Il declino del modello sociale
di Benedetto Della Vedova
Ideazione di novembre-dicembre 2005

I referendum che in Francia ed in Olanda hanno bocciato il Trattato costituzionale destinato, nelle intenzioni, a ridisegnare le istituzioni dell'Unione in coincidenza con l'allargamento, hanno determinato uno stallo nel processo di integrazione. In realtà il voto francese non è stato un voto sui contenuti delle nuove regole per l'Europa, ridondanti e frutto di troppi compromessi ma comunque con qualche elemento positivo, bensì un voto sull'Unione Europea in quanto tale e sugli effetti dell'allargamento. A vincere è stata la paura, la paura del futuro che ha visto nell'allargamento dell'Unione il suo capro espiratorio. Ma a determinare la vittoria dei no alla Costituzione è stata anche la vaghezza che ormai caratterizza il “modello europeo”. Per anni il progetto europeo è cresciuto attorno a due certezze granitiche: la pacificazione, che ha portato al tabù della guerra tra europei (per altro un dato di fatto per i più giovani), e la crescita economica e del benessere per i cittadini della Comunità. In entrambi i casi la progressiva integrazione economica e politica dei paesi membri ha svolto un ruolo importante.

Oggi queste certezze vacillano. Tutto ciò che va sotto il nome di globalizzazione ha rapidamente indebolito, per diverse ragioni, le sicurezze cui gli europei si erano abituati. Sul fronte della crescita economica la mondializzazione dei mercati ha portato alla ribalta nuovi protagonisti, capaci di competere direttamente con gli europei rimettendo in discussione paradigmi sperimentati e la convinzione di un processo lineare e ineluttabile di crescita della ricchezza per tutti gli abitanti del vecchio continente. Per quanto riguarda la “pace”, l'emergere di nuove minacce alla sicurezza interna derivanti dal salto di qualità del terrorismo fondamentalista d'un tratto ha fatto precipitare l'Europa in uno stato di conflitto inedito e non dichiarato.

Sul terrorismo e la crisi internazionale che ne è seguita, l'impreparazione e l'incapacità dell'Unione in quanto tale di rassicurare gli europei sulla adeguatezza delle istituzioni comuni è apparsa clamorosa. Le risposte, di segno diverso tra loro, sono arrivate esclusivamente dai singoli Stati e Bruxelles è apparsa marginale se non inutile. Quanto alla tenuta dell'economia, le difficoltà provocate dalla globalizzazione sembrano aver colto di sorpresa l'Europa incapace, tanto a Bruxelles che in molte capitali, di imporre un'inversione di rotta al “modello europeo”, che poi è il modello continentale. Le recenti elezioni politiche in Germania, su cui torneremo, hanno dato segnali contraddittori. Interessante è la lettura che di esse ha fatto sul Financial Times Wolfang Munchau, il quale ha sostenuto come l'empasse tedesco segnali la stanchezza degli elettori per una eterna “stagione delle riforme”, sempre preannunciate ma mai attuate con la radicalità sufficiente a determinare un vero cambio di passo o, appunto, di modello. In Germania le riforme di Schröder hanno puntato a ridurre i troppo generosi benefici dello Stato sociale ma non hanno affrontato di petto l'assetto corporativo e consociativo dell'economia tedesca; non vi è stato alcun affondo significativo sul piano delle liberalizzazioni, le uniche in grado di rilanciare competitività e crescita e quindi l'occupazione interna. I tedeschi si sono così trovati con meno protezione ma anche meno prospettive, e hanno decretato lo stallo. Se avesse vinto la coalizione tra popolari e liberali questa lacuna sarebbe probabilmente stata colmata (almeno nelle intenzioni programmatiche), ma gli elettori tedeschi hanno di fatto bocciato tale prospettiva, nonostante la vittoria di misura della Merkel sulla coalizione rossoverde e nonostante l'affermazione dei liberali con la loro piattaforma liberista.

Fosse vera questa analisi, e probabilmente in buona misura lo è, significherebbe che per la Germania, ma in definitiva per l'Europa stessa (visto cosa accade in Francia e nella sostanza anche in Italia), «la stagione delle riforme è finita prima di cominciare», come conclude Munchau.
Tanto sul fronte della politica internazionale che su quello della politica economica l'Europa ha sempre definito il proprio modello innanzitutto in contrapposizione a quello americano, rifiutando la politica di potenza per un verso e criticando la durezza del capitalismo statunitense cui contrapporre la maggiore dimensione “sociale” europea per un altro.
Fintanto che non si sono posti seri problemi di sicurezza e che l'economia europea al riparo dei venti asiatici ha goduto, pur tra alti e bassi, di buona salute, questa vaghezza dei riferimenti non costituiva realmente un ostacolo all'integrazione; anzi, per molti aspetti la facilitava. Nei decenni che abbiamo alle spalle (sicuramente fino al trattato di Maastricht) la costruzione europea era un fine in sé, esaltato dalla politica alta dei fondatori come Monnet, Schuman e De Gasperi o dal mutuo sostegno di Kohl e Mitterrand che ha portato alla moneta unica come precondizione per una maggiore integrazione politica. Di fronte alle difficoltà epocali di questo inizio del terzo millennio, però, i cittadini europei hanno guardato all'Europa non più come un fine in sé, ma come un governo da cui attendersi risposte e soluzioni. Non diversamente da come si guarda ai governi nazionali, ma con la differenza che mentre dei governi nazionali vengono messe in discussione le politiche ma non l'esistenza, delle istituzioni comunitarie si discute non solo l'efficacia ma anche l'utilità (in questo ha giocato spesso il vizio delle capitali di scaricare su Bruxelles le responsabilità di politiche di cui non si aveva il coraggio di addossarsi la piena titolarità, temendo l'impopolarità). Nel momento in cui l'Europa cessa di essere vista soprattutto come un fine e diviene uno strumento di governo emergono le contraddizioni.

Da un lato queste contraddizioni risiedono in un disegno istituzionale barocco e inefficace, in cui i contrappesi valgono assai più dei pesi, i contropoteri dei poteri. Dall'altro la difesa di un evanescente modello europeo – che come abbiamo detto si definisce più in negativo, ciò che non è o non vuole essere, piuttosto che in positivo – è divenuta un pericoloso elemento di paralisi. L'ortodossia monetarista e il rigore nei conti pubblici ancorati al trattato di Maastricht, rimasti orfani di adeguate politiche di flessibilità e dinamizzazione dei sistemi economici che ne avrebbero dovuto rappresentare il complemento, sono finiti ingiustamente sul banco degli imputati. Da questo punto di vista, però, le responsabilità proprie dell'Unione sfumano in una indistinta politica conservatrice che, in definitiva, accomuna Bruxelles con Berlino, Parigi o Roma. Non è un caso che le esperienze di maggior successo siano eccentriche rispetto alla tradizione europea, come il blairismo neo-tatcheriano in Gran Bretagna o lo zapaterismo in Spagna, che gestisce la continuità dell'approccio riformatore dei governi precedenti (oppure, e ci verremo, nel caso dei nuovi paesi membri). In Italia il berlusconismo ha promesso una stagione riformatrice e liberale che superasse d'un balzo la stagione corporativa e consociativa ma, come sappiamo, non ha poi saputo o potuto fino ad ora mantenere fede in misura adeguata alle aspettative.

Il rischio che le elezioni tedesche segnino un punto di svolta e preannuncino una rinuncia alle politiche riformatrici è dunque reale. L'erosione del consenso popolare alle scelte di innovazione e di distruzione creatrice è uno spettro che potrebbe materializzarsi, complice l'invecchiamento della popolazione e dell'elettorato: le generazioni che hanno vissuto una stagione di certezze e di benevolo paternalismo statale ed assistenziale potrebbero razionalmente scegliere di rinviare il più possibile il superamento di quel “modello”; un lento declino potrebbe essere percepito come a loro più favorevole rispetto ad una stagione di cambiamenti. Gli outsider e i giovani, coloro che hanno meno da perdere e più da guadagnare da un tentativo di rivitalizzare l'economia europea mettendone in discussione gli assetti, sono in minoranza o comunque sottorappresentati politicamente.

A questo scenario esiziale per il futuro dell'Europa ne va contrapposto uno di segno opposto e su di esso va ricercato il consenso. Proprio l'analisi di quanto sta accadendo in Germania offre un buon punto di partenza. L'unificazione tedesca, per come è stata realizzata, è stata fin qui del tutto deludente. L'ex Ddr resta una regione arretrata in cui sale il malcontento, nonostante il massiccio travaso di risorse ad opera della Germania occidentale, sia da parte pubblica che privata. L'idea di poter integrare nel “modello sociale europeo” con una operazione dirigista e a tappe forzate una parte di territorio per decenni vittima della scientifica distruzione della libertà economica, si è rivelata illusoria. I tedeschi orientali si sono sentiti in diritto di accedere immediatamente agli standard di protezione e di salario del resto del paese, senza però che la loro produttività lo giustificasse. Mentre il sogno di fratellanza e di uguaglianza – e di potenza – di Kohl si è infranto rapidamente, qualche centinaio di chilometri più a est, invece, altri paesi e altre popolazioni che avevano parimenti subito il giogo del socialismo realizzato hanno compiuto un percorso diverso e ottenuto risultati ben più promettenti.

La Polonia, l'Ungheria, le repubbliche baltiche e quella della ex Cecoslovacchia hanno dovuto guadagnarsi l'ingresso nell'Unione Europea attraverso un serrato programma di riforme economiche – e non solo economiche, naturalmente – per soddisfare i criteri di adesione. Questi paesi, mi si passi la semplificazione, hanno fatto scelte assai più “americane” che “renane” e si trovano oggi nella condizione di essere in molti settori decisamente competitivi con i più blasonati paesi dell'Europa a quindici. Per tutte valgono le scelte in campo fiscale, con aliquote assai meno onerose e in alcuni casi l'adozione della flat tax. A differenza di quanto accade nella Germania orientale dove le imprese occidentali che hanno investito si sono non di rado trovate a ritirarsi con perdite, negli altri paesi un tempo oltre cortina gli investimenti internazionali, europei ed extraeuropei, abbondano. I paesi dell'allargamento, pur con i tanti problemi aperti, hanno saputo fare delle sfavorevoli condizioni di partenza un vantaggio comparato e oggi sono visti come competitori da cui difendersi secondo le parole d'ordine che valgono per la Cina, prima tra tutte l'accusa di dumping sociale.
Ma anziché porsi con un riflesso protezionista nei confronti di queste economie emergenti, il resto dell'Europa farebbe bene a riflettere su due elementi. Il primo è che un'area di dinamismo economico all'interno dell'Unione non può che portare benefici all'economia del mercato unico nel suo complesso, stimolando la competizione e accelerando quei mutamenti nelle specializzazioni produttive utilissime per giocare da protagonisti sui mercati internazionali. Il secondo è che un'economia più flessibile è possibile – e vincente – anche nel cuore del vecchio continente.

Gli interessi costituiti e le rendite di posizione, che in Europa continuano a godere di protezione più che negli Stati Uniti e che vengono messe in discussione perfino nel tradizionalista Giappone (la privatizzazione delle Poste di cui Koizumi ha fatto il dirompente elemento simbolico della sua recente e vittoriosa campagna elettorale ne è la testimonianza) sono i veri nemici della tenuta dell'economia e della capacità di continuare a generare ricchezza.
Il declino verso cui rischierebbe di incamminarsi un'Europa che decretasse il superamento della stagione delle riforme (in gran parte incompiute) potrebbe rivelarsi ben più rapido del previsto e finire per travolgere anche quanti, elettori, lo sostenessero.
Il futuro dell'Europa si gioca oggi come cinquanta o quarant'anni fa sul coraggio e la visione delle leadership. Visione di un ruolo internazionale che l'Europa potrà avere solo se prenderà atto che i mutati equilibri demografici ed economici impongono quell'unità nella politica estera e di difesa che ancora è lontana, come dimostra il contenzioso tra i paesi membri sulla riforma dell'Onu, dove le velleità dei singoli Stati hanno prevalso. Ma anche e soprattutto visione di un nuovo “modello” sociale ed economico europeo, sottratto all'ipoteca corporativa e statalista e restituito al protagonismo responsabile di imprenditori e consumatori: un'Europa ri-fondata sul merito e la concorrenza.

Questa visione di chi, pur consapevole di alcune differenze irriducibili che sarebbe stupido prima che velleitario pensare di cancellare, punta alla convergenza più che al conflitto con il “modello americano”, si contrappone alla scelta della conservazione e del protezionismo in nome di una specificità che, se mai la si potesse definire in positivo, rischierebbe di consegnare la supremazia europea per sempre ai libri di storia.
L'Europa del terzo millennio per conservare il proprio ruolo deve riscoprire una vocazione antica, quella liberale (e liberista), fondata su regole che esaltino la libertà anziché sacrificarla ai miti dello Stato protettore e della redistribuzione assistenzialista.



Benedetto Della Vedova, presidente dei Riformatori liberali, è stato parlamentare europeo radicale nella passata legislatura.

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