Il neofusionismo americano
di Joseph Bottum
Ideazione di novembre-dicembre 2005

Social conservatives, liberisti, libertarians, fautori della redistribuzione delle terre, comunitaristi, falchi della politica estera – chi ci capisce niente? Neocon, theocon e paleocon, per non parlare delle soccer-moms repubblicane [gruppo demografico, nato democratico ma ora repubblicano, che definisce donne bianche, di classe medio-alta, di istruzione superiore e che abita nei sobborghi n.d.t.], dei repubblicani da circolo sportivo o, più semplicemente, di tutte le specie di repubblicani: chi legge molto di politica, deve avere l'impressione che in America siano più numerose le categorie dei conservatori che i conservatori stessi.
E che dire delle questioni che stanno a cuore a tutta questa varietà di conservatori? Aborto, tagli fiscali, buono-scuola, strapotere della magistratura, il budget gonfiato del governo, bioetica, matrimonio omosessuale, la creazione di democrazie in Medio Oriente, federalismo, immigrazione, il ripristino della religione nel dibattito pubblico, e così via. Si assomigliano ormai vagamente, come dei parenti lontani: cugini di secondo o terzo grado nel migliore dei casi. Ai tempi della Guerra Fredda, si poteva almeno contare sul fatto che i conservatori condividessero l'opposizione al comunismo, e vari intellettuali – da Friedrich Hayek e Ludwig von Mises a Russel Kirk e Michael Oakeshott – cercarono una sorta di teoria riunificatrice nelle ricche pagine economiche di Adam Smith e nella prosa profonda del tradizionalismo di Edmund Burke.
Cosa resta oggi? È quasi impossibile trovare una questione che interessi tutti quelli etichettati come conservatori, e le possibilità di identificare un modello significativo nella confusione politica della destra rimangono tristemente remote. È vero che quasi tutti i conservatori hanno finito per votare per George Bush alle presidenziali del 2004. Persino i paleoconservatori contrari all'intervento in Iraq alla fine hanno ammesso, almeno per la maggior parte, che l'alternativa di un'amministrazione apertamente di sinistra guidata da John Kerry era intollerabile. Ma solo nell'immaginazione febbrile dell'estrema sinistra – o nei discorsi degli attivisti democratici che cercavano di sferrare colpi propagandistici – tutto questo sta insieme. Il conservatorismo in America non è né un partito politico ben definito né una teoria politica ben sviluppata. È uno schianto che aspetta di verificarsi.

Conservatori pro-life e neocon
Eccetto forse per questo fatto strano: sembra che quelli che credono che la crudeltà dell'aborto sia la questione morale principale dei nostri tempi e quelli che considerano che la sconfitta globale dell'islamismo anti-occidentale sia la più urgente questione politica odierna – in altre parole i social conservatives pro-life e i neoconservatori in politica estera – votino sempre più allo stesso modo, si incontrino e pensino le stesse cose. Chi vuole sostenere la causa anti-abortista, si troverà presto seduto accanto a chi sostiene una politica estera americana attiva, interventista e etica. E, al contrario, se prendete seriamente la guerra al terrorismo, vi troverete presto mescolati a chi combatte l'aborto.
Dire che la scena politica americana non avrebbe dovuto svilupparsi in questo modo, è più che sottovalutare la cosa. A qualsiasi livello della normale analisi politica, il collegamento fra aborto e terrorismo appare debole nel migliore dei casi – addirittura una perversione che minaccia le cause di entrambe le parti. Come possono i sostenitori dell'aborto permettere che una battuta d'arresto in Medio Oriente pregiudichi le possibilità di eleggere candidati pro-life? Perché gli attivisti della politica estera dovrebbero rischiare di perdere sostegno politico per un rovescio dei loro alleati social-conservatives?
In realtà, appare molto facile separare questi movimenti. Nessuno, per esempio, potrebbe accusare la Chiesa Cattolica di non essere dura sulla protezione della vita, il Vaticano si è opposto fermamente all'intervento degli Stati Uniti in Iraq, al punto di ospitare una visita di Stato a Roma e Assisi del vice di Saddam Hussein, Tariq Aziz, nel febbraio del 2003. Gran parte della curia romana sembra essere sprofondata in un pacifismo funzionale che minaccia una dannosa perdita della teoria tradizionale cattolica della guerra giusta. Ma, anche mettendo da parte queste confusioni, è oggettivamente vero che qualsiasi guerra, giusta o no, causa dei morti. Sebbene la dottrina della sacralità della vita si sia logorata nel corso degli anni, esiste sicuramente una coerenza nell'opporsi sia alla cultura della morte che all'intervento americano in Iraq.

Il rifiuto dell'aborto coniugato al rifiuto dell'attuale politica estera americana caratterizza molte persone definite “paleoconservatrici”, da Patrick Buchanan in giù. L'editorialista di destra Robert Novak acclamava gli sforzi per salvare Terri Schiavo dalla morte per disidratazione, anche mentre tuonava contro il costo dell'invasione in Iraq. Un collegamento simile si trova anche fra alcuni liberals: i commentatori politici E.J. Dionne e Mark Shields, per esempio, o Bart Stupak del Michigan e la manciata di altri senatori democratici contrari alla guerra che hanno rifiutato la sentenza Roe v. Wade.
Ma esiste anche chi inverte queste posizioni: applaudendo la sconfitta di Saddam Hussein e dichiarandosi a favore dell'aborto legalizzato. I senatori democratici a favore della guerra appartengono per lo più a questo gruppo, da Hillary Clinton a Joseph Lieberman, qualsiasi cosa abbiano detto sull'aborto subito dopo la sconfitta del loro partito alle elezioni del 2004. Alcuni repubblicani risoluti come Rudy Giuliani, George Pataki e Arnold Schwarzenegger hanno opinioni simili. L'editorialista del New York Times David Brooks fa parte della fazione degli interventisti, ma si dichiara un timido sostenitore dell'aborto legalizzato (sebbene in un recente editoriale ha criticato aspramente la Roe v. Wade). L'attore Ron Silver, che l'estate scorsa è intervenuto alla convention nazionale repubblicana, e Roger L. Simon, un popolare scrittore di gialli che è diventato un famoso blogger, sono un esempio di liberal che, pur essendosi riorientati in politica estera dopo gli attentati dell'11 settembre, rimangono comunque solidamente abortisti. E poi ci sono i libertarians interventisti, a cominciare dal blogger di Instapundit Glenn Reynolds, che hanno scarsissimo interesse nelle questioni riguardanti la vita e comunque sono per lo più contrari al fronte pro-life.

Ovviamente, per puri fini politici, il movimento anti-abortista e gli interventisti in politica estera hanno fatto bene a unire le forze, visto il desiderio comune di far rieleggere il presidente Bush e accrescere la forza dei repubblicani in Congresso. I sondaggi della primavera scorsa hanno registrato una certa debolezza nel gradimento popolare per l'amministrazione Bush ma, come ha risposto l'analista politico Michael Barone, «in politica i numeri che contano di più sono i risultati elettorali». I repubblicani anti-abortisti e favorevoli alla guerra in Iraq hanno vinto facilmente nel 2004 e, allo stesso tempo, hanno preparato il terreno per future vittorie, con undici senatori democratici che dovranno affrontare la rielezione in Stati dove Bush ha vinto a mani basse, e solo tre repubblicani in Stati solidamente pro-Kerry. Come hanno osservato praticamente tutti i commentatori, l'aborto e la guerra al terrorismo sono oggi legati ad uno dei livelli più pratici del calcolo politico. Solitamente questo viene utilizzato come un capo d'accusa contro la coalizione conservatrice: durante le elezioni presidenziali gli astuti interventisti hanno usato gli elettori religiosi – «poveri, ignoranti e facili da fuorviare», secondo la famosa formulazione del Washington Post – per portare avanti le loro mire imperialiste. O forse sono stati i leader religiosi ipocriti e cinici che hanno appoggiato la guerra in Iraq in cambio della conferma di giudici anti-Roe. Malgrado tutto, unire gli sforzi è stato un semplice accordo politico.
Perché questo dovrebbe essere un'accusa, rimane un mistero. Questi due tipi di conservatori erano rappresentati fra le prime nomine dell'amministrazione Bush, ben prima degli attentati dell'11 settembre – e sono rappresentati ancora oggi che la nazione risponde a quegli attentati e la morte di Terri Schiavo, insieme alla possibilità di nominare nuovi membri anti-Roe nella Corte Suprema, rianima il movimento pro-life.

Alleanze improbabili e polarizzazione del sistema politico
Le campagne elettorali americane, che obbligano in fondo a scegliere fra repubblicani e democratici, creano sempre alleanze improbabili. Prendetevela con i democratici, se questo vi fa arrabbiare. Nessun partito rispecchia mai completamente tutti i suoi elettori e in tutte le elezioni le questioni si mescolano un po'.
In ogni evento, si può sostenere che sono stati proprio i democratici a compattare la coalizione repubblicana formata da elettori contrari all'aborto e elettori preoccupati dal terrorismo internazionale. Molto prima delle elezioni – fra i manifestanti contro la guerra delle marce dell'Answer [Act Now to Stop War and End Racism, organizzazione di protesta fondata all'indomani dell'11 settembre dall'ex procuratore Ramsey Clarck n.d.t.] o fra i poeti che respinsero pubblicamente l'invito di Bush a un tè letterario alla Casa Bianca all'inizio del 2003 – si vedeva già crescere l'impulso di tradurre le invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq da questioni di politica estera in guerre culturali.

All'inizio della stagione elettorale del 2004, la traduzione era ormai completa. I gruppi di estrema sinistra come MoveOn.org riuscirono ad approfittare del sistema delle primarie democratiche, che sovradimensiona la forza degli elementi radicali del partito, per lanciare le candidature di Howard Dean e Wesley Clark, mettendo enorme pressione su altri promettenti democratici. Pur non avendo nessuna possibilità di ottenere la candidatura del partito, Dennis Kucinich ha ceduto rinunciando alla sua solida posizione anti-abortista, mentre il più quotato Richard Gephardt si è unito minimizzando il suo tiepido sostegno all'intervento in Iraq. E John Kerry ha cercato... è difficile dire esattamente cosa ha cercato di fare John Kerry. Qualsiasi cosa fosse, lo ha lasciato in una posizione inopportuna quando sono arrivate le elezioni.
Perché dovremmo sorprenderci se tutta quest'attività all'inizio del ciclo elettorale è riuscita a influenzare non solo i candidati democratici, ai quali era diretta, ma anche l'opinione pubblica? Alla fine delle primarie, fra gli elettori comuni le divisioni sull'Iraq corrispondevano in maniera sorprendente a quelle sull'aborto. Come disse spiritosamente una volta Midge Decter, alla fine arriva il momento in cui bisogna unirsi alla propria parte. Se rovesciare il regime di Saddam Hussein deve essere considerato una battaglia nella guerra culturale, si tratta di una battaglia i cui contendenti erano definiti da molto tempo.

Ma la tesi del caso fortuito – del colpo di fortuna delle politiche elettorali – non esprime tutto quello che c'è da dire sul recente connubio di molti anti-abortisti e il grosso di chi vuole una politica estera attiva e etica. Fosse solo per cortesia verso persone serie come il biografo del Papa George Weigel e il direttore del Weekly Standard William Kristol, bisogna prendere in considerazione la possibilità che il semplice calcolo politico non sia l'unico motivo della recente fusione fra social conservatives e neocon. Da qualche parte nella comprensione più profonda di quello che l'America è – nella accurata consapevolezza di quello che servirebbe per invertire la lunga tendenza della nazione al disfattismo sociale – esistono delle ragioni che collegano il rifiuto dell'aborto e l'esigenza di una politica estera attiva e etica. Le cose avrebbero potuto seguire schemi diversi; le attuali divisioni fra liberals e conservatori non sono l'unico modo in cui si poteva spartire la torta politica. Ma non sono nemmeno frutto del puro caso.
Gli avversari dell'aborto e dell'eutanasia sostengono che vi siano delle verità sulla vita e sulla dignità umana sulle quali non si può transigere in politica interna. Chi si oppone all'islamofascismo e al governo del terrore, sostiene che vi siano delle verità sulla vita e sulla dignità umana sulle quali non si può transigere in politica internazionale. Perché non avrebbero dovuto avvicinarsi? Il desiderio di trovare serietà intellettuale e morale in un campo, può generare il desiderio di trovarla anche in un altro.

Esistono molti modi per convincere gli americani a rifiutare la sentenza Roe v. Wade, ma uno di questi è ricordare che gli ideali fondanti della nazione sono veri e che vale la pena difenderli contro i nemici della libertà in tutto il mondo. Esistono molti modi per risvegliare il sentimento di una missione nazionale: uno è quello di fare appello alla voglia di disfare il nostro regime abortista ordinato dalla magistratura. Nel neo fusionismo i social conservatives e i neocon non sono in evidente contraddizione. Il desiderio di risvegliare il patriottismo americano, la lotta contro l'aborto, il fastidio per l'elitismo datato di una magistratura arrogante e la guerra in Iraq sembrano essere diventate questioni curiosamente interdipendenti.
Negli anni uno degli spettacoli meno edificanti nel conservatorismo americano è stata la determinazione con cui i neofiti denigrano i membri più anziani. Per decenni la soft left in America ha avuto sensi di colpa proprio per il suo essere soft: sembra che gli estremisti riescano sempre a fare sentire i moderati un po' colpevoli. Anche a destra ci sono stati dei sensi di colpa, ma stranamente anche questi avevano a che fare con la sinistra. Sembra che ognuno a destra senta la necessità di trovare un gruppo ancora più a destra al quale contrapporsi. Se il motto dei liberals in America è più o meno “nessun nemico a sinistra”, quello dei conservatori sembra essere “nemici solo a destra”.

Come convivere sotto la big tent
Alcune personalità hanno cercato di tenere insieme tutta la caotica collezione di rifugiati. Ronald Reagan con la sua big-tent del Partito repubblicano, per esempio, e Frank Meyer, che usò la parola “fusionismo” per parlare dei giornalisti libertari e tradizionalisti che faceva lavorare insieme quando era direttore della National Review negli anni Cinquanta e Sessanta. E Robert Bartley che aprì a una varietà di conservatori le pagine degli editoriali del Wall Street Journal, che diresse negli anni Novanta. Ma in genere, quando i politici e gli esperti americani hanno un impulso conservatore, si sentono in obbligo di iniziare distinguendosi dal resto del conservatorismo. C'era un periodo negli anni Ottanta, per esempio, in cui quasi ogni articolo dell'apparentemente liberal New Republic, iniziava con: «Non sono uno di quegli orribili conservatori e non voterei mai per un repubblicano, ma in fondo l'idea di riformare il welfare ha delle basi» – o il rafforzamento dell'esercito, o la sfiducia nell'Onu o qualsiasi altro fra una dozzina di temi conservatori.
Così i neoconservatori spiegano cosa c'è di deprecabile nei libertarians, mentre questi accusano i social conservatives, e così via. Nel 2003 David Frum, in un articolo sulla National Review che fece molto clamore, dichiarò che gli isolazionisti paleoconservatori «avevano voltato le spalle al paese. Ora noi voltiamo le spalle a loro». In un successivo saggio pubblicato su Public Interest, Adam Wolfson adottò una linea molto simile, sebbene più gentilmente, rifiutando le credenziali conservatrici dei paleoconservatori.

Alcune di queste puntualizzazioni sono naturalmente necessarie. Bisogna bandire quei pochi antisemiti e neosecessionisti del Sud ai margini della destra, e bisogna ammettere che le differenze fra i paleoconservatori di Pat Buchanan e gli analisti neoconservatori del Project for the New American Century spaccano in due la politica americana. Ma qui emergono le caratteristiche del nuovo fusionismo. Il movimento pro-life non negherebbe mai la patente di conservatori agli attivisti in politica estera, a meno che questi non si mettessero a strombazzare il loro sostegno all'aborto. E i neoconservatori non bandiranno mai i social conservatives, se questi non piantano una grana opponendosi all'intervento in Medio Oriente. Si potrebbe dimostrare la stessa cosa facendo un esempio negativo: il famoso attivista omosessuale e blogger Andrew Sullivan era inizialmente un forte sostenitore di una politica estera americana aggressiva dopo gli attacchi dell'11 settembre. Alle elezioni del 2004, però, era diventato un accanito oppositore delle politiche del presidente Bush. E pur avendo cercato a volte di mettere in relazione la sua conversione con preoccupazioni su questioni fiscali, alla fine è stata la sua incapacità di far parte di una coalizione con i social conservatives a obbligarlo a una posizione anti-Iraq. Ha persino seppellito la sua posizione anti-abortista di un tempo, un argomento che ora discute di rado. Ma il nuovo fusionismo si vede soprattutto nei risultati. “Neoconservatore” è una parola il cui significato ha subito dei cambiamenti nel corso degli anni. Nacque negli anni Settanta, quando il socialista Michael Harrington la coniò per descrivere alcuni giornalisti e personaggi pubblici che si spostavano da sinistra a destra su una serie di questioni - spesso partendo dal tasso di criminalità fuori controllo in quei tempi: «liberals aggrediti dalla realtà», come recita la famosa frase di Irving Kristol. Alla fine degli anni Novanta, però, la parola “neoconservatori” era quasi scomparsa, se non per descrivere un momento storico, venti anni prima, quando – come disse scherzosamente Jonah Goldberg della National Review – «un gruppo di ebrei sofisticati e di cattolici intellettuali... cambiò un'ideologia con un'altra». E poi, improvvisamente dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, la parola era di nuovo in voga nel vocabolario delle classi che parlano, usata questa volta per descrivere chi (in particolare chiunque avesse il minimo rapporto con gli studiosi della University of Chicago del filosofo politico Leo Strauss) chiedeva che si rovesciasse Saddam Hussein in Iraq.

Intendendo la parola sia nel vecchio che nel nuovo senso, dovremmo notare almeno un vistoso cambiamento: quelli che vanno sotto il nome di neoconservatori sono molto più contrari all'aborto rispetto a dieci anni fa. Vi è stato uno spostamento lungo lo spettro. Quelli che inizialmente erano saldamente abortisti ora sono a disagio, quelli che inizialmente erano a disagio oggi lo sono ancor di più, e quelli che all'inizio erano moderatamente anti-abortisti oggi lo sono in maniera netta.
Forse è stato per tutto il tempo passato con i cattolici, o forse per le preoccupazioni sulle biotecnologie portate alla luce da Leon Kass e altri, ma – qualsiasi parola usiamo per descrivere il gruppo – i neoconservatori recentemente, grazie all'alleanza con i social conservatives, sono arrivati ad accettare che la posizione pro-life occupa un posto centrale in ogni teoria conservatrice. Nel frattempo sono cresciuti anche i social conservatives. Quando gli evangelici irruppero sulla scena politica negli anni Settanta, sapevano a malapena cosa significasse “politica estera”. Ma ora «non si riescono a capire le relazioni internazionali senza di loro» come ha scritto Allen Hertzke in Freeing God's Children, il rapporto del 2004 sull'impatto religioso americano nel resto del mondo. Dal deputato della Virginia Frank Wolfe al senatore del Kansas Sam Brownback, i conservatori religiosi a Washington hanno condotto la battaglia contro il traffico sessuale internazionale e una serie di altre violazioni dei diritti umani. Hanno raggiunto risultati concreti nel Sudan meridionale e si stanno sforzando di fare lo stesso nella regione del Darfur, nel Sudan occidentale. Ben diversamente dalle loro controparti democratiche, hanno dimostrato il loro impegno per i diritti umani nella Corea del Nord e in Cina. «I membri della destra cristiana, esemplificati da Brownback», ha ammesso controvoglia il giornalista di sinistra Nicholas Kristof sul New York Times lo scorso Natale, «sono i nuovi internazionalisti, sempre più impegnati per le cause umanitarie all'estero».

E poi c'è Israele. «Nessuno al di fuori della comunità ebraica ha dato maggiore sostegno a Israele della comunità cristiana evangelica», ha notato improvvisamente il Jerusalem Post nel 2002, ma il fenomeno era cresciuto negli anni. Forse tutto è iniziato per l'interesse dei credenti nella profezia apocalittica biblica sulla Terra Santa e sulla seconda venuta di Gesù Cristo. Ma pensare che tutto si riduca a questo, vuol dire ignorare tutto quello che negli ultimi anni la destra religiosa ha fatto per i diritti umani e a sostegno delle riforme democratiche. Il successo di Israele – l'unica vera democrazia del Medio Oriente prima dell'intervento americano in Afghanistan e Iraq – viene considerato dai social conservatives come un modello da copiare.

La guerra culturale contro il relativismo
«Per ricostruire le fondamenta morali dell'America, alla fine, è necessario fare la stessa operazione con la politica estera americana, perché entrambe discendono dalla convinzione che i principi della Dichiarazione di Indipendenza non siano semplicemente la scelta di una particolare cultura, ma verità ovvie, universali e permanenti», hanno scritto nel 1996 William Kristol e Robert Kagan sulla rivista Foreign Affairs. «In fondo questo è stato il motivo principale della guerra conservatrice contro un multiculturalismo relativista. Predicare l'importanza di sostenere gli elementi fondanti della tradizione occidentale a casa propria, e poi professare indifferenza per il destino dei principi americani all'estero, per i conservatori è una mancanza di coerenza che non può che erodere il conservatorismo dall'interno».

È un comportamento che Kristol e Kagan hanno occasionalmente messo alla berlina da allora, ma qui si rintraccia una verità pratica su come i movimenti morali crescono in una cultura, colonizzano campi vicini e raccolgono sostenitori. Si potrebbero richiamare varie esperienze americane, ma l'esempio più chiaro è forse la ricostruzione morale wesleyana della società inglese e il suo ben documentato rapporto con la campagna britannica contro la schiavitù, nel Diciottesimo e all'inizio del Diciannovesimo secolo. Ancora di più al livello della teoria politica, c'è un collegamento fra quello che si fa nel proprio paese e quello che si fa all'estero, o almeno fra le posizioni che ci fanno mettere in pratica alcune politiche interne e le posizioni che guidano la nostra politica estera. È improbabile che una nazione, che non riesce a compattare la volontà politica di proibire almeno una forma particolarmente crudele di aborto, riesca a perseverare nella faticosa costruzione della democrazia mondiale, solo perché sembra una cosa morale. E una nazione che non riesce a credere che i suoi ideali fondanti siano veri per altri, probabilmente si rivelerà incapace di mantenere quelli ideali per se stessa.
L'abolizione dell'aborto e la promozione attiva della democrazia hanno più in comune, secondo me, di quanto si pensi normalmente. Ma pur essendo ben distinte a livello filosofico, entrambe esigono che si capovolga la mancanza di nerbo che ha imperato in America almeno dagli anni Settanta, e il successo di una potrebbe innescare il successo dell'altra.

L'obiettivo in entrambi i casi è quello di ridare la fiducia in – in cosa esattamente? Non nella nostra infallibilità, è chiaro. Ma non possiamo neanche continuare a vivere con la nozione della nostra inevitabile fallibilità. Dobbiamo ricominciare a credere nella possibilità di essere nel giusto. C'è un motivo per cui la rivista cristiana di sinistra Sojourners nacque negli anni Settanta con il nome di Post-Americanism. In quei giorni sembrava che molti attivisti religiosi non riuscissero più a distinguere un sano patriottismo dalle ideologie assassine del nazionalismo e, con una buona dose di strabismo, il disfattismo sociale appare come una versione temporale della dottrina cristiana del peccato originale. Il risultato fu molto diverso da quello che speravano: una cinica di Realpolitik all'estero e una cultura della morte nel nostro paese.
Nel neo fusionismo fra social conservatives pro-life e neoconservatori un numero di questioni tradizionali sembrano, se non scomparse, almeno attutite. Dove si collocano la riforma fiscale, l'assistenza sociale e l'equilibrio del budget in tutto questo? Dov'è l'attenzione all'economia, che una volta definiva le radici del conservatorismo americano?
Forse non hanno rilevanza perché, per quanto importanti, non gravano sulla questione urgente del disfattismo sociale, sui cambiamenti profondi che potrebbero risvegliare e moralizzare la nazione. La sola cosa che tanto i social conservatives quanto i neoconservatori sanno, è che questo progetto ha la precedenza.

Probabilmente i paleoconservatori isolazionisti hanno ragione ad arrabbiarsi: questo non è conservatorismo in molti dei più vecchi sensi della parola. E allora? Chiamatelo neo moralismo, se volete. Chiamatelo liberalismo mascherato o un tipo di radicalismo che bizzarramente si è impadronito del panorama americano. Borbottate a denti stretti, se vi va, per il matrimonio riparatore fra ex socialisti e puritani moderni, la cinica unione politica fra avventurieri imperialisti, reazionari cattolici e evangelici arretrati. Ma il fatto resta: il sentimento di una missione nazionale rinato dalla vigorosa reazione agli attentati dell'11 settembre, potrebbe contribuire a unire le forze per fermare il massacro di milioni di bambini non nati ogni anno. E l'energia della battaglia per la vita – la causa etica fondamentale del nostro tempo – potrebbe far rinascere la fede nel grande esperimento americano.

 

Traduzione dall'inglese di Barbara Mennitti.

© First Things. Reprinted and transleted by permission. L'articolo è comparso sul numero di giugno-luglio 2005 con il titolo “The new fusionism”. Indirizzo del sito internet: www.firstthings.com.



Joseph Bottum, direttore del mensile statunitense First Things.

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