatto notare che tutto ciò che è radicale e rivoluzionario comporta invariabilmente spargimento di sangue, un po' perché il suo resta un liberismo alla francese. La forza di Sarkozy è di aver creato una rete di amici e collaboratori all'interno del mondo industriale, in modo da poter ascoltare da vicino aspirazioni e lamentele di chi deve carburare il motore del paese. Suo fratello Guillaume – che però ha appena depositato i bilanci per il fallimento dell'azienda di cui era dirigente – è stato candidato alla guida del Medef (la confindustria francese) insieme con l'ex ministro dell'Economia, Francis Mer, e, come leader dell'Associazione dell'industria del tessile, si è battutto contro l'invasione dei prodotti cinesi sul mercato europeo. La dimestichezza con il mondo industriale, la visione economica più liberista, la necessità di slacciare in fretta i lacci della burocrazia e dell'eccessivo statalismo hanno già forgiato la politica del leader dell'Ump quando era al ministero dell'Economia.

Questa impostazione pragmatica e concreta, l'essere un outsider che non solo viene dall'Ungheria ma non ha neppure frequentato quel tempio della formazione politica francese che è l'Ena (Sarkò è un avvocato), il suo iperattivismo – gli amici dicono che appena sale in macchina accende la radio, che ama le cose semplici, che esprime la sua modernità ripetendo che i francesi non passano il loro tempo a parlare di filosofia – sono destinati ad avere un impatto nel contesto europeo. Sarkò non è un europeista in senso ampio: per il referendum sulla Costituzione europea si era schierato per il sì più per doveri di partito che per convinzioni personali. È anche in questo caso realista e sa che un mercato comune europeo è utile per tutti, ma non si è certo trattenuto, all'indomani degli attacchi terroristici di Londra, dal mettere in discussione un trattato fondante per l'Europa come è quello di Schengen. Allo stesso tempo – il liberal-bonaparatista, per l'appunto – non ha fatto alcuna critica alla nuova misura dell'opa patriottica, che impedisce ad aziende straniere di scalare senza vincoli i gioielli di Francia. Il suo filoamericanismo – ha detto che l'antipatia per gli Stati Uniti non è dei francesi, ma di «una piccola parte delle élite», guadagnandosi il soprannome di Sarkozy l'americano, che per molti è insultante quanto e forse di più di liberista – potrebbe costargli qualche simpatia in Europa, ma sempre in quella parte dell'Unione che lui non ha comunque intenzione di prendere in considerazione.

La nuova visione geopolitica
Uno scenario da grossa coalizione in Germania, per esempio, potrebbe rivelarsi per lui ancora più utile della vittoria secca – che comunque auspicava – dei cristianodemocratici di Angela Merkel. Un governo di coabitazione in un paese che deve concentrarsi su se stesso per la serie di riforme economiche che è obbligato a fare, infatti, è la soluzione ideale per chi vuole smarcarsi dall'esclusività ingessata dell'asse franco-tedesco. In questo modo, la Francia potrebbe cercare di fare affari non soltanto con la Germania, ma con tutti gli altri partner, sulla base più degli interessi contingenti che delle alleanze politiche, soprattutto nel momento in cui queste si vanno ridefinendo. In questo è molto simile a Tony Blair, il premier britannico, che va alla ricerca di una nuova dinamicità economica – un nuovo modello – in grado di rigenerare il motore europeo da dentro, attingendo ai bacini di vivacità economica, cioè all'Est. È anche questa un'altra forte e strategica somiglianza con Blair: la politica di coinvolgimento dei nuovi paesi membri, di quell'Est europeo che non vuole soltanto vedere i frutti della costosa adesione all'Unione, ma anche dare sfogo ai suoi fermenti economici. Per Sarkozy l'idraulico polacco, spauracchio del referendum sul Trattato, non è un nemico e, infatti, mai ha cavalcato questa argomentazione per giustificare le paure della Francia. Né mai si sognerebbe di dire le parole pronunciate da Chirac: «Zitti voi che siete appena arrivati». In questo di certo contano le sue origini ungheresi, l'aver vissuto in prima persona la chiusura delle barriere e poi la dirompente apertura, ma ancora una volta conta anche una visione concreta dei rapporti geopolitici.

Il problema oggi è il tempo. Le elezioni in Francia sono tra 19 mesi – a meno che non siano anticipate – e Sarkozy rischia che, essendo partito con troppo anticipo, la sua immagine si logori e gli sgambetti dei rivali si moltiplichino. Sta cercando di tutelarsi modulando la sua strategia politica un po' verso destra e un po' verso il centro, creando un asse con qualcuno al di fuori dell'Ump. Nessuno meglio di lui sa quanto sia pericoloso fidarsi soltanto di “amici di partito”: lui stesso tradì Chirac facendo il tifo, nel 1995, per Edouard Balladur, che poi perse, e rimanendo così in castigo fuori dalla scena politica per anni. Il suo alleato ideale potrebbe essere l'Udf di François Bayrou: quest'asse è un'arma che, per lo meno, neutralizza la comunque flebile minaccia della sinistra. Ma la corsa è molto lunga, come ripete sempre Sarkozy, e può succedere di tutto: i socialisti possono o scindersi o compattarsi, comunque rinvigorirsi, Villepin può ottenere risultati molto positivi e superarlo con grande distacco nella popolarità, i suoi nemici possono colpirlo più duro. Questa insicurezza non fa bene all'Europa, che già in occasione delle elezioni tedesche ha vissuto mesi d'apnea in attesa di un risultato che permettesse di ricalibrare politiche e alleanze. Ma l'urgenza di un nuovo progetto economico per rilanciare il paese ha contagiato anche l'attuale governo che non vuole perdere l'occasione di mettere le basi per il successo della sua strategia di continuità. I risultati cominciano ad avere un peso fin da subito, già da adesso, e questo per il motore immobile di Francia è un segnale forte e positivo. Gli altri tasselli della rottura possono essere giocati anche dal di fuori, con le contaminazioni anglosassoni di cui lo stesso establishment comincia a sentire l'esigenza e con quelle cultural-sociali, come le nuove misure di sicurezza o, ancor più, il progetto di revisione della legge del 1905 che prevede la netta distinzione tra Stato e Chiesa. Sono tutti elementi che fanno parte della visione sarkoziana, che può facilitare la scossa di realismo di cui ha bisogno la Francia.

Intanto la competizione con Villepin ha già dato i suoi buoni frutti. Tutto il resto è visione – «Voglio riconciliare i francesi con il successo, il piacere del rischio» – e strabiliante ambizione.



Paola Peduzzi, redattrice di politica estera de Il Foglio.

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