La sposa turca
di Giuseppe Mancini
Ideazione di novembre-dicembre 2005

Da Lepanto a Helsinki, da Vienna a Bruxelles. La Turchia, Stato-nazione erede dell'Impero ottomano che aveva terrorizzato l'Europa dei secoli scorsi, il 3 ottobre ha fatto un gigantesco passo verso l'integrazione in Europa. Dopo l'attribuzione dello status di paese candidato nel corso della presidenza finlandese nel 1999 e la storica decisione del Consiglio europeo del 17 dicembre 2004 di fissare una data certa, si sono ufficialmente aperti i negoziati che potrebbero portare, tra 10 o 15 anni, alla piena membership turca nell'Unione Europea; un processo che si annuncia irto di ostacoli oggettivi (politici, economici, culturali) e di diffidenze reciproche da superare, il cui esito è tutto da scoprire.

Il definitivo via libera alla Turchia è stato dato in extremis. Aspre polemiche hanno segnato i mesi di avvicinamento all'apertura dei negoziati, con esponenti politici francesi (Giscard d'Estaing, Villepin, Sarkozy) e tedeschi (il cancelliere in divenire Merkel) che hanno tardivamente cercato di trasformare la piena vocazione europea della Turchia in una incerta “partnership privilegiata”, suscitando ad Ankara sgomento tra le élite e risentimenti di piazza. E serrate e a tratti frustranti schermaglie hanno animato gli ultimi giorni, con l'irrisolto problema di Cipro (uno Stato membro in parte militarmente occupato dalla Turchia) sempre agitato come spauracchio e l'Austria abilissima nell'arte del brinkmanship per ottenere la simultanea apertura dei negoziati con la Croazia già parte dell'impero austro-ungarico. Soprattutto, una larga e trasversale fetta dell'opinione pubblica europea ha proferito minacce di rigetto nei sondaggi, mostrando paure antiche (il Turco) e nuove (l'islam militante e terrorista).

L'ingresso della Turchia in Europa non è la pavida resa a conquistatori pronti a distruggere la civiltà occidentale e la stessa costruzione europea; è invece il sintomo incoraggiante di una riconciliazione tra civiltà, l'occasione per il rafforzamento, il rinvigorimento, il ringiovanimento dell'Unione che potrà così moltiplicare potenza e influenza sullo scacchiere geopolitico mondiale. E non ci sono dubbi sull'appartenenza della Turchia all'Europa: appartenenza che è oggi vocazione, scelta, autoimposizione. Storicamente, l'Impero ottomano ha fatto parte per secoli del sistema europeo: e nel 1856, alla Conferenza della pace di Parigi per la conclusione diplomatica della guerra di Crimea, ha ottenuto la formale inclusione nel concerto delle grandi potenze (allora tutte europee). Geograficamente, è vero che la Turchia è europea solo per uno spicchio di Tracia orientale al di qua del Bosforo, mentre il cuore anatolico è in Asia: e di qui le proteste di chi vede nella Turchia un corpo estraneo e minaccioso; ma le appartenenze geografiche non sono immutabili e variano al variare dei contesti storico-culturali e dei progetti politici realizzati.

Politicamente, la Turchia fa parte da 50 anni del mondo occidentale ed europeo: attraverso l'adesione alla Nato e al Consiglio d'Europa, attraverso il processo di integrazione europeo a partire dall'accordo di associazione (1963) e passando per la costituzione dell'unione doganale (1996); e dagli anni Novanta è parte integrante degli sforzi multilaterali europei per la stabilizzazione e la ricostruzione dell'Europa sud-orientale, balcanica. Culturalmente, già la crisi dell'Impero nel XIX secolo spinse gli ottomani all'adozione, seppur timida, di modelli occidentali; e con la Repubblica laica e moderna di Kemal Atatürk, nel 1923, la vocazione europea divenne pressoché irreversibile (la partecipazione turca all'Eurovisione e all'Uefa sono solo i sintomi esteriori di una scelta profonda). Geopoliticamente, durante la guerra fredda la Turchia ha costituito il baluardo, l'antemurale dell'Occidente contro le mire espansionistiche, mediterranee e mediorientali, dell'Unione Sovietica; e nel post 1989 – prima timidamente e poi con maggior convinzione – ha assunto il ruolo formidabile di ponte, di cerniera tra l'Europa e l'Occidente da un lato e i mercati e le fonti energetiche del Medio Oriente, del Caucaso e dell'Asia centrale dall'altro.

La Turchia fa però paura anche per altre ragioni. Sempre dal punto di vista geopolitico, l'ingresso di Ankara nell'Unione porterebbe l'Europa ai confini di alcune delle zone più turbolente del pianeta, con il rischio di inglobare forme di conflittualità particolarmente destabilizzanti; ma d'altra parte, al rischio si associa l'opportunità di una strategia avanzata di difesa degli interessi occidentali, in cui molti paesi europei e la Turchia sono comunque già coinvolti in virtù della comune membership nell'Alleanza Atlantica. Dal punto di vista demografico, il timore è invece quello di un paese di 73 milioni di abitanti in galoppante crescita, povero e per questo pronto a inondare di immigrati il resto d'Europa (oggi già sono circa 4 milioni i turchi che vivono nei 25 paesi dell'Ue); ma nell'Europa del ristagno demografico, della crescita zero, l'innesto di un paese giovane e dinamico è un'opportunità più che un rischio – e del resto, la popolazione turca all'estero (in Germania, nel Benelux, in Francia) ha dimostrato apprezzabili e rassicuranti livelli di integrazione.

Soprattutto, la dinamicità della Turchia rappresenta per l'Europa un'opportunità anche dal punto di vista economico. Certo, preoccupano le differenze strutturali coi 25: la Turchia è un paese ancora profondamente agricolo, produce un reddito pro capite estremamente basso (circa un terzo di quello medio europeo), soffre di forti differenziali di sviluppo tra la fascia costiera e l'interno anatolico, registra tassi d'investimenti esteri insufficienti, segna sostanziosi deficit del settore pubblico (7,3 per cento nel 2004). Tuttavia, grazie a un prestito del Fondo monetario internazionale e in virtù dell'unione doganale con l'Ue, la Turchia ha saputo superare brillantemente la crisi finanziaria del 2000-2001, registrando nel 2004 un tasso di crescita dell'8 per cento (che si attesterà secondo le ultime stime al 7,2 per cento nel 2005), una sensibile diminuzione del tasso d'inflazione, l'aumento apprezzabile degli investimenti diretti stranieri, il calo al 10 per cento del tasso di disoccupazione. In ogni caso, l'economia turca è così legata a quella europea che già oggi circa metà dell'interscambio di Ankara coinvolge i paesi dell'Unione.

Ma lista dei dubbi e delle perplessità degli scettici sembra inesauribile. Si pensa che la Turchia non riuscirà mai a raggiungere standard europei nella protezione dei diritti umani: e si citano il trattamento delle minoranze etniche e religiose (in primo luogo dei curdi), le torture e altri abusi del sistema carcerario che hanno però già subito un drastico ridimensionamento, la controversia sul genocidio degli armeni, la recente incriminazione del celebre scrittore turco Orhan Pamuk colpevole proprio di aver sollevato sulla stampa il tabù armeno. Si evidenziano l'intrattabilità del problema cipriota e il contenzioso ancora aperto con la Grecia per la delimitazione delle rispettive sfere di influenza nel mar Egeo. Si mette in guardia sul ruolo robusto che i militari hanno nella sfera economica e politica: sì garanti della stabilità istituzionale e dell'eredità kemalista, ma autori di ben quattro colpi di Stato. Si denunciano soprattutto la supposta inconciliabilità dell'islam coi valori occidentali e la graduale ascesa e affermazione, negli anni Novanta, di partiti islamici che hanno conquistato il potere: dal Partito del benessere (Refah) di Necmettin Erbakan al Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) dell'attuale premier Recep Tayyip Erdogan.

Ma il pieno rispetto dei diritti dell'uomo sarà una condizione per l'ingresso della Turchia nell'Unione, il problema cipriota verrà probabilmente risolto proprio nella prospettiva dell'adesione attraverso l'estensione a tutta l'isola delle quattro libertà dello spazio giuridico europeo, il contenzioso con la Grecia sembra non più produrre animosità politiche, il ruolo dei militari è stato ridimensionato dalla fine della guerra fredda. Resta il ruolo dell'islam come discrimine forte: tra chi vede un'Europa in cerca di un'identità forte e militante e chi la vorrebbe capace di proporre un modello inclusivo che superi le differenze, tra chi confonde tutto l'islam dalle mille sfaccettature coi soli estremismi criminali e chi sa apprezzare il successo kemalista: quello di uno Stato di diritto sul modello occidentale che, dopo gli eccessi anti-religiosi del passato, oggi sembra saper coniugare – in modo imperfetto ma accettabile – i valori religiosi islamici e la modernità politica ed economica. È il modello di Erdogan. In una fase di devastanti tensioni tra il mondo occidentale e il mondo islamico, allora, la vocazione europea della Turchia ex ottomana rappresenta una chance irripetibile.

A creare una potenziale barriera tra la Turchia e l'Europa, invece, è un nazionalismo turco aggressivo, di origini europee ma che in Europa è stato stemperato dai disastri bellici, dalla cooperazione politica e dalla globalizzazione economica in un nazionalismo virtuoso e aperto. Perché la Turchia, in effetti, è nata dalla trasformazione da Impero cosmopolita in stato fortemente nazionalista attraverso il massacro (o genocidio) degli armeni e l'espulsione dei greci (pulizia etnica reciproca); e la guerra sanguinosa per l'indipendenza, che ancora oggi riveste un ruolo determinante nel forgiare l'identità collettiva, venne combattuta contro truppe greche e contro l'Europa del trattato di Sèvres. La dura risposta della Turchia, politica e popolare, all'irrisolutezza europea dimostrata al vertice di Copenaghen del dicembre 1997, in cui venne presentata una vaga e inconcludente strategia d'integrazione per Ankara, ben rappresenta le potenzialità devastanti di questa radicata diffidenza. Il governo interruppe il dialogo politico con Bruxelles, i vertici militari quasi attaccarono la Siria rea di ospitare la guerriglia curda, il Partito nazionalista d'azione (Mhp, un partito estremista) conobbe un folgorante successo elettorale nelle elezioni del 1999. Un no definitivo dell'Europa alla Turchia – anche attraverso l'offerta di una “partnership privilegiata” o peggio dopo il fallimento di qualche referendum nazionale – non solo farebbe perdere all'Europa stessa un'opportunità epocale, ma con ogni probabilità consegnerebbe la Turchia agli istinti ipernazionalisti e al radicalismo islamico, contribuendo a creare un'area di vorticosa conflittualità alle porte di casa.



Giuseppe Mancini, dottorando in Storia moderna e contemporanea all'Istituto italiano di scienze umane di Napoli.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuilleton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006