Il riferimento al fusionismo, ovvero alla possibilità di un incontro
fecondo e non più conflittuale tra la tradizione conservatrice, il
libertarianism e il liberalismo classico, che Frank Meyer lanciò
sul mercato delle idee degli Stati Uniti negli anni Sessanta, costituisce
per Joseph Bottum soltanto il punto di partenza. Infatti, se in quegli anni
si trattava del tentativo di unificare le famiglie politiche che si erano
opposte e che si opponevano alle degenerazioni del welfare state e all'eredità
politica e culturale del New Deal, ora il problema è diverso e forse
anche un po' più complicato. Soprattutto per il fatto che la soluzione
che egli propone non è facilmente ed immediatamente esportabile.
L'interrogativo teorico e politico, che in qualche modo è la conseguenza
della vittoria che, sempre nel mercato delle idee, hanno conseguito le varie
famiglie del conservatism, consiste oggi nel chiedersi se dal movimento
che punta risolutamente all'abolizione dell'aborto e da quello che sostiene
la promozione della democrazia, sia ricavabile una sintesi teorica che possa
fungere da valore fondamentale per consolidare e rilanciare quel «sentimento
di una missione nazionale rinato dalla vigorosa reazione agli attentati
dell'11 settembre». In altre parole, la questione è se tutto
ciò può «contribuire a unire le forze per fermare il
massacro di milioni di bambini non nati ogni anno», e se «l'energia
della battaglia per la vita – la causa etica fondamentale del nostro tempo
– potrebbe far rinascere la fede nel grande esperimento americano».
Si tratta indubbiamente di una questione di fondamentale importanza che
interessa tutti per una serie di motivi. Alcuni interni alle dinamiche e
alle contrapposizioni che vigono nell'ambito del movimento conservatore
americano (che, come Bottum mette in evidenza, è tanto variegato
da indurlo ad affermare che «in America sono più numerose le
categorie dei conservatori che i conservatori stessi». Altri relativi
alla crescente consapevolezza delle profonde diversità che su temi
specifici si stanno delineando anche all'interno di famiglie politiche,
e che si aggiungono alle diverse e non sempre facilmente componibili fonti
filosofiche e culturali delle varie anime della galassia conservatrice.
Altri, infine, sono connessi al fatto che il conservatorismo, per molti
versi, è cosa diversa sia dal liberalismo classico (quello, ad esempio,
di Hayek, Mises, Buchanan), sia dal libertarianism (quello, ad esempio,
di Rothbard o di Rand).
A noi italiani, infine, interessa chiederci se la soluzione prospettata
da Bottum possa avere una rilevanza per tentare di unificare quelle varie
tradizioni politiche che condividono l'avversione per le politiche economiche,
culturali, sociali della sinistra e che, pur respingendone senza infingimenti
la politica estera, il “giustificazionismo” del terrorismo di matrice islamista,
e la sottovalutazione delle degenerazioni del multiculturalismo, stentano
a trovare un solido punto di incontro e a proiettarlo nel futuro. Tutto
ciò fa sì che la gestione politica di tante diversità
non sia sempre facile ed è comunque appesa ad un filo.
Ovviamente, pur non nutrendo fede alcuna nella possibilità di esportare
un esperimento italiano, la questione non può lasciarci indifferenti.
Se non altro per il fatto che anche noi iniziamo a chiederci se l'insistenza
sulla nostra fallibilità sia effettivamente così distante
dal relativismo, e l'aver smesso di «credere nella possibilità
di essere nel giusto», non siano altro che atteggiamenti filosofici,
morali e culturali che potrebbero, e neanche tanto alla lunga, paralizzare
ogni progettualità politica diversa dal risolvere – e non sempre
ci si riesce – i problemi contingenti.
In altre parole, e per non farla troppo lunga, la questione posta da Bottum
è se esiste, o se può essere trovata, un'idea forte che possa
accomunare le varie componenti di quel movimento politico che è certamente
e fortemente unito dal rigetto delle ideologie liberal (sia nella versione
democratica, sia in quella socialdemocratica) e “cattolica dossettiana”,
ma che rischia di trasformarsi in un fenomeno politico fragile e momentaneo
proprio per il fatto che quell'idea forte non riesce a trovarla.
Di conseguenza l'analisi di Bottum appare condivisibile soltanto quando
mette in luce come la convivenza tra le varie anime del conservatorismo
americano non sia né facile né solida, e come la sintesi sviluppatasi
sull'eredità di pensatori come Hayek, Mises, Kirk e Oakeshott abbia
forse fatto il suo tempo perché non si cimenta con le due questioni:
l'aborto e l'esportazione della democrazia. Temi che si sono imposti sull'agenda
politica e filosofica del secolo appena iniziato, ma la cui soluzione, come
assai sovente capita quando si tratta di discutere di soluzioni, non è
facile né scontata. Il problema, in questo caso, non è costituito
tanto dalle riserve che possono sorgere sull'opportunità o necessità
di lottare per la diffusione di modelli di convivenza civile e di istituzioni
politiche che pongano al loro centro la questione del rispetto dei diritti
umani (perché sarebbe ben curioso credere che per quei diritti, se
sono universali, non si debba combattere), o dalla condanna dell'aborto
(in quanto soppressione di una vita umana). È costituito piuttosto
dal fatto che quel nucleo individuato da Bottum può andar bene in
un paese come l'America nel quale le varie anime del conservatorismo condividono
un alto tasso di liberalismo, mentre non sarebbe sufficiente in altri paesi,
come il nostro, in cui l'avversione all'ideologia liberal, socialdemocratica
e dossettiana si fonda su ragioni di fondo sovente diverse da una condivisione
dei princìpi liberali.
Detto diversamente, da noi, un movimento politico che si presentasse in
una competizione elettorale caratterizzandosi per una rigida posizione anti-abortista
e per una politica estera incentrata sull'esportazione dei diritti umani
(e lasciamo in disparte la questione relativa ai modi con cui esportarli),
sarebbe molto probabilmente perdente. Col che non si intende assolutamente
dire che da noi, per far politica, non bisogna occuparsi di aborto o di
diritti umani, e neanche che quei temi bisogna relegarli alla coscienza
individuale, ma semplicemente che una nuova sintesi che può essere
proposta nel mercato americano delle idee politiche, non sarebbe per noi
una sintesi per il fatto che le questioni aperte tra le varie componenti
dell'aggregazione politica che in Italia si oppone alla sinistra, non coincidono
con quelle aperte tra le varie componenti del conservatorismo americano.
Basti soltanto pensare alle diversità che intercorrono riguardo all'intendere
la funzione e gli spazi del mercato, alle questioni ambientalistiche, alle
questioni riguardanti la ricerca, la scuola, l'università, la sanità,
il sistema pensionistico e di welfare, alla gestione delle novità
che quotidianamente ci vengono dal mondo della scienza e che, si pensi alle
polemiche sulla procreazione assistita, pongono problemi nuovi e sovente
inaspettati i quali, a loro volta, generano, come si è potuto constatare,
risentimenti ed ulteriori divisioni.
Il centrodestra italiano, in cui convivono laici e credenti, interventisti
e liberisti, conservatori, tradizionalisti, liberali di vario tipo e riformisti,
si troverebbe ulteriormente diviso se fosse chiamato a pronunciarsi sul
porre al centro del proprio programma politico e del proprio progetto culturale
due questioni come quelle dell'aborto e dell'esportazione della democrazia.
Si tratta indubbiamente di una previsione facile, e forse anche eccessivamente
fatalistica, che non rigetta affatto, né contesta, l'affermazione
che la posizione pro-life occupa un posto centrale nella teoria politica
e nella filosofia morale contemporanea, ma che semplicemente, e purtroppo,
si rende conto che porla politicamente al centro significherebbe distruggere
un equilibrio fragile e, contemporaneamente, rendere ancor più difficile
una futura ricomposizione.
Da noi, e per quanto possa apparire paradossale (ma il risultato del referendum
sulla procreazione assistita induce a pensarla in questo modo) su un tema
come quello dell'aborto sarebbe forse più facile trovare un accordo
bipartisan, e una maggioranza trasversale, piuttosto che un'unità
all'interno dei raggruppamenti che compongono il nostro attuale schieramento
politico. E tuttavia, quasi certamente, quest'accordo non darebbe vita a
nessun nuovo schieramento politico per il fatto che le divergenze sulle
questioni testé elencate all'interno dello schieramento di centrodestra,
diverrebbero ancor più marcate.
In definitiva, anziché essere il nucleo di un nuovo fusionismo, la
questione dell'aborto, di cui nessuno nega la fondamentale importanza, rischia
di configurarsi come un ulteriore motivo di divisione.
Certamente, e con una certa inquietudine, possiamo chiederci perché,
e rispondere dicendo che si tratta dell'esito di quella separazione tra
morale e politica che per alcuni altro non sarebbe che un'espressione politica
di un relativismo filosofico ed etico che alla fin fine nega la difesa di
un valore universale come quello della vita. Eppure, anche di fronte a questa
replica, si potrebbe ribattere – peccando forse ed ancora una volta di relativismo
– che la politica è quell'attività in cui talora il perseguimento
di un bene, anche se conosciuto come tale, può essere posticipato
per tenere in vita una coalizione dalla cui disgregazione quel fine subirebbe
una posticipazione ancora più remota. O ancora, e molto più
semplicemente, che la politica (che non è certamente un'attività
etica) è, anche nella sua versione più nobile, l'arte del
possibile, e che non vi è male peggiore di quello che consegue da
un caos generato dalla mancanza di sensibilità di quell'opinione
pubblica che nei regimi democratici è irresponsabile e cinica detentrice
della sovranità. E tuttavia, per quante critiche possano essere rivolte
alla politica, nessuno pensa di poter mettere in discussione il sistema
decisionale democratico. Anche perché nessuno ha in mente come sostituirlo.
Tutte questioni che inducono non soltanto a ripensare alla relazione tra
morale, salvaguardia dei diritti umani e politica, ma anche alle effettive
capacità della politica di garantire i diritti nei regimi democratici
e, infine, a chiederci se essere prudenti di fronte al male e all'opinione
pubblica sia soltanto un modo elegante per non definirci pavidi. Quale che
sia la risposta – come ben sa chi ha in qualche misura attinto all'insegnamento
di quei maestri del pensiero liberale e conservatore prima citati – un esercizio
imprudente della politica non è mai foriero di buone conseguenze.
Ciò che tuttavia è cosa diversa dal mostrarsi pavidi nel cogliere
le circostanze quando queste si verificano.
Piaccia o meno, e comunque paradossalmente, si ha la sensazione che sia più facile importare i diritti umani e le forme istituzionali della democrazia americana di quanto lo sia importare il conservatorismo o il neoconservatorismo americano. Il che induce anche a ripensare, e si tratta di un'ulteriore modalità di conservatorismo, alla filosofia politica classica quando insegnava (come ci ricorda anche un conservatore come Leo Strauss) che non esiste un miglior regime in assoluto ma che in ogni epoca e in ogni luogo gli uomini sono chiamati a chiedersi quel che possa essere, lì ed allora, il miglior regime politico, sapendo che la sua realizzazione è desiderabile quanto improbabile per il fatto che gli uomini sono naturalmente diversi e che tale diversità implica l'esercizio della prudenza nel difficile tentativo di accelerare il processo verso quel regime che si ritiene migliore. Il tentativo di far coincidere ordine, diritto e libertà, che può essere visto come il progetto filosofico-politico del conservatorismo vecchio e nuovo, impone quindi prudenza nella sua realizzazione, considerazione dei tempi e delle circostanze (anche di quelle maggiormente infelici), perseveranza e consapevolezza del fatto che un modello può essere più facilmente imitato che importato.
Raimondo
Cubeddu, docente di Filosofia politica all'Università di Pisa e all'IMT
Alti Studi di Lucca.
(c)
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