L'Europa è in crisi. Di questi tempi però quello che più
colpisce è la sua totale assenza nei dibattiti nazionali ed europei.
Ci sono state le elezioni tedesche: di tutto si è parlato e si è
litigato nel corso del duello Merkel-Schröder, anche di Stati Uniti
e di Turchia. Silenzio invece sul futuro dell'Europa. Idem in Polonia. In
Italia e Francia il copione si annuncia più o meno identico: nelle
campagne elettorali, di fatto già partite in entrambi i paesi, ci
si scontrerà naturalmente su tutto, Europa e euro compresi, ma per
scambiarsi accuse reciproche non per progettare e mettere a confronto nuove
idee di Europa, una visione più moderna e coerente del nostro domani
nel mondo globale. Perché, retorica a parte, l'Europa è scomparsa
dall'agenda dei lavori ma soprattutto dall'orizzonte delle ambizioni collettive?
Per certi aspetti l'Europa può apparire come la vittima illustre
dei propri successi. Per vent'anni, gli ultimi, non ha fatto che crescere
a rotta di collo. Cominciò nel 1985 con la riforma dell'Atto Unico
per realizzare il grande mercato senza frontiere: un'impresa tuttora incompiuta,
è vero, ma una grandiosa spallata agli steccati nazionali, una salutare
iniezione di liberalizzazioni e concorrenza nelle strutture sclerotiche
di economie diventate comunque troppo piccole per potersi illudere di riuscire
da sole, senza un'adeguata massa critica alle spalle, a tener testa ai grandi
competitori dell'era globale. Continuò con un'altra avventura, ancora
più rivoluzionaria: il Trattato di Maastricht del 1991 e il rilancio
del vecchio sogno della moneta unica. Una scommessa per molti aspetti incredibile,
non a caso circondata fin dal principio dallo scetticismo generale. La rinuncia
alla sovranità nazionale sulla moneta e sulla valvola di sfogo della
svalutazione, sulla politica dei tassi e dell'inflazione: questa l'enorme
posta in gioco. Eppure un'altra sfida riuscita brillantemente. Alla fine,
nel 2001 l'euro è nato grande e non piccolo, come procrastinato e
auspicato dalla maggior parte degli osservatori. È nato dalla fusione
di ben 11 monete europee, poi diventate 12 con l'ingresso tardivo della
Grecia. È nato con la partecipazione immediata anche dei cosiddetti
paesi del Club Med, quelli come Italia, Spagna, Portogallo, temuti dai virtuosi
del Nord come autentici pericoli pubblici per la loro precedente e radicata
propensione alla finanza allegra. Proseguì con la febbre dell'allargamento.
Prima l'ingresso nell'86 dei due paesi iberici. Poi nel '95 l'arrivo di
tre nuovi paesi del Nord, Svezia, Austria e Finlandia. Poi l'abbraccio all'Est.
La caduta del Muro di Berlino nel novembre dell'89, la riunificazione della
Germania con conseguente annessione all'Unione dei 5 Länder dell'Est,
avevano cominciato a destabilizzare disegno ed equilibri in seno alla vecchia
Comunità immaginata dai Padri Fondatori nell'immediato dopoguerra.
Ciò nonostante la voglia di crescere o forse anche solo l'inerzia
del movimento innestato hanno aperto le porte dell'Unione ad altri 10 paesi
in una sola volta, in breve alla riunificazione europea celebrata il primo
maggio 2004.
Teoricamente una nuova riforma istituzionale – quella chiamata con nome
roboante ma immeritato Costituzione europea – avrebbe dovuto garantire la
governance della grande Unione, delle sue eterogeneità ormai moltiplicate
all'inverosimile, tra abissali squilibri di sviluppo economico, distanze
socio-politiche e storico-culturali tutte da colmare. Avrebbe dovuto entrare
in vigore nel novembre 2006 la cosiddetta Costituzione europea. Invece,
tra la fine di maggio e primi del giugno scorsi, francesi e olandesi, chiamati
ad approvarla tramite referendum popolare, hanno pensato bene di affossarla.
Che possa resuscitare sembra alquanto dubbio. La sua entrata in vigore richiede
infatti l'unanimità delle ratifiche. La sua eventuale modifica sembra
inagibile non solo perché un nuovo negoziato aprirebbe un vaso di
Pandora di rivendicazioni incrociate difficilmente gestibile, ma anche e
soprattutto perché il doppio gran rifiuto è scaturito più
da un confuso disagio esistenziale privo di contestazioni su punti precisi
o politiche specifiche previste dal nuovo Trattato. Tra l'altro il rinegoziato
non avverrebbe più in un'Unione a 25 ma almeno a 27 paesi.
Crisi o no, la fame di allargamento infatti non si è fermata: nel
2007 arriveranno in famiglia anche Romania e Bulgaria. Poi sarà il
turno della Croazia con la quale si sono appena aperti i negoziati di adesione,
nonostante la cattura del generale Godovina, chiamato a rispondere di crimini
di guerra davanti al Tribunale penale dell'Aja, continui a mancare all'appello.
E poi tra 10-15 anni, o almeno così si dice, arriverà anche
la Turchia, con la quale dopo una lunghissima anticamera, sono cominciate
il 3 ottobre a Lussemburgo trattative open-ended, cioè dall'esito
non automaticamente garantito. Ma alle porte dell'Unione bussano altre repubbliche
balcaniche e l'Ucraina. E altri paesi, europei e non, probabilmente in futuro
si aggiungeranno alla fila dei questuanti.L'elenco di tutti questi successi
europei è lungo e indiscutibile. Però racconta soltanto una
parte della storia, quella di facciata che è facile esaltare. Come
lasciarsene esaltare. Ignora quella sommersa, meno confortante ma non per
questo meno vera. Che è quella che poi spiega come mai, giunta all'apice
di una success-story senza apparente soluzione di continuità, l'Europa
sia andata in tilt con il rischio, prima o poi, di implodere su se stessa.
Se si guarda all'indietro si vede che tutte le grandi scelte europee sono
state regolarmente fatte a metà. Il mercato unico è nato amputato
(e tale resta ancora oggi) della dimensione finanziaria, per citare solo
il caso più eclatante. Anche la moneta unica è venuta alla
luce con un doppio handicap: l'assenza della sterlina inglese, che ha preferito
restare alla finestra. E poi quella di una politica macro-economica e di
bilancio unica, a fare da logico e coerente contraltare alla creazione invece
di una politica monetaria unica con tanto di Banca centrale europea creata
apposta per assicurarne la gestione del tutto indipendente. La verità
è che i governi e i rispettivi sistemi economici-finanziari di fronte
alla prospettiva dell'autospoliazione completa dei rispettivi poteri, margini
di manovra, mercati e rendite di posizione, hanno preferito non esagerare
nelle cessioni all'Europa. Hanno compiuto alcuni passi avanti ma non tutti
quelli che sarebbero stati necessari per compiere un autentico salto di
qualità che rendesse irreversibili le conquiste e al tempo stesso
trasformasse l'Unione in un autentico protagonista della scena globale,
con tutte le carte in regola e il retroterra all'altezza della sfida. Il
traguardo invece per ora continua a restare una pia aspirazione.
Il timido coraggio che ha accompagnato il parto di mercato e moneta unica
non è estraneo ai molti guai in cui oggi si dibattono l'Unione e
i suoi paesi membri. La sferzata di dinamismo economico, la spinta alla
ristrutturazione del sistema produttivo e alla modernizzazione del modello
europeo si sono realizzate solo a metà e solo nei paesi che hanno
liberamente deciso di farle (raccogliendo ottimi dividendi in termini di
crescita economica e riassorbimento della disoccupazione). Non è
stato il movimento corale che avrebbe potuto essere, quindi non è
stata sfruttata la sterminata e preziosa massa critica europea nel braccio
di ferro con una concorrenza sempre più agguerrita. Risultato: torpore
continuato della crescita nelle maggiori economie. L'impatto con la globalizzazione,
l'irruzione sulla scena di giganti come Cina e India ma anche degli altri
paesi asiatici, hanno fatto il resto. E così, dopo la febbre dell'integrazione,
è scoppiata in Europa quella dei nazionalismi striscianti, dei protezionismi
inconfessati ma reali, mentre le riforme strutturali, indispensabili per
far ripartire il motore economico nelle tre grandi economie – in Germania,
Francia e Italia – sono partite in ritardo e troppo a rilento, oltre che
regolarmente a metà. Come se questo non bastasse, la crisi socio-economica
è andata a scontrarsi con la bulimia da allargamento. Che è
stato ancora una volta una scelta a metà. Avrebbe dovuto avvenire
contestualmente al rafforzamento delle strutture istituzionali dell'Unione:
allargamento insieme all'approfondimento istituzionale, per dirlo con il
vecchio slogan. Invece il primo ha tirato dritto, il secondo è restato
ai nastri di partenza. Il no al Trattato costituzionale, nonostante la modestia
dei suoi contenuti, ha ulteriormente aggravato la divaricazione.
Nella grande Unione sono entrate molte promesse per domani ma per oggi un
esercito di nuovi poveri con la grinta del revanscismo, della concorrenza
vincente per affrancarsi al più presto dal loro relativo sottosviluppo.
Tra la vecchia Europa in pieno rallentamento economico, resa isterica e
insicura dalla prospettiva di perdere buona parte delle garanzie del suo
ricco Stato sociale e quella nuova ansiosa di strappare aiuti e rivincite,
il clash psicologico è così stato inevitabile. Il rifiuto
della Costituzione europea in Francia è stato anche un no alla concorrenza
del famoso (ma inesistente in Francia) “idraulico polacco”. Ma è
stato soprattutto la manifestazione conclamata di un malessere verso l'Europa
che è andato maturando negli anni dei suoi successi. Da una parte
l'Unione è diventata infatti una realtà sempre più
invasiva, una sorta di onnipresente “grande fratello”, dall'altra è
rimasta un'entità lontana e incomprensibile. Troppo spesso ostile
con i suoi appelli a riforme e liberalizzazioni, a concorrenza e apertura
dei mercati. Senza contare che i governi, che pure fanno e disfano le decisioni
dell'Unione, non cessano di farne il comodo caprio espiatorio dei loro provvedimenti
più indigesti. Ignorando il campanello d'allarme suonato dalle pubbliche
opinioni europee, come da tempo segnalano tutti i sondaggi, non contenti
di aver visto deragliare il Trattato costituzionale, nonostante il disagio
socio-economico che continua ad assediarli, i 25 governi dell'Unione non
hanno trovato di meglio che aprire anche i negoziati di adesione con la
Turchia, circondandoli però di paletti, condizioni e distinguo senza
precedenti.Certo, c'erano degli impegni da mantenere. Ma la lezione degli
errori fin qui collezionati evidentemente non ha insegnato granché.
L'adesione di Ankara, se e quando ci sarà, non sarà una scelta
come tutte le altre. Porrà la questione delle frontiere e dell'identità
europea, due tabù che ci si ostina a non voler affrontare. Porrà
quella della convivenza tra società, culture e religioni sempre più
eterogenee e lontane, porrà in modo ancora più urgente il
problema della convivenza dentro le mura di casa con il mondo islamico che
flirta con il terrorismo. Porrà il problema della governance europea,
di istituzioni inadeguate ad accogliere un grande paese, un ex impero, un'altra
Germania con un fortissimo senso dell'identità.
Ma perché l'Europa continua testardamente a fare grandi scelte dimezzate?
Il motivo è molto semplice ma decisamente preoccupante per la sua
evoluzione futura: finora non l'Unione dei 25 ma quella più piccola
dei 15 pre-allargamento a Est non ha risolto il conflitto che si porta dietro
da decenni: quello tra una visione integrazionista secondo il modello dei
Padri Fondatori, sia pure da rivedere e correggere, e un'ambizione poco
più che libero-scambista secondo la dottrina nordico-anglosassone.
Per ora il duello tra le due dottrine, complice la rapidità dell'allargamento,
vede in netto vantaggio la seconda scuola di pensiero. Anche perché
dalla prima sono spariti i sostenitori del disegno federale. Ormai nei fatti
si punta a un'Unione che sia essenzialmente un concerto di nazioni, più
o meno cementato al proprio interno da politiche comuni. Da tempo si sta
annacquando il principio dell'eguaglianza tra gli Stati-membri, quello di
coesione e solidarietà, quello dell'unità nella diversità.
Non le parole ma i fatti dicono che nel nuovo contesto tende sempre più
a prevalere la legge del più forte, dentro o fuori dalle regole dei
Trattati, tra paesi membri sempre più in concorrenza tra loro in
un'Unione che appare sempre meno una famiglia e sempre più un mercato,
anche delle politiche. Se questo è il quadro di fondo, non è
facile intravedere una via d'uscita dalla crisi attuale. Di sicuro il modello
dei Padri Fondatori ha fatto il suo tempo. Di sicuro il bisogno di Europa
oggi è più impellente che mai con la globalizzazione che non
dà tregua. Però, per riprendere la sua lunga marcia, l'Europa
ha bisogno di una nuova legittimazione: la pacificazione del dopoguerra
si è ormai consumata con successo, ai giovani non dice più
niente. Del resto l'elezione di un Papa tedesco è la prova più
evidente che la Germania ormai è a tutti gli effetti un paese normale,
come gli altri. Quasi certamente ha bisogno di una nuova identità,
che potrebbe diventare euro-asiatica se la Turchia entrerà nel club.
Ha bisogno di una nuova governance se vuole contare qualcosa e non lasciarsi
andare alla pura dimensione mercantilistica. Un direttorio, un nucleo duro,
l'integrazione a cerchi concentrici? Silenzio. Silenzio programmato per
almeno altri due anni, in attesa che passino le bufere elettorali. Ma l'Europa
non può attendere: più il tempo passa e più rischia
di sfilacciarsi, perdere pezzi e ambizioni comuni. Di indebolirsi paurosamente.
Eppure oggi sul suo futuro regna sovrano solo il disinteresse collettivo.
Adriana Cerretelli, giornalista, corrispondente da
Bruxelles de Il Sole 24 Ore.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006