Il Continente dimezzato
di Adriana Cerretelli
Ideazione di novembre-dicembre 2005

L'Europa è in crisi. Di questi tempi però quello che più colpisce è la sua totale assenza nei dibattiti nazionali ed europei. Ci sono state le elezioni tedesche: di tutto si è parlato e si è litigato nel corso del duello Merkel-Schröder, anche di Stati Uniti e di Turchia. Silenzio invece sul futuro dell'Europa. Idem in Polonia. In Italia e Francia il copione si annuncia più o meno identico: nelle campagne elettorali, di fatto già partite in entrambi i paesi, ci si scontrerà naturalmente su tutto, Europa e euro compresi, ma per scambiarsi accuse reciproche non per progettare e mettere a confronto nuove idee di Europa, una visione più moderna e coerente del nostro domani nel mondo globale. Perché, retorica a parte, l'Europa è scomparsa dall'agenda dei lavori ma soprattutto dall'orizzonte delle ambizioni collettive?

Per certi aspetti l'Europa può apparire come la vittima illustre dei propri successi. Per vent'anni, gli ultimi, non ha fatto che crescere a rotta di collo. Cominciò nel 1985 con la riforma dell'Atto Unico per realizzare il grande mercato senza frontiere: un'impresa tuttora incompiuta, è vero, ma una grandiosa spallata agli steccati nazionali, una salutare iniezione di liberalizzazioni e concorrenza nelle strutture sclerotiche di economie diventate comunque troppo piccole per potersi illudere di riuscire da sole, senza un'adeguata massa critica alle spalle, a tener testa ai grandi competitori dell'era globale. Continuò con un'altra avventura, ancora più rivoluzionaria: il Trattato di Maastricht del 1991 e il rilancio del vecchio sogno della moneta unica. Una scommessa per molti aspetti incredibile, non a caso circondata fin dal principio dallo scetticismo generale. La rinuncia alla sovranità nazionale sulla moneta e sulla valvola di sfogo della svalutazione, sulla politica dei tassi e dell'inflazione: questa l'enorme posta in gioco. Eppure un'altra sfida riuscita brillantemente. Alla fine, nel 2001 l'euro è nato grande e non piccolo, come procrastinato e auspicato dalla maggior parte degli osservatori. È nato dalla fusione di ben 11 monete europee, poi diventate 12 con l'ingresso tardivo della Grecia. È nato con la partecipazione immediata anche dei cosiddetti paesi del Club Med, quelli come Italia, Spagna, Portogallo, temuti dai virtuosi del Nord come autentici pericoli pubblici per la loro precedente e radicata propensione alla finanza allegra. Proseguì con la febbre dell'allargamento. Prima l'ingresso nell'86 dei due paesi iberici. Poi nel '95 l'arrivo di tre nuovi paesi del Nord, Svezia, Austria e Finlandia. Poi l'abbraccio all'Est. La caduta del Muro di Berlino nel novembre dell'89, la riunificazione della Germania con conseguente annessione all'Unione dei 5 Länder dell'Est, avevano cominciato a destabilizzare disegno ed equilibri in seno alla vecchia Comunità immaginata dai Padri Fondatori nell'immediato dopoguerra. Ciò nonostante la voglia di crescere o forse anche solo l'inerzia del movimento innestato hanno aperto le porte dell'Unione ad altri 10 paesi in una sola volta, in breve alla riunificazione europea celebrata il primo maggio 2004.

Teoricamente una nuova riforma istituzionale – quella chiamata con nome roboante ma immeritato Costituzione europea – avrebbe dovuto garantire la governance della grande Unione, delle sue eterogeneità ormai moltiplicate all'inverosimile, tra abissali squilibri di sviluppo economico, distanze socio-politiche e storico-culturali tutte da colmare. Avrebbe dovuto entrare in vigore nel novembre 2006 la cosiddetta Costituzione europea. Invece, tra la fine di maggio e primi del giugno scorsi, francesi e olandesi, chiamati ad approvarla tramite referendum popolare, hanno pensato bene di affossarla. Che possa resuscitare sembra alquanto dubbio. La sua entrata in vigore richiede infatti l'unanimità delle ratifiche. La sua eventuale modifica sembra inagibile non solo perché un nuovo negoziato aprirebbe un vaso di Pandora di rivendicazioni incrociate difficilmente gestibile, ma anche e soprattutto perché il doppio gran rifiuto è scaturito più da un confuso disagio esistenziale privo di contestazioni su punti precisi o politiche specifiche previste dal nuovo Trattato. Tra l'altro il rinegoziato non avverrebbe più in un'Unione a 25 ma almeno a 27 paesi.

Crisi o no, la fame di allargamento infatti non si è fermata: nel 2007 arriveranno in famiglia anche Romania e Bulgaria. Poi sarà il turno della Croazia con la quale si sono appena aperti i negoziati di adesione, nonostante la cattura del generale Godovina, chiamato a rispondere di crimini di guerra davanti al Tribunale penale dell'Aja, continui a mancare all'appello. E poi tra 10-15 anni, o almeno così si dice, arriverà anche la Turchia, con la quale dopo una lunghissima anticamera, sono cominciate il 3 ottobre a Lussemburgo trattative open-ended, cioè dall'esito non automaticamente garantito. Ma alle porte dell'Unione bussano altre repubbliche balcaniche e l'Ucraina. E altri paesi, europei e non, probabilmente in futuro si aggiungeranno alla fila dei questuanti.L'elenco di tutti questi successi europei è lungo e indiscutibile. Però racconta soltanto una parte della storia, quella di facciata che è facile esaltare. Come lasciarsene esaltare. Ignora quella sommersa, meno confortante ma non per questo meno vera. Che è quella che poi spiega come mai, giunta all'apice di una success-story senza apparente soluzione di continuità, l'Europa sia andata in tilt con il rischio, prima o poi, di implodere su se stessa.

Se si guarda all'indietro si vede che tutte le grandi scelte europee sono state regolarmente fatte a metà. Il mercato unico è nato amputato (e tale resta ancora oggi) della dimensione finanziaria, per citare solo il caso più eclatante. Anche la moneta unica è venuta alla luce con un doppio handicap: l'assenza della sterlina inglese, che ha preferito restare alla finestra. E poi quella di una politica macro-economica e di bilancio unica, a fare da logico e coerente contraltare alla creazione invece di una politica monetaria unica con tanto di Banca centrale europea creata apposta per assicurarne la gestione del tutto indipendente. La verità è che i governi e i rispettivi sistemi economici-finanziari di fronte alla prospettiva dell'autospoliazione completa dei rispettivi poteri, margini di manovra, mercati e rendite di posizione, hanno preferito non esagerare nelle cessioni all'Europa. Hanno compiuto alcuni passi avanti ma non tutti quelli che sarebbero stati necessari per compiere un autentico salto di qualità che rendesse irreversibili le conquiste e al tempo stesso trasformasse l'Unione in un autentico protagonista della scena globale, con tutte le carte in regola e il retroterra all'altezza della sfida. Il traguardo invece per ora continua a restare una pia aspirazione.

Il timido coraggio che ha accompagnato il parto di mercato e moneta unica non è estraneo ai molti guai in cui oggi si dibattono l'Unione e i suoi paesi membri. La sferzata di dinamismo economico, la spinta alla ristrutturazione del sistema produttivo e alla modernizzazione del modello europeo si sono realizzate solo a metà e solo nei paesi che hanno liberamente deciso di farle (raccogliendo ottimi dividendi in termini di crescita economica e riassorbimento della disoccupazione). Non è stato il movimento corale che avrebbe potuto essere, quindi non è stata sfruttata la sterminata e preziosa massa critica europea nel braccio di ferro con una concorrenza sempre più agguerrita. Risultato: torpore continuato della crescita nelle maggiori economie. L'impatto con la globalizzazione, l'irruzione sulla scena di giganti come Cina e India ma anche degli altri paesi asiatici, hanno fatto il resto. E così, dopo la febbre dell'integrazione, è scoppiata in Europa quella dei nazionalismi striscianti, dei protezionismi inconfessati ma reali, mentre le riforme strutturali, indispensabili per far ripartire il motore economico nelle tre grandi economie – in Germania, Francia e Italia – sono partite in ritardo e troppo a rilento, oltre che regolarmente a metà. Come se questo non bastasse, la crisi socio-economica è andata a scontrarsi con la bulimia da allargamento. Che è stato ancora una volta una scelta a metà. Avrebbe dovuto avvenire contestualmente al rafforzamento delle strutture istituzionali dell'Unione: allargamento insieme all'approfondimento istituzionale, per dirlo con il vecchio slogan. Invece il primo ha tirato dritto, il secondo è restato ai nastri di partenza. Il no al Trattato costituzionale, nonostante la modestia dei suoi contenuti, ha ulteriormente aggravato la divaricazione.

Nella grande Unione sono entrate molte promesse per domani ma per oggi un esercito di nuovi poveri con la grinta del revanscismo, della concorrenza vincente per affrancarsi al più presto dal loro relativo sottosviluppo. Tra la vecchia Europa in pieno rallentamento economico, resa isterica e insicura dalla prospettiva di perdere buona parte delle garanzie del suo ricco Stato sociale e quella nuova ansiosa di strappare aiuti e rivincite, il clash psicologico è così stato inevitabile. Il rifiuto della Costituzione europea in Francia è stato anche un no alla concorrenza del famoso (ma inesistente in Francia) “idraulico polacco”. Ma è stato soprattutto la manifestazione conclamata di un malessere verso l'Europa che è andato maturando negli anni dei suoi successi. Da una parte l'Unione è diventata infatti una realtà sempre più invasiva, una sorta di onnipresente “grande fratello”, dall'altra è rimasta un'entità lontana e incomprensibile. Troppo spesso ostile con i suoi appelli a riforme e liberalizzazioni, a concorrenza e apertura dei mercati. Senza contare che i governi, che pure fanno e disfano le decisioni dell'Unione, non cessano di farne il comodo caprio espiatorio dei loro provvedimenti più indigesti. Ignorando il campanello d'allarme suonato dalle pubbliche opinioni europee, come da tempo segnalano tutti i sondaggi, non contenti di aver visto deragliare il Trattato costituzionale, nonostante il disagio socio-economico che continua ad assediarli, i 25 governi dell'Unione non hanno trovato di meglio che aprire anche i negoziati di adesione con la Turchia, circondandoli però di paletti, condizioni e distinguo senza precedenti.Certo, c'erano degli impegni da mantenere. Ma la lezione degli errori fin qui collezionati evidentemente non ha insegnato granché. L'adesione di Ankara, se e quando ci sarà, non sarà una scelta come tutte le altre. Porrà la questione delle frontiere e dell'identità europea, due tabù che ci si ostina a non voler affrontare. Porrà quella della convivenza tra società, culture e religioni sempre più eterogenee e lontane, porrà in modo ancora più urgente il problema della convivenza dentro le mura di casa con il mondo islamico che flirta con il terrorismo. Porrà il problema della governance europea, di istituzioni inadeguate ad accogliere un grande paese, un ex impero, un'altra Germania con un fortissimo senso dell'identità.

Ma perché l'Europa continua testardamente a fare grandi scelte dimezzate? Il motivo è molto semplice ma decisamente preoccupante per la sua evoluzione futura: finora non l'Unione dei 25 ma quella più piccola dei 15 pre-allargamento a Est non ha risolto il conflitto che si porta dietro da decenni: quello tra una visione integrazionista secondo il modello dei Padri Fondatori, sia pure da rivedere e correggere, e un'ambizione poco più che libero-scambista secondo la dottrina nordico-anglosassone. Per ora il duello tra le due dottrine, complice la rapidità dell'allargamento, vede in netto vantaggio la seconda scuola di pensiero. Anche perché dalla prima sono spariti i sostenitori del disegno federale. Ormai nei fatti si punta a un'Unione che sia essenzialmente un concerto di nazioni, più o meno cementato al proprio interno da politiche comuni. Da tempo si sta annacquando il principio dell'eguaglianza tra gli Stati-membri, quello di coesione e solidarietà, quello dell'unità nella diversità. Non le parole ma i fatti dicono che nel nuovo contesto tende sempre più a prevalere la legge del più forte, dentro o fuori dalle regole dei Trattati, tra paesi membri sempre più in concorrenza tra loro in un'Unione che appare sempre meno una famiglia e sempre più un mercato, anche delle politiche. Se questo è il quadro di fondo, non è facile intravedere una via d'uscita dalla crisi attuale. Di sicuro il modello dei Padri Fondatori ha fatto il suo tempo. Di sicuro il bisogno di Europa oggi è più impellente che mai con la globalizzazione che non dà tregua. Però, per riprendere la sua lunga marcia, l'Europa ha bisogno di una nuova legittimazione: la pacificazione del dopoguerra si è ormai consumata con successo, ai giovani non dice più niente. Del resto l'elezione di un Papa tedesco è la prova più evidente che la Germania ormai è a tutti gli effetti un paese normale, come gli altri. Quasi certamente ha bisogno di una nuova identità, che potrebbe diventare euro-asiatica se la Turchia entrerà nel club. Ha bisogno di una nuova governance se vuole contare qualcosa e non lasciarsi andare alla pura dimensione mercantilistica. Un direttorio, un nucleo duro, l'integrazione a cerchi concentrici? Silenzio. Silenzio programmato per almeno altri due anni, in attesa che passino le bufere elettorali. Ma l'Europa non può attendere: più il tempo passa e più rischia di sfilacciarsi, perdere pezzi e ambizioni comuni. Di indebolirsi paurosamente. Eppure oggi sul suo futuro regna sovrano solo il disinteresse collettivo.



Adriana Cerretelli, giornalista, corrispondente da Bruxelles de Il Sole 24 Ore.

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