I referendum che in Francia ed in Olanda hanno bocciato il Trattato costituzionale
destinato, nelle intenzioni, a ridisegnare le istituzioni dell'Unione in
coincidenza con l'allargamento, hanno determinato uno stallo nel processo
di integrazione. In realtà il voto francese non è stato un
voto sui contenuti delle nuove regole per l'Europa, ridondanti e frutto
di troppi compromessi ma comunque con qualche elemento positivo, bensì
un voto sull'Unione Europea in quanto tale e sugli effetti dell'allargamento.
A vincere è stata la paura, la paura del futuro che ha visto nell'allargamento
dell'Unione il suo capro espiratorio. Ma a determinare la vittoria dei no
alla Costituzione è stata anche la vaghezza che ormai caratterizza
il “modello europeo”. Per anni il progetto europeo è cresciuto attorno
a due certezze granitiche: la pacificazione, che ha portato al tabù
della guerra tra europei (per altro un dato di fatto per i più giovani),
e la crescita economica e del benessere per i cittadini della Comunità.
In entrambi i casi la progressiva integrazione economica e politica dei
paesi membri ha svolto un ruolo importante.
Oggi queste certezze vacillano. Tutto ciò che va sotto il nome di
globalizzazione ha rapidamente indebolito, per diverse ragioni, le sicurezze
cui gli europei si erano abituati. Sul fronte della crescita economica la
mondializzazione dei mercati ha portato alla ribalta nuovi protagonisti,
capaci di competere direttamente con gli europei rimettendo in discussione
paradigmi sperimentati e la convinzione di un processo lineare e ineluttabile
di crescita della ricchezza per tutti gli abitanti del vecchio continente.
Per quanto riguarda la “pace”, l'emergere di nuove minacce alla sicurezza
interna derivanti dal salto di qualità del terrorismo fondamentalista
d'un tratto ha fatto precipitare l'Europa in uno stato di conflitto inedito
e non dichiarato.
Sul terrorismo e la crisi internazionale che ne è seguita, l'impreparazione
e l'incapacità dell'Unione in quanto tale di rassicurare gli europei
sulla adeguatezza delle istituzioni comuni è apparsa clamorosa. Le
risposte, di segno diverso tra loro, sono arrivate esclusivamente dai singoli
Stati e Bruxelles è apparsa marginale se non inutile. Quanto alla
tenuta dell'economia, le difficoltà provocate dalla globalizzazione
sembrano aver colto di sorpresa l'Europa incapace, tanto a Bruxelles che
in molte capitali, di imporre un'inversione di rotta al “modello europeo”,
che poi è il modello continentale. Le recenti elezioni politiche
in Germania, su cui torneremo, hanno dato segnali contraddittori. Interessante
è la lettura che di esse ha fatto sul Financial Times Wolfang Munchau,
il quale ha sostenuto come l'empasse tedesco segnali la stanchezza degli
elettori per una eterna “stagione delle riforme”, sempre preannunciate ma
mai attuate con la radicalità sufficiente a determinare un vero cambio
di passo o, appunto, di modello. In Germania le riforme di Schröder
hanno puntato a ridurre i troppo generosi benefici dello Stato sociale ma
non hanno affrontato di petto l'assetto corporativo e consociativo dell'economia
tedesca; non vi è stato alcun affondo significativo sul piano delle
liberalizzazioni, le uniche in grado di rilanciare competitività
e crescita e quindi l'occupazione interna. I tedeschi si sono così
trovati con meno protezione ma anche meno prospettive, e hanno decretato
lo stallo. Se avesse vinto la coalizione tra popolari e liberali questa
lacuna sarebbe probabilmente stata colmata (almeno nelle intenzioni programmatiche),
ma gli elettori tedeschi hanno di fatto bocciato tale prospettiva, nonostante
la vittoria di misura della Merkel sulla coalizione rossoverde e nonostante
l'affermazione dei liberali con la loro piattaforma liberista.
Fosse vera questa analisi, e probabilmente in buona misura lo è,
significherebbe che per la Germania, ma in definitiva per l'Europa stessa
(visto cosa accade in Francia e nella sostanza anche in Italia), «la
stagione delle riforme è finita prima di cominciare», come
conclude Munchau.
Tanto sul fronte della politica internazionale che su quello della politica
economica l'Europa ha sempre definito il proprio modello innanzitutto in
contrapposizione a quello americano, rifiutando la politica di potenza per
un verso e criticando la durezza del capitalismo statunitense cui contrapporre
la maggiore dimensione “sociale” europea per un altro.
Fintanto che non si sono posti seri problemi di sicurezza e che l'economia
europea al riparo dei venti asiatici ha goduto, pur tra alti e bassi, di
buona salute, questa vaghezza dei riferimenti non costituiva realmente un
ostacolo all'integrazione; anzi, per molti aspetti la facilitava. Nei decenni
che abbiamo alle spalle (sicuramente fino al trattato di Maastricht) la
costruzione europea era un fine in sé, esaltato dalla politica alta
dei fondatori come Monnet, Schuman e De Gasperi o dal mutuo sostegno di
Kohl e Mitterrand che ha portato alla moneta unica come precondizione per
una maggiore integrazione politica. Di fronte alle difficoltà epocali
di questo inizio del terzo millennio, però, i cittadini europei hanno
guardato all'Europa non più come un fine in sé, ma come un
governo da cui attendersi risposte e soluzioni. Non diversamente da come
si guarda ai governi nazionali, ma con la differenza che mentre dei governi
nazionali vengono messe in discussione le politiche ma non l'esistenza,
delle istituzioni comunitarie si discute non solo l'efficacia ma anche l'utilità
(in questo ha giocato spesso il vizio delle capitali di scaricare su Bruxelles
le responsabilità di politiche di cui non si aveva il coraggio di
addossarsi la piena titolarità, temendo l'impopolarità). Nel
momento in cui l'Europa cessa di essere vista soprattutto come un fine e
diviene uno strumento di governo emergono le contraddizioni.
Da un lato queste contraddizioni risiedono in un disegno istituzionale barocco
e inefficace, in cui i contrappesi valgono assai più dei pesi, i
contropoteri dei poteri. Dall'altro la difesa di un evanescente modello
europeo – che come abbiamo detto si definisce più in negativo, ciò
che non è o non vuole essere, piuttosto che in positivo – è
divenuta un pericoloso elemento di paralisi. L'ortodossia monetarista e
il rigore nei conti pubblici ancorati al trattato di Maastricht, rimasti
orfani di adeguate politiche di flessibilità e dinamizzazione dei
sistemi economici che ne avrebbero dovuto rappresentare il complemento,
sono finiti ingiustamente sul banco degli imputati. Da questo punto di vista,
però, le responsabilità proprie dell'Unione sfumano in una
indistinta politica conservatrice che, in definitiva, accomuna Bruxelles
con Berlino, Parigi o Roma. Non è un caso che le esperienze di maggior
successo siano eccentriche rispetto alla tradizione europea, come il blairismo
neo-tatcheriano in Gran Bretagna o lo zapaterismo in Spagna, che gestisce
la continuità dell'approccio riformatore dei governi precedenti (oppure,
e ci verremo, nel caso dei nuovi paesi membri). In Italia il berlusconismo
ha promesso una stagione riformatrice e liberale che superasse d'un balzo
la stagione corporativa e consociativa ma, come sappiamo, non ha poi saputo
o potuto fino ad ora mantenere fede in misura adeguata alle aspettative.
Il rischio che le elezioni tedesche segnino un punto di svolta e preannuncino
una rinuncia alle politiche riformatrici è dunque reale. L'erosione
del consenso popolare alle scelte di innovazione e di distruzione creatrice
è uno spettro che potrebbe materializzarsi, complice l'invecchiamento
della popolazione e dell'elettorato: le generazioni che hanno vissuto una
stagione di certezze e di benevolo paternalismo statale ed assistenziale
potrebbero razionalmente scegliere di rinviare il più possibile il
superamento di quel “modello”; un lento declino potrebbe essere percepito
come a loro più favorevole rispetto ad una stagione di cambiamenti.
Gli outsider e i giovani, coloro che hanno meno da perdere e più
da guadagnare da un tentativo di rivitalizzare l'economia europea mettendone
in discussione gli assetti, sono in minoranza o comunque sottorappresentati
politicamente.
A questo scenario esiziale per il futuro dell'Europa ne va contrapposto
uno di segno opposto e su di esso va ricercato il consenso. Proprio l'analisi
di quanto sta accadendo in Germania offre un buon punto di partenza. L'unificazione
tedesca, per come è stata realizzata, è stata fin qui del
tutto deludente. L'ex Ddr resta una regione arretrata in cui sale il malcontento,
nonostante il massiccio travaso di risorse ad opera della Germania occidentale,
sia da parte pubblica che privata. L'idea di poter integrare nel “modello
sociale europeo” con una operazione dirigista e a tappe forzate una parte
di territorio per decenni vittima della scientifica distruzione della libertà
economica, si è rivelata illusoria. I tedeschi orientali si sono
sentiti in diritto di accedere immediatamente agli standard di protezione
e di salario del resto del paese, senza però che la loro produttività
lo giustificasse. Mentre il sogno di fratellanza e di uguaglianza – e di
potenza – di Kohl si è infranto rapidamente, qualche centinaio di
chilometri più a est, invece, altri paesi e altre popolazioni che
avevano parimenti subito il giogo del socialismo realizzato hanno compiuto
un percorso diverso e ottenuto risultati ben più promettenti.
La Polonia, l'Ungheria, le repubbliche baltiche e quella della ex Cecoslovacchia
hanno dovuto guadagnarsi l'ingresso nell'Unione Europea attraverso un serrato
programma di riforme economiche – e non solo economiche, naturalmente –
per soddisfare i criteri di adesione. Questi paesi, mi si passi la semplificazione,
hanno fatto scelte assai più “americane” che “renane” e si trovano
oggi nella condizione di essere in molti settori decisamente competitivi
con i più blasonati paesi dell'Europa a quindici. Per tutte valgono
le scelte in campo fiscale, con aliquote assai meno onerose e in alcuni
casi l'adozione della flat tax. A differenza di quanto accade nella Germania
orientale dove le imprese occidentali che hanno investito si sono non di
rado trovate a ritirarsi con perdite, negli altri paesi un tempo oltre cortina
gli investimenti internazionali, europei ed extraeuropei, abbondano. I paesi
dell'allargamento, pur con i tanti problemi aperti, hanno saputo fare delle
sfavorevoli condizioni di partenza un vantaggio comparato e oggi sono visti
come competitori da cui difendersi secondo le parole d'ordine che valgono
per la Cina, prima tra tutte l'accusa di dumping sociale.
Ma anziché porsi con un riflesso protezionista nei confronti di queste
economie emergenti, il resto dell'Europa farebbe bene a riflettere su due
elementi. Il primo è che un'area di dinamismo economico all'interno
dell'Unione non può che portare benefici all'economia del mercato
unico nel suo complesso, stimolando la competizione e accelerando quei mutamenti
nelle specializzazioni produttive utilissime per giocare da protagonisti
sui mercati internazionali. Il secondo è che un'economia più
flessibile è possibile – e vincente – anche nel cuore del vecchio
continente.
Gli interessi costituiti e le rendite di posizione, che in Europa continuano
a godere di protezione più che negli Stati Uniti e che vengono messe
in discussione perfino nel tradizionalista Giappone (la privatizzazione
delle Poste di cui Koizumi ha fatto il dirompente elemento simbolico della
sua recente e vittoriosa campagna elettorale ne è la testimonianza)
sono i veri nemici della tenuta dell'economia e della capacità di
continuare a generare ricchezza.
Il declino verso cui rischierebbe di incamminarsi un'Europa che decretasse
il superamento della stagione delle riforme (in gran parte incompiute) potrebbe
rivelarsi ben più rapido del previsto e finire per travolgere anche
quanti, elettori, lo sostenessero.
Il futuro dell'Europa si gioca oggi come cinquanta o quarant'anni fa sul
coraggio e la visione delle leadership. Visione di un ruolo internazionale
che l'Europa potrà avere solo se prenderà atto che i mutati
equilibri demografici ed economici impongono quell'unità nella politica
estera e di difesa che ancora è lontana, come dimostra il contenzioso
tra i paesi membri sulla riforma dell'Onu, dove le velleità dei singoli
Stati hanno prevalso. Ma anche e soprattutto visione di un nuovo “modello”
sociale ed economico europeo, sottratto all'ipoteca corporativa e statalista
e restituito al protagonismo responsabile di imprenditori e consumatori:
un'Europa ri-fondata sul merito e la concorrenza.
Questa visione di chi, pur consapevole di alcune differenze irriducibili
che sarebbe stupido prima che velleitario pensare di cancellare, punta alla
convergenza più che al conflitto con il “modello americano”, si contrappone
alla scelta della conservazione e del protezionismo in nome di una specificità
che, se mai la si potesse definire in positivo, rischierebbe di consegnare
la supremazia europea per sempre ai libri di storia.
L'Europa del terzo millennio per conservare il proprio ruolo deve riscoprire
una vocazione antica, quella liberale (e liberista), fondata su regole che
esaltino la libertà anziché sacrificarla ai miti dello Stato
protettore e della redistribuzione assistenzialista.
Benedetto
Della Vedova, presidente dei Riformatori liberali, è stato parlamentare
europeo radicale nella passata legislatura.
(c)
Ideazione.com (2006)
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