Alla fine degli
anni Ottanta e nei primi anni del decennio successivo, il dibattito
sull’Europa unita ha subito una profonda modificazione per tre precisi
motivi. 1) La fine della Guerra Fredda ha determinato la rottura di una
consolidata stabilità internazionale ed anche l’Europa ha dovuto rivedere i
suoi equilibri sia interni che esterni. All’interno si è affievolita la
centralità dell’asse franco-tedesco, intorno al quale per oltre un
cinquantennio ogni ipotesi d’integrazione è avanzata. All’esterno è divenuta
superflua – soprattutto dopo l’11 settembre – ogni ragione di immaginare la
propria collocazione in rapporto all’equilibrio bipolare, o anche soltanto
al suo “residuo”. Si tratta, dunque, di pensare ad un’Europa nuova in un
ordine mondiale nuovo ed ancora da stabilizzare. 2) La disgregazione
dell’impero sovietico ha posto l’esigenza pratica di un allargamento ben più
cospicuo di quelli praticati a partire dagli anni Settanta, per offrire ai
Paesi dell’Est ex satelliti sovietici un punto di riferimento e di
ancoraggio. L’Europa dei Sei è un ricordo del passato. Così come quella dei
Tredici. Ogni progetto politico ed istituzionale deve tenere conto che tra
qualche anno l’Europa dei Trenta diventerà una realtà. 3) Il Trattato di
Maastricht ha indicato la strada per condurre in porto l’integrazione
economica, ponendo le premesse per ampliare la distanza tra la realtà
dell’Europa economica e quella dell’Europa politica. Questa circostanza ha
un duplice effetto concreto. Da un canto, pone con maggiore urgenza il
problema di costruire un secondo pilastro che possa tenere l’intera
costruzione in equilibrio. Dall’altro, rappresenta un indubbio ostacolo
lungo questa strada, in quanto nessuna costruzione politica potrà
prescindere dal fatto che dodici Paesi hanno una moneta comune, mentre gli
altri (tra i quali quelli il cui prossimo ingresso è ormai certo ed
imminente) ne dovranno fare a meno.
Se si guarda alle scadenze dell’ultimo periodo – e anche agli impegni presi
e ai vertici che hanno preceduto i lavori della Convenzione – ci si
accorgerà come questi mutamenti epocali abbiano determinato un cambiamento
di fase ed anche di metodo. L’Europa che è stata formata lentamente fino al
Trattato di Nizza seguiva ancora nella costruzione quello che si può
chiamare il “metodo Monnet”, cioè quello di creare lentamente le minime
istituzioni possibili, adeguate ai problemi che si intendevano risolvere.
Nizza fa un passo in avanti, seppure con qualche delusione rispetto alla
questione del Bill of Rights, la Carta dei diritti fondamentali, in quanto
pone chiaramente nell’agenda politica dell’Europa la stesura di una
Costituzione: tutti i quattro temi che vengono richiamati nella
Dichiarazione di Nizza, in particolare nella Dichiarazione n. 23, sono
tipici temi di una Costituzione europea ed anzi, direi, di una Costituzione
federalista europea (basta ricordare il tema della devoluzione, dei rapporti
tra Istituzioni europee e Parlamenti nazionali). Con Laeken invece non si
parte più dalla Costituzione federale, ma si cominciano ad enunciare i
problemi, le esigenze, le questioni sul tappeto, i bisogni dei cittadini, e
in corrispondenza di ciò si pone la questione di quali nuove istituzioni
europee, o di quale semplificazione di quelle esistenti, noi dovremmo
costruire. Io credo che questo sia un buon metodo e mi sembra che, fino ad
oggi, la Convenzione europea abbia cercato di adeguarsi a questa regola. Si
tratta di un metodo concreto, perché parte da questioni reali. E’ un metodo
critico, perché sulle questioni reali consente il dibattito ed il confronto.
E’ un metodo cauto, perché invita alla prudenza (quando si parla di
questioni reali e ci si confronta si trova un terreno comune ma si trovano
anche le obiezioni). E’ anche un metodo da ingegneria istituzionale
congetturale, cioè non illuministico: un metodo che cerca di individuare
quali sono le istituzioni più adeguate o quale semplificazione delle
istituzioni può essere più adeguata, senza pensare che questa sia la
migliore o l’unica soluzione possibile e quindi dando spazio alle eventuali
revisioni di errori che possono essere stati commessi o di inconvenienti che
possano verificarsi.
E’ grazie soprattutto a questa regola che nell’ultimo periodo, in tema
d’Europa, sono diminuite le divisioni improprie: si è attutita la più
impropria di tutte che è quella tra gli euroscettici e gli euroentusiasti
(oppure tra gli eurofili e gli eurocritici), è scomparsa quella tra
federalisti e confederalisti. Si è compreso, finalmente, che nell’Europa dei
Trenta, a differenza che nell’Europa dei Sei, la palma non potrà andare né
agli uni né agli altri, e sarà necessario uscire dai confini delle soluzioni
teoriche per cercare soluzioni che riescano a rispondere con efficacia a
delle soluzioni concrete.
L’Europa forte ma leggera
Con la Convenzione siamo entrati, finalmente, nella fase operativa, nella
quale si avverte un grande bisogno sia di visionari che di critici, di
architetti e di manovali, di profeti ma anche di infedeli (dove gli
“infedeli” non sono coloro che hanno un atteggiamento pregiudiziale
contrario, ma coloro che si pongono il problema se le soluzioni proposte
siano adeguate, sufficienti, e così via). Naturalmente anche gli infedeli
devono usare linguaggi opportuni, toni giusti, riflessioni pacate, perché
ciò consenta alle loro obiezioni di essere di aiuto più di quanto non lo
siano critiche di carattere pregiudiziale. Ho sostenuto che l’Europa ha
bisogno di profeti e anche di utopisti. Credo però che, se vogliamo, come
dobbiamo, coltivare questa generosa utopia che è l’Europa, specialmente
adesso che si è entrati in fase operativa, allora dobbiamo essere molto
prudenti e molto cauti. Se cominciamo con il volare basso, credo che
arriveremo molto in alto. Dobbiamo evitare la sirena dei grandi disegni, dei
grandi modelli magari animati dalle più generose intenzioni e prese di
posizione, perché essi potrebbero produrre con il tempo divisioni
artificiose, generare tensioni, conflitti, crepe, che ci allontanerebbero
dall’effettivo conseguimento dell’integrazione europea. Chi vuole questa
integrazione europea, e io sono tra coloro che la vogliono, deve
raccomandare il metodo gradualista, step by step. Indicato l’obiettivo,
dobbiamo usare quegli strumenti intermedi che ci consentano, laddove
avessimo individuato una difficoltà, di fare immediatamente delle correzioni
senza far fallire l’intera impresa.
Il metodo influenza inevitabilmente l’obiettivo finale, che dev’essere
ispirato a pragmatico realismo. Per questo ho coniato la formula light but
strong. Leggera ma forte vuol dire questo: l’Europa deve essere forte, e
quindi deve dotarsi di un’istituzione esecutiva in grado di esercitare
un’azione incisiva nell’ambito di alcune funzioni essenziali. Mi riferisco
in particolare alla politica estera e alla sicurezza esterna, al governo
dell’economia, alla sicurezza e giustizia interna. Io credo che su questi
tre ambiti, che peraltro costituiscono anche dal punto di vista filosofico
le tre funzioni essenziali degli Stati, l’Europa dovrebbe seguire un metodo
non intergovernativo ma comunitario. Per quanto concerne queste tre
funzioni, dunque, bisogna essere strong, very very strong. Bisogna, invece,
essere light per il resto. Per sostenere quest’ultima tesi mi asterrò dal
ripetere l’umoristica semplificazione delle direttive sulle banane, i
lupini, i pomodori. Mi limiterò ad affermare come in questi ed anche in
altri ambiti bisogna essere disposti a concedere molto agli Stati e alle
loro articolazioni, sulla base del principio della devoluzione o della
sussidiarietà. Mi preoccupano poco, anche se risultano molto accese, le
discussione sui pomodori e sull’unificazione degli standard alimentari. So
che si tratta di cose importanti in un mercato comune. So anche che in
passato su questi temi si sono consumate crisi decisive nell’ambito della
Comunità. Ritengo, però, che su questioni come queste possano essere trovate
soluzioni anche a livello nazionale o addirittura a livello regionale e
credo, in ogni caso, che non è da questa strada che il segno della nuova
Europa possa incidersi. Esso, invece, non potrà prescindere dalle tre
funzioni essenziali prima citate: questa è l’ambizione che ci deve muovere
tutti.
Naturalmente, per le tre funzioni essenziali debbono essere previste
istituzioni adeguate. Dovremmo provare a semplificare quelle attualmente
esistenti; diffidare dalle intenzioni ricorrenti di crearne delle nuove;
ricondurre tutto ciò che non serve per i compiti fondamentali delle nuova
Europa agli Stati o alle regioni. Non sarà facile. Tutti sanno che quando
un’istituzione esiste vi è un’inerzia interna a quella istituzione che la fa
sopravvivere, anche quando perde la sua funzione. Per quanto concerne la
semplificazione delle istituzioni, però, dovremmo essere molto coraggiosi.
Noi europei abbiamo da difendere una grande tradizione culturale. Ci
appartiene una parte consistente della storia del progresso scientifico,
tecnologico, civile e democratico. In questa storia noi dobbiamo trovare le
nostre radici ed in questa storia noi dobbiamo pescare. La Convenzione si è
posta su questa strada. Se essa saprà usare la prudenza, il pragmatismo,
l’empiricità che occorrono, allora potrà avere grande e meritato successo.
Costituzione europea e costituzioni nazionali
Un problema sul quale si sta giustamente appuntando l’attenzione della
Convenzione è il rapporto tra la possibile Carta dei diritti fondamentali
europei e le Carte costituzionali nazionali. E’ un problema che si è
manifestato per la prima volta, a mio avviso, in malo modo e in un’occasione
inopportuna: quando si è parlato di un codice penale minimo europeo. In tale
occasione si sono infatti riscontrate delle discrasie – se non delle vere e
proprie contraddizioni – tra quello che a livello europeo si intende
scrivere in una Carta dei diritti, oppure in una Costituzione, e quello che
si trova già nelle Costituzioni nazionali. Trasformare o introdurre in una
costituzione nazionale una norma che affermi che qualunque altra norma di
livello europeo superiore diventa di per sé disposizione del nostro
ordinamento è più facile a dirsi che a realizzarsi, perché mobilita
naturalmente l’opposizione delle culture e della storia della nazione. E’
possibile esemplificare questa resistenza, che non è resistenza programmata
ma che, invece, esiste nei fatti: noi siamo stati il primo paese a
ratificare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che fu sottoscritta
a Roma nel 1950. Questa Convenzione peraltro, contiene moltissimi diritti
che si sono poi ritrovati nel Bill of Rights europeo. Ebbene, nonostante
ciò, siamo un Paese che per circa cinquant’anni ha discusso a livello della
Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale quale fosse lo statuto
delle norme contenute in questa importantissima Convenzione, la maggior
parte delle quali dovrebbe diventare la Carta dei diritti fondamentali dei
cittadini europei. Quelle norme sono sempre state un po’ nel limbo: non
erano norme di rango costituzionale, non erano leggi di carattere ordinario,
erano qualcosa di intermedio. Sta di fatto che praticamente non si sono mai
applicate.
Dopo la Convenzione: la nuova Europa e la sovranità popolare
Qualcosa di molto diverso è accaduto in Inghilterra che pure è un paese
propriamente eurocritico se non addirittura euroscettico, per quanto
riguarda lo Human Rights Act, che altro non è se non la ratifica effettuata
dall’Inghilterra della Convenzione del 1950. In Inghilterra è stato definito
nettamente quale è il rango di quelle norme, come debbano essere applicate,
quali di esse possano non essere applicate, che cosa succede nel momento in
cui un magistrato inglese si trovasse di fronte ad una obiezione, nella
difesa o nell’esame di un cittadino inglese, che riguardasse quella Carta
dei diritti fondamentali che, appunto, è diventata lo Human Rights Act.
Certo: in Inghilterra non c’è una Costituzione scritta, e quindi non c’è
bisogno di un processo di revisione costituzionale. Noi abbiamo una
Costituzione scritta e dobbiamo fare revisioni costituzionali adeguate se
introduciamo norme sovraordinate, soprattutto riguardanti diritti
fondamentali, all’ordinamento nazionale. Non sono ostile rispetto a questa
prospettiva di revisione, ma pretendo piena consapevolezza. E aggiungo che
non tutto quanto possiamo scrivere nella Carta fondamentale dei diritti
europei è compatibile ad litteram con quello che è scritto nella
Costituzione italiana, anche perché quest’ultima è notoriamente una
Costituzione dettagliata e analitica. Pensare che qualunque cosa venga
scritta in Europa risulti ipso facto compatibile con le norme del nostro
ordinamento, anche costituzionale, è una illusione che potrà provocare dopo,
se non ci si pensa in tempo, enormi difficoltà.
Vorrei, infine, concentrarmi su una questione di procedura che acquisirà nel
prossimo anno una grande centralità. Il fatto che vi sia stato un deficit
democratico nella costruzione dell’Europa è un refrain sin troppo ascoltato.
La Convenzione rappresenta un grande passo avanti sulla via di come ovviare
a questo deficit, perché non coinvolge oltre cento persone, tutte altamente
rappresentative dei Parlamenti e dei governi degli Stati coinvolti nel
processo d’integrazione, e di quelli che lo saranno a partire
dall’allargamento. Vi è, però, un problema davvero importante che sta
nascendo, che ho avuto anche modo di trattare con i senatori presso la
Convenzione, e sul quale ho condotto una vittoriosa battaglia alla
Conferenza dei presidenti dei Parlamenti dell’Unione europea e dei Paesi
candidati, riunitasi a Madrid nello scorso mese di giugno: alla fine dei
lavori della Convenzione (che noi auspichiamo entro i tempi prestabiliti),
soprattutto se essa su alcuni punti e nodi importanti avrà dato più di una
opzione – come forse è opportuno che faccia – quando entrano in gioco (se
entreranno in gioco) i Parlamenti nazionali? E i popoli europei? Sarà
previsto nient’altro che un passaggio parlamentare per una scontata
ratifica? I Parlamenti nazionali, rispetto al documento della Convenzione,
saranno esonerati e tutto si deciderà a livello dei governi? Ci saranno dei
referendum, come è probabile che qualcuno chieda? E le articolazioni degli
Stati nazionali, le regioni, le autonomie locali, come saranno coinvolte?
Credo che allora si giocherà una partita decisiva per la democrazia della
nuova Europa. E’ fondamentale che i Parlamenti nazionali possano discutere
le risultanze della Convenzione, formulare giudizi ma anche ipotesi di
suggerimenti in vista della successiva conferenza intergovernativa. E’
possibile che lo facciano senza per questo modificare l’agenda prevista per
la conclusione e l’approvazione del nuovo assetto istituzionale europeo. Non
si tratta di una graziosa concessione, ma di un passaggio essenziale. La
nuova Europa deve nascere rispettando la sovranità del popolo ed i suoi
rappresentanti. Lo deve alla sua tradizione, lo deve al suo futuro
democratico.
(c) Ideazione.com (2006)
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