Anna Maria Ortese e la fine della Natura
di Giuseppe Iannaccone
Ideazione di novembre-dicembre 2005

Negli anni Cinquanta era un leitmotiv assai ricorrente. Agli scrittori e alle scrittrici che collaboravano all'affollatissimo arcipelago delle riviste fiancheggiatrici del Partito comunista veniva spesso offerta la possibilità di un viaggio nel luogo mitico e seducente per eccellenza: l'Unione Sovietica. Il catalogo è ricco e comprende nomi del calibro di Calvino, della Viganò, di Sibilla Aleramo, tutti spediti nella meta delle loro utopie politiche per confezionarne apologie e celebrazioni a metà tra il giornalistico e il letterario. Anche Anna Maria Ortese, la cui firma compariva assiduamente in giornali e periodici legati alla sinistra italiana, ebbe l'opportunità di compiere nel 1954 la stessa, affascinante trasferta. Era abituata al ruolo di reporter e le sue cronache dall'Italia e dall'Europa erano state pubblicate dai più importanti settimanali a grande tiratura; sarà, tra l'altro, la prima donna a seguire nelle vesti di giornalista un'edizione del Giro d'Italia, nel 1955.

Il suo viaggio in Russia venne organizzato dall'Unione Donne Italiane, il gruppo di militanti comuniste che stampavano quel singolare impasto di femminismo ante litteram e impegno sociale che era la rivista Noi Donne. La Ortese, che faceva parte di una delegazione di operaie, impiegate, casalinghe, insegnanti e professioniste, tutte accomunate dall'ideologia del “sol dell'avvenire”, pubblicò però al suo ritorno il racconto del suo viaggio su un settimanale di impostazione moderata come L'Europeo. La sua fu una lettura personale e stravagante, certamente anticonformista: da un lato venivano smentiti alcuni riferimenti negativi tipici della pubblicistica antisovietica, ma dall'altro gli articoli non indulgevano a nessun intento celebrativo. Al contrario, come racconterà nel romanzo autobiografico Il cappello piumato, le sue impressioni non mancarono di appuntarsi sul «cielo triste» di quel paese, sui «pochi cappellini» delle donne, «tutti simili, assai antiquati», sull'«oceano commosso e desolato» di un popolo di eccezionale decoro eppure immerso in un rassegnato, stanco silenzio. Le polemiche non tardarono ad arrivare: «i dirigenti del Pci – ricorderà più tardi – dissero che ero andata in Russia a cercare solo le cose sgradevoli»; l'intero «mondo della sinistra milanese», all'epoca frequentato dalla scrittrice, le fece «il viso d'allarme» e in particolare Rossana Rossanda, direttrice della Casa della Cultura di Milano, non le risparmiò critiche velenose.

La nostalgia come fuga dal materialismo
Del resto, tutto il suo viaggio era stato condizionato dalla sorda ostilità che le avevano riservato le ortodosse componenti della delegazione comunista. Costretta a starsene appartata, ignorata per tutta la durata della visita, seppe ben presto che la ragione di tale contrarietà consisteva nell'aver scritto un libro contro il comunismo. Si trattava della sua opera più celebre, Il mare non bagna Napoli: una raccolta di prose, pubblicata nel 1953 da Einaudi, che sollevò da subito un vespaio di polemiche. Motivo centrale del libro, che ottenne peraltro il premio Viareggio, era la rappresentazione di una Napoli straziante e miserabile, macabra e tragica, il contrario di quella città ridente e incantata o tambureggiante e grottesca che il folclore e certa oleografia coloristica ottocentesca avevano falsamente descritto. Apriti, cielo: la stampa comunista si scatenò nel denunciare il pessimismo disfattista della scrittrice, il suo indulgere in una visione negativa senza speranza, che si compiaceva perfino di dipingere la plebe napoletana come un'accozzaglia scioperata e neghittosa, piegata al suo destino ineluttabile di miseria e abbrutimento. Sulle pagine di Rinascita, la Ortese veniva accusata di adottare la tipica «espressione di uno stato d'animo fascista» e di prestarsi alla strumentalizzazione di quei settori della società e della politica nazionale che avevano «interesse al perdurare di una società così avvilente». A rincarare la dose si mosse anche Mario Alicata, il più solerte interprete dello zdanovismo italiano, che individuava negli scritti della Ortese un naturalismo a senso unico, deformato da un «espressionismo esistenziale» che inquadrava le passività e le inerzie del popolo napoletano in uno degli schemi «peggiori e più invecchiati del naturalismo, quello razzistico». Si dirà: erano altri tempi, quelli della guerra fredda, quando finanche le descrizioni letterarie erano sottoposte al vaglio della censura e della strumentalizzazione politica. E invece, la ricezione stridente e scomoda del testo ortesiano è stata confermata anche un decennio fa, quando un altro dei sacerdoti della correttezza politica, lo scrittore napoletano Erri de Luca, in occasione della riedizione adelphiana de Il mare non bagna Napoli, non esitava ad accusare la scrittrice di «lombroseria geografica del pensiero», di «espressionismo del proprio ribrezzo».

La Ortese pagava inoltre il fio per aver voluto inserire alla fine del suo libro un'inchiesta sugli intellettuali partenopei: si intitolava provocatoriamente Il silenzio della ragione e vi si rappresentava tutto il fior fiore dell'intellighenzia napoletana progressista del tempo, dipinta nei suoi cinismi e nelle sue velleità burocratiche. Dell'impegno ideologico che aveva animato le speranze e le utopie generazionali all'indomani della seconda guerra mondiale, non era rimasto nulla se non uno spregiudicato ripiegamento su se stessi, un avvitarsi conformistico intorno a sterili parole vuote, un patetico cumulo di rancori e rivalità personali. Erano pagine, certamente, condite da una buona dose di risentimento, spiegabile però dalla volontà, che la Ortese coltivò per tutta la sua vita, di rifiutare ogni consorteria culturale e ogni apparato di potere. Per questo si autocondannò a un ruolo di assoluta marginalità rispetto ai salotti e alle conventicole della società letteraria italiana pur di salvaguardare la propria libertà e perseguendo con una determinazione che sfiorava il masochismo la sua rinuncia a legarsi a qualche partito, politico come letterario.

D'altra parte, la sua stessa opera creativa appare, di primo acchito, quanto di più lontano da una nozione di impegno politico: dalla silloge di racconti, Angelici dolori, pubblicata da Bompiani nel 1937, fino al suo ultimo romanzo, Alonso e i visionari, l'universo ortesiano si colloca in un clima irreale e soprannaturale, popolato com'è da tutta una serie di creature fantastiche che lo rendono intangibile e immateriale. Le iguane, i puma, i folletti, i monacielli, i cardilli sono solo alcuni degli abitanti di un mondo silenzioso e incompreso, opposto alla dimensione materiale e razionale in cui è sprofondato l'uomo moderno. Le figure dei romanzi della Ortese sembrano affidate alla libertà creativa di una visionaria assorta nel sogno e nell'immaginazione, a una abbagliata e irrazionale interprete del ricordo e dell'apparizione. Invece il suo ambiguo bestiario compone un'allusiva costellazione di messaggeri simbolici e anime oniriche e incomprese che la violenza della modernità ha voluto cancellare. Nella lettura ideologica della scrittrice, l'epoca che ha segnato la fine dei codici tradizionali e la messa in discussione dei valori spirituali dell'uomo, marcandone la crisi d'identità e l'inizio di un declino morale irreversibile, è il secolo dei lumi, quando cioè l'intelligenza scientifica, il dominio asettico e violento della ragione hanno cominciato a congiurare contro l'antico spirito del mondo e i suoi più tenaci difensori, quelle creature inimmaginabili, gnomi, folletti, e spiritelli che abitano le sue favole. Come ha scritto in uno dei suoi racconti, Il Monaciello di Napoli, pubblicato in rivista nel lontano 1940 e riproposto postumo in volume, l'inizio della disgregazione e del sovvertimento dei riferimenti simbolici che alimentavano e giustificavano l'identità dell'individuo ha coinciso con «l'ingresso nella nostra cultura del pensiero francese» e di conseguenza dei «progressi della scienza che mirava con un impetuoso colpevole entusiasmo a demolire la credenza nell'irreale che era tanta parte della nostra vita». L'individualismo e il materialismo hanno operato per desacralizzare l'esistente e rimuovere ab imis quelle norme un tempo insostituibili che cementavano il patrimonio collettivo delle tradizioni e delle credenze. L'economia e un senso malinteso di libertà, affidato solo ad un arbitrio dissociato dal rispetto della trascendenza, hanno sovvertito il mondo, costringendo gli uomini alla rincorsa di beni materiali, di attese crescenti poi puntualmente disilluse e infrangendo con la violenza sediziosa di un braccio secolare e profanatore i sistemi e le relazioni a cui per secoli essi avevano affidato una felicità per così dire primigenia e spontanea.

In Corpo celeste, una specie di testamento spirituale che la Ortese allestì prima di morire, la scrittrice individuava nella Rivoluzione francese e nella presa della Bastiglia il momento storico in cui l'intelligenza ha mostrato i lati bui e pericolosi della sua egemonia sull'uomo: «Allora fu dichiarata la sovranità divina dell'Intelligenza. […] E l'Intelligenza, paludata di Ragione, aveva giurato di agire, e fondare la libertà democratica: che non è la libertà del respiro. È semplicemente la libertà di tutti, la libertà senza limite, che alla fine toglie il Respiro a tutti». La cieca volontà di fare tabula rasa dei simboli, di violare con una furia sinistra i legami con la storia e col passato si è tradotta in una «libertà del nulla», che ha prodotto solo morte e omologazione, «l'uguaglianza invece delle differenze, una sterminata piattezza dovunque»: «Così si ballò e si cantò perché i Re erano caduti. Non si vide che i Re erano simboli, e la loro funzione (che certo andava corretta) enorme, nel comportamento dell'uomo, nella sua cultura, che è tutt'uno con l'uomo, perché l'uomo è cultura. Questa funzione segnava i gradi, i limiti, i ruoli dell'essere». Senza più confini, con un delirio di onnipotenza destinato fatalmente a rovesciarsi in frustrazione e disincanto, l'uomo ha pensato da quel momento di avere a portata di mano una felicità da attingere grazie al possesso, alla materia, al benessere, al facile guadagno. La cultura dell'avere ha preso il posto di quella dell'essere e il paradiso dell'economia fu promesso a tutti in cambio della distruzione dei retaggi e della tradizione, con la cancellazione repentina della Natura e delle sue leggi non scritte. Da tali promesse, scrive la Ortese, derivarono «tutte le altre religioni del vivere, e nacque l'uomo moderno. L'uomo “occidentale” con la sua “cultura”: che, se guardi bene, è solo cultura del numero (dell'Utile). E del proclama. Sotto l'utile e il proclama, di tutti i miglioramenti, domina e lavora un solo Signore: il Massacro. Tutta la Natura è fatta a pezzi, e venduta, mentre noi sogniamo la Felicità universale, e la Terra, sotto i nostri piedi, scricchiola. Avidità e invidia (della Intelligenza), insomma, hanno avuto la meglio: sulla Ragione, e legge, e la sua appassionata cultura».

La storia del pensiero politico è conseguenza, sia pure da punti di vista diversi, delle stesse ingannevoli aspettative, tutte fondate su mendaci promesse palingenetiche: il comunismo le ha tradite instaurando regimi liberticidi e totalitari, in cui il terrore ha vinto sulla libertà, costringendo gli uomini a vivere, come una ridda massificata e indistinta di individui, nel triste grigiore di «un grande crepuscolo». Ma anche il capitalismo ha costruito una società fondata sulle ingiustizie e su una visione darwiniana in cui ogni uomo finisce per essere nemico all'altro, in una competizione fratricida e bestiale. Comuni all'una come all'altra ideologia sono la filiazione moderna, la fede cieca e violenta nel progresso, l'ostinazione arbitraria nel «vedere l'uomo al centro della vita», in lotta contro gli altri, indifesi figli della Natura. Mentre l'originaria identità e la coscienza individuale si smarriscono nella gigantesca officina mercantile che è diventato il mondo, l'unica autorità che viene affermata è quella dell'economia e di un nuovo Dio, il Denaro, assurto a feticcio di una contemporaneità assurda e alienante: non «il piccolo denaro dato alla tua fatica, con il quale compri un libro, o un giardino, o salvi la tua anima (da inerzia e tristezza), ma il grande, l'infinito denaro col quale compri tutte le città e i campi che vuoi», non il denaro «inteso come corrispettivo, o simbolo di scambio, del valore di un'opera, di una impresa, ma come valore in sé, come oggetto estraneo alle opere e le imprese (alla umanità, infine)». Da qui alla censura della civiltà industriale, il passo è naturalmente breve. Essa, specie in Italia, in un paese dalle solide radici contadine, ha rappresentato il prodotto finale di una dittatura dell'economico che si è tradotta in una vera e propria religione della crescita.

Negli splendidi reportage scritti alla fine degli anni Cinquanta e poi raccolti nel 1958 nel volume edito da Laterza, Silenzio a Milano, la Ortese descrive i meccanismi della fabbrica che hanno portato i cittadini della capitale del miracolo economico italiano a una vera e propria mutazione antropologica: gli individui, inseriti come fantasmi in una mostruosa macchina fordistica, sono ritratti nella loro nuova condizione solitaria e spersonalizzata, atomi indifferenziati di una folla irriconoscibile e ostile, lemuri impersonali di una città che ha venduto l'anima al diavolo del progresso e della produttività a tutti i costi. La realtà che le appare agli occhi è narrata in tutta la sua radicale negatività: e in assenza di alternative storiche praticabili, alla Ortese non rimane che vagheggiare la restaurazione di un mondo che non esiste più e di cui si va perdendo progressivamente anche la memoria più elementare. Soluzioni per migliorare il disastro del presente, insomma, non ce ne sono: tutte le mitologie positive vengono demistificate come illusorie concessioni ad una sterile e retorica collettiva. Come per le plebi napoletane, così per gli anonimi cittadini delle metropoli industriali, come ancora per le periferie degradate ed emarginate di Roma, il messaggio ortesiano non conosce possibili ricette positive, e velleitarie si rivelano tutte le imbellettature di cui si ammanta il riformismo borghese con il suo corredo di appendici più o meno innovatrici. Il fatto è che l'abbandono dell'economia legata alla terra ha rappresentato per l'Italia una specie di irrecuperabile tradimento di un'identità atavica: «Ci domandavamo se qui, e soprattutto qui, in questo suo violento tentativo di farsi moderna, l'Italia non perdeva definitivamente il suo equilibrio, non entrava in crisi». Per arginare questa inevitabile dissoluzione, non rimane che alimentare la salvifica nostalgia per una società preborghese, in cui almeno sopravvivevano un criterio d'ordine e un patrimonio di valori in grado di salvaguardare l'integrità e la sacralità della vita.

Contro il «furto del respiro altrui»
La riflessione della Ortese finisce per appuntarsi su una specie di rassegnata maledizione del tempo presente, che non poteva che essere mal digerita dai campioni del riformismo o ancor peggio dagli esaltati idealisti della rivoluzione sociale. Ogni ideologia del riscatto, marxismo in testa, è inficiata dalla intrinseca adesione all'eredità del pensiero illuminista e dall'incapacità di opporre al razionalismo liberale un'idea che non si limiti ad essere solo materialistica. La storia non rappresenta affatto un progresso lineare e continuo e analizzare oggi la crisi della società italiana e dell'uomo moderno vuol dire soprattutto soffermarsi sui sistemi che incidono sulla perdita della coscienza individuale e sulla dispersione delle ragioni e delle motivazioni etiche che costituivano le originarie identità dell'uomo. In quest'ottica, ogni ipotesi di cambiamento che prescinda dalla profondità di un ripristino morale dell'individuo è destinata ad essere parziale e ingannevole: «Credo che riforme e rivoluzioni inizino di dentro, e abbiano una sola strada da percorrere: il rinnovamento della coscienza e del cuore dell'uomo. Tutte le riforme e le rivoluzioni che non abbiano per oggetto il rinnovamento, la rinascita della vita morale (prima che religiosa e politica) dell'uomo, sono illusorie, e destinate alla sconfitta in partenza». Da questo presupposto filosofico, la Ortese prende le mosse per un'analisi storica da cui è bandita ogni implicazione legata a una qualche concezione progressista: al contrario, la sua critica alla nevrosi della civiltà industriale e all'alienazione della società moderna si poggiano su una lettura piuttosto inusuale nella letteratura italiana del Novecento. La globalità e l'intransigenza con la quale la scrittrice rifiuta le forme della retorica collettiva di matrice comunista la portano infatti ad un'assoluta estraneità alle logiche economiche, sociali e culturali del presente, spingendola invece al rimpianto per una dimensione perduta. Ciò spiega il suo rifiuto della scienza, che ha portato l'uomo ad attribuirsi ingiuste e abusive facoltà, autorizzandone una sovvertitrice liceità senza riserve morali ai danni della Terra. Oggi «vi è il diritto universale, legittimato dalla sola forza, di mercanteggiare e corrompere ciò che dovrebbe essere intoccabile: gli spazi terrestri e celesti, con le loro creature che respirano; gli spazi sociali, con i figli dell'uomo che respirano. Distruggere campi e foreste, mutare e pervertire il ritmo delle stagioni; procedere tranquillamente alla reclusione e al massacro di milioni di creature ogni giorno solo per nutrirsi di carne o per indossare pellicce; torturare liberamente, in liberi laboratori, milioni di esseri sensibili e ignoti quanto l'uomo, torturarli fino alla morte… tutto questo viene presentato come difesa del proprio respiro (o libertà) dell'uomo». E invece tale irresponsabile «furto del respiro altrui» corrisponde solo al diritto che l'uomo si è assegnato di calpestare le leggi naturali tacitando «ogni altro genere di preoccupazioni (morali), lasciando unicamente agli uomini di scienza il diritto di stabilire ciò che si può fare e non si può fare». È logico quindi che la Ortese affermi il proprio rifiuto etico dell'aborto, della vivisezione e di tutto quanto comporta un razionalismo ossessionato dal delirio laico senza scrupoli delle conquiste della scienza. Tutta la sua visione filosofica della vita si riassume, come scrive in un articolo pubblicato nel 1973 dal quotidiano Il Giorno e mai raccolto in volume, nel rispetto della regola morale, vale a dire nella difesa del cucciolo, cioè del debole e dell'indifeso, nell'esigenza di «non infierire sull'avversario caduto» e, infine – con un diretto riferimento alle forme di accanimento terapeutico imposte da una moderna morale che non si arresta dinanzi a nulla – nell'«accettare il morire naturale senza tentare, in ogni caso, di allontanarlo, quando è inevitabile, quando fa parte, addirittura, della dignità morale». Come potesse reagire la cultura italiana, infarcita specie nelle sue appendici salottiere di un illuminismo dai tratti di una vera e propria religione laica a senso unico, è facile immaginare: con l'anatema o, nel migliore dei casi, con l'emarginazione decretata alla già solitaria scrittrice.

Negli ultimi anni di vita, tuttavia, la Ortese non mancò in qualche occasione di passare da enunciati ideologici controcorrente al vero e proprio impegno in interventi pubblici su cause civili e politiche. È il caso della sua attiva partecipazione alla mobilitazione promossa da il Giornale contro la pena di morte per Joseph O' Dell, fra il dicembre del 1996 e il luglio del 1997, e della sua inutile battaglia per salvare la vita a un altro condannato a morte, Scotty Moore. Si tratta di scritti che non si concentrano sui casi specifici: la Ortese non reclama l'innocenza dei due condannati, né entra nello specifico delle accuse, ma si scaglia contro la pena capitale, poiché «dare la morte, in tempi non di guerra ma di libertà e pace, è misurarsi con quel Dio che ha creato il mondo, e dato a ogni vivente il suo respiro, e a ogni tempo dell'uomo il suo inizio e la sua fine». Ma a attirarle proteste e accuse a non finire è un articolo, pubblicato il 12 gennaio del 1997 sempre da il Giornale in cui la scrittrice interviene in favore di Erich Priebke, l'ex ufficiale delle SS, allora in attesa di giudizio sul suo coinvolgimento all'eccidio delle Fosse Ardeatine. La Ortese, senza scendere in valutazioni di ordine politico, esprimeva il suo punto di vista improntato alla pietà cristiana e a un senso pre-ideologico di giustizia poetica e misericordiosa, chiedendo pietà per il vecchio «lupo sconfitto» e non mancando di riconoscerne la dignità con cui accetta «il proprio destino di sconfitto» e «tutto il rituale solenne della giustizia insieme con i ricordi di quello che ormai era il suo paese». Nel processo subito da Priebke, la Ortese sottolinea inoltre una decisiva mancanza, «il movente della rappresaglia»: «mancavano i trenta e più morti di via Rasella. E senza quei trenta e più morti, le Ardeatine restano un mistero del Male. Sono incomprensibili. Tutto quanto accadde è incomprensibile… Nessuno, per le Ardeatine, si offerse di pagare per tutti gli altri. Come dunque ci si aspettava che Priebke morisse per il nemico?... Miracolo se l'imputato ha ancora memoria di quel giorno tremendo, dove la sua parte fu, del resto, limitata a due morti». Le reazioni furono un coro di riprovazione, che raggiunse forme di violenza che la dicevano lunga sul grado di intolleranza toccato dai censori. Tra questi, uno dei più pronti alla sdegnata mobilitazione, un esercizio moralizzatore a cui è particolarmente allenato, Antonio Tabucchi non lesinava aggettivi («oltraggioso» e «deplorevole», per citarne un paio) per l'intervento della scrittrice scesa in campo per difendere la dignità del carnefice, dimenticando quella delle vittime. «Ho voluto sfidare questa omogeneità di cuori», replicò con altro stile la Ortese: «Chi dice che il cuore di Priebke non sia pieno di pentimento? Comunque sia, quell'uomo è vecchio e solo. Non concedergli di tornare a casa quello sì che è nazismo».


Giuseppe Iannaccone, docente di Letteratura italiana contemporanea all'Università Roma Tre.

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